S T O R I A

S  T  O  R  I  A

e-mail: nerio.decarlo@libero.it

Storia 2

CAMILLO DE CARLO, 007 A NORDEST.

E’ possibile ricostruire l’attività informativa o spionistica, secondo i punti di vista, di Camillo De Carlo, consultando le sue memorie. La sua presenza a Tetuan (Marocco) fin dal 1939 accenna alla intenzione dell’Italia a partecipare alla seconda guerra mondiale circa sei mesi dopo. Le informazioni riguardavano sia l’esercito francese, già alleato prezioso durante la Grande Guerra, sia la flotta navale inglese che sarebbero diventati gli avversari futuri. – Le fonti erano costituite da pescatori attivi nello stretto di Gibilterra. Tutto veniva comunicato all’ Ambasciata italiana di Madrid, la quale era incaricata di informare Roma. De Carlo fu capo del Servizio Italiano Militare fino al marzo 1942 e si conoscono anche i nomi dei suoi cinque collaboratori. – L’attività si intensificò successivamente in Spagna, dove operava il servizio informazioni tedesco. I nomi e i profili dei vari componenti costituiscono un mosaico di personaggi operanti nell’ombra, ma determinanti per le sorti della guerra. Sorprendente risulta il comportamento dei corrieri diplomatici spagnoli, distratti mentre le informazioni uscivano dalle loro valigie e attenti mentre riscuotevano i relativi compensi. Interessante appare, inoltre, la descrizione dell’ Ammiraglio tedesco Canaris, incontrato a Madrid nel 1941. Il 18 agosto 1943 De Carlo ritornò a Roma. C’era già stato il 25 luglio con la deposizione di Mussolini e il contestuale subentro di Badoglio. La situazione doveva essere molto incerta e fluida. L’armistizio dell’8 settembre era alle porte. C’ erano in verità informazioni che lo prevedevano per il 7 settembre. Lo testimonia la bozza dei provvedimenti che il Consiglio dei Ministri avrebbe adottato nella seduta del 9 settembre, per la quale non ci sarebbe stato il tempo materiale se la data fosse stata quella ufficiale! Come si può comprendere, la gestione dell’alleanza con la Germania diventava sempre più difficile. “La guerra per noi continua nello spirito dell’alleanza”, aveva telegrafato personalmente Badoglio a Hitler confermando la precedente decisione adottata dopo la caduta di Mussolini. Era tuttavia impossibile che i tedeschi credessero alla “parola data”. Anche De Carlo non era all’inizio favorevole ad un voltafaccia. Fu Mario Badoglio, figlio del presidente del Consiglio, a tentare una convinzione con sottigliezze verbali. “Solo l’onore fascista e non quello italiano è impegnato con la Germania”, si legge nelle memorie citate in premessa. Non è lecito sapere quali dimensioni avessero i due generi di “onore” e quale prevalesse sull’altro. C’è da giurare però che, se la Germania avesse vinto la guerra, ogni distinzione tra i due “onori” sarebbe sparita per lasciare il posto alla comune vittoria. A pensar male si commette peccato, ma s’indovina, è stato autorevolmente sostenuto. Camillo De Carlo aveva il grado di Maggiore per le forze armate tedesche, come risulta da un’importante onorificenza militare germanica conferitagli il 5 giugno 1939. Egli era, inoltre, un conoscitore d’ arte in grado di scegliere un dipinto di pregio da donare personalmente all’Ammiraglio Canaris. Il gesto doveva significare stima e vicinanza per gli alleati tedeschi, prima che questi fossero improvvisamente dichiarati nemici dopo l’imminente armistizio e, soprattutto, con la successiva dichiarazione di guerra. Come la dicotomia Fascismo – Italia aveva fatto breccia in lui, egli tentò di far valere con i Tedeschi la diversità tra Nazismo ed Esercito, ma ottenne l’avvertimento che la mancata osservanza dei patti avrebbe avuto gravi conseguenze. Per la cronaca, il famoso quadro non fu recapitato a Canaris com’era stato promesso, in quanto l’annuncio dell’armistizio sconsigliò un viaggio in Germania, come si può facilmente comprendere. Anche un incontro di De Carlo con il Feldmaresciallo Erwin Rommel a Garda, inteso a rassicurare la fedeltà italiana nonostante le novità politiche, andò a vuoto. Tanto, la Volpe del deserto non ci avrebbe comunque creduto! Dopo un giorno di permanenza a Vittorio Veneto, il viaggio di De Carlo ebbe luogo, ma la destinazione era cambiata.- “A Roma seppi che il Re e Badoglio si erano allontanati”, si legge nelle memorie. Non viene usato il termine “scappati” mentre la città veniva bombardata. Seguirono alcune prudenze, come il pernottamento presso la contessa Falzacappa (non amata suocera di Camilla, sorella di Camillo) anziché nel lussuoso hotel romano Excelsior. Il tutto si concluse poi con il trasferimento a Ussita (Macerata) per seguire il Re e Badoglio. De Carlo sarebbe ritornato a Vittorio Veneto.

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mammefalco pescatore

STALIN  AI  COMUNISTI  SPAGNOLI:”ARRENDETEVI!

Camillo De Carlo, protagonista e medaglia d’oro vittoriese della Grande Guerra, non lasciò molte cose scritte. Il libro “Noi non per noi” pubblicato nel 1927, il manoscritto inedito “La casa di fronte” del 1948 e pochi appunti ogni tanto (37 pagine di una specie di diario) sono quasi tutto. Sul manoscritto si potrebbe cercare di arguire chi fosse in realtà la bambina Giovanna. Negli appunti, redatti con grafia impermeabile, ci sarebbe una vistosa e incomprensibile  distrazione anagrafica. Si comprende come la penna possa tradire talvolta l’intenzione. Egli parlò invece molto. Non con tutti, s’intende. Per talune considerazioni, tra le quali la verità sulla fine della Grande Guerra (che ancora si fa finta di ignorare nonostante la pubblicità  rappresentata dagli Atti del processo di Beatificazione dell’Imperatore Carlo I) ci sarebbe stata la raccomandazione di De Carlo di non parlarne fino al 1998, trent’anni dopo la propria morte. Tutto ciò perché ci sono storici che fanno la faccia scura per non mettere a repentaglio il profilo della storia ufficiale. Tuttavia, anche se non la si cerca, la storia vera ci viene addosso. E’ noto che il personaggio fu impegnato nella guerra civile spagnola con il grado di Maggiore. A tale proposito egli ritenne che la vittoria dei Franchisti e de loro sostenitori fosse piuttosto da attribuirsi ad un orientamento di Stalin. Il dittatore sovietico avrebbe ordinato il disimpegno e la resa della Repubblica Spagnola, sostenuta dalle brigate comuniste internazionali, per meglio concentrarsi nella preparazione del conflitto con la Germania. Siffatta decisione ridimensionerebbe la responsabilità per quanto riguarda alcuni propositi di aggressione, sempre attribuiti a una sola parte nell’ambito della seconda guerra mondiale. Questa notizia riguarderebbe la stampa. Nel 1937 le autorità franchiste, in sintonia con il regime italiano, ordinarono un entusiasmo ad orologeria, per così dire, per celebrare la battaglia di Santander. I cronisti si comportarono però in maniera differente a quanto avevano fatto nel 1918, allorché molte verità furono taciute per disposizione dei comandi militari. La stampa avrebbe stavolta ridimensionato la vittoria franchista. La fine della guerra di Spagna avrebbe avuto un seguito sorprendente. La solidarietà comunista si sarebbe trasferita, un paio d’anni più tardi, in Africa Orientale occupata dagli Italiani. Per appoggiar la guerriglia contro gli occupanti tricolori sarebbe stato inviato nella regione del Goggiam un compagno toscano che si era distinto nella battaglia di Guadalajara, dove i Franchisti erano stati sconfitti. Il personaggio si chiamava Ilio Barontini. Egli convinse in breve tempo il Negus Hailè Sellassiè a formare un governo provvisorio, ottenendo in cambio la carica di Vice Imperatore d’Etiopia. Non fu cosa da poco. Un Vice Imperatore doveva però disporre di una struttura operativa adeguata alla propria carica che, in questo caso, avrebbe compreso altri rivoluzionari di provata fede e competenza. Le cariche  furono coperte dai nuovi inviati Bruno Rolla e Anton Ukmar. Quest’ultimo era originario di Gorizia. Bisogna ricordare che i miliziano abissini erano religiosissimi e influenzati da preti copti convinti che i rivoluzionari europei fossero degli Apostoli accorsi in loro aiuto per opera della provvidenza. Il trio sarebbe ritornato in Europa nel 1940, quando l’Italia dichiarò la guerra a Francia ed Inghilterra e l’avventura coloniale, capace di costruire immense opere in poco tempo come si diceva, cessò. Certa scuola e i suoi nipotini divennero orfani di tanta e tale intraprendenza, la quale aveva dell’inverosimile (ferrovie con tanto di locomotiva a vapore, ospedali, porti…- Ma per chi ci hanno presi? L’unica eccezione alla credulità rimane sempre l’incredulità). Si potrà obiettare che la scuola non può  avere nipoti. Non importa. Anche Paperino non ha nè fratelli nè sorelle, ma i nipoti ce l’ha, e come!  Si sa che i tre rivoluzionari continuarono nelle loro avventure, ma le rivelazioni di De Carlo non ne hanno fatto parola. (Il Piave, agosto 2005).

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civetta grigia

R I C O R D A T I    D I    M E    C H E    S O N    L A    S P I A

Presso la sede romana del Servizio Informazioni delle FF.AA. esiste un piccolo Sacrario, dove si trova anche la fotografia di Camillo De Carlo, medaglia d’oro vittoriese della Grande Guerra. L’informazione proviene da una lettera inviata all’interessato dal Generale De Lorenzo in data 11 settembre 1957. Lo scritto comunica anche una specie di battimano con i guanti, cioè la concessione della medaglia d’oro del SIFAR “come ricordo a coloro che ne hanno fatto parte e che a maggior ragione ritengo doveroso offrire a chi più di ogni altro ha meritato“. Da quanto risulta nelle memorie scritte, Camillo de Carlo fu capo del SIM in Spagna dal maggio 1941 al marzo 1942, dopo essere appartenuto al MIS fin dal dicembre 1939. Il ritorno a Roma avvenne il 18 agosto 1943 e gli fu subito consegnata la convocazione di Pietro Badoglio, divenuto capo del governo dopo il 25 luglio 1943 appunto. A De Carlo fu comunicato che “conveniva” trattare con l’ Inghilterra e con l’America, ma egli avanzò non poche “obbiezioni”, come si legge testualmente, le quali sarebbero state comunque superate sia dalla sua destinazione temporanea alle dipendenze della presidenza del consiglio in via di liquefazione, sia dalle insistenze del generale Carboni, conosciuto poco tempo prima. L’attività informativa o persuasiva, chiamiamola così, continuò certamente in favore di entrambi gli schieramenti, anche se limitata dalle circostanze.  Forse sarebbe però improprio chiamarla spionaggio nel vero senso del termine. Quali potevano essere state le “obbiezioni” di De Carlo? Mentre per la Principessa Mafalda di Savoia, reduce dal funerale di Re Boris di Bulgaria, fu una sorpresa trovare Villa Savoia deserta il 9 settembre 1943, non doveva essere difficile presumere, per un uomo navigato come De Carlo, che  il Re e il generale Badoglio si sarebbero “allontanati” da Roma con la Fiat 2800 in direzione di Ortona, e da qui in Puglia. Un telegramma in lingua inglese, pieno di errori ortografici e sgrammaticature,  fu inviato proprio dallo stato maggiore il 9 settembre alla stazione radio alleata di Algeri per informare che i fuggiaschi erano diretti a Taranto, dove avrebbero brigato per apparire cobelligeranti degli alleati, dichiarando guerra alla Germania. Questo dovette essere motivo di particolare imbarazzo per De Carlo. Vengono di seguito elencate le ragioni: 1)L’armistizio militare firmato il 2 settembre  a Cassibile fu in realtà una richiesta per schierarsi dalla parte dei vincitori e implicava per l’Italia, in attuazione di resa incondizionata, la privazione di qualsiasi iniziativa politica estera. Una dichiarazione di guerra sarebbe stata, dunque, priva di valore giuridico e con future ripercussioni sull’immagine storica del paese. Bisogna saper distinguere tra gloria e vanagloria. 2)La dichiarazione di guerra in tali condizioni non poteva essere accettata, non rientrando tra i poteri del governo del Re. Si imponeva una scelta, magari cercando il male minore. Certo, dal cambiamento di fronte derivavano non poche aspettative italiane di vantaggi a nor-est, una volta che la guerra fosse cessata, come accennato in una notevole opera sulle concentrazioni di ex jugoslavi anche dopo la caduta del regime nel luglio ’43, ma pianificata in data 12 agosto 1942. Un ritorno di De Carlo a Vittorio Veneto era da escludersi a causa di sue precedenti contiguità col regime. Non si dimentichi, inoltre e per assurdo,  che egli avrebbe potuto essere perseguito dalle leggi razziali del 1938. In fin dei conti ci sono sempre state Due Sicilie e un solo Veneto, avrà pensato, ed egli scelse le truppe del generale Montgomery diventando da Maggiore, quale era, Tenente Colonnello. Per il resto la storia non dice altro. E’ lo storico che parla per lei. (Il Piave, novembre 2005) camaleonte

 LA PACE IMPOSSIBILE DI CARLO I D’ ABSBURGO di Romana  de Carli Szabados.

PREFAZIONE di Nerio De Carlo:

Scrivere è un dono doloroso. La scrittura ha il diritto di scegliere e  perfino di sbagliare. Scrivere sul mito asburgico è stato a lungo  rischioso. Dopo autorevoli precedenti letterari la censura non  esisterebbe più: c’ è solo una serie di paletti per recintare la crescita  culturale. Si potrebbe maliziosamente sospettare che si temano i  confronti. Comprendiamo. Compito della scrittura è di fare luce dove  c’ è buio. Si scrive anche per capire perché si scrive. Questo libro ne è  una dimostrazione. Carlo I d’ Asburgo, ultimo Imperatore della Casa d’  Austria, viene presentato, nell’ agile prosa dell’ autrice, circondato  dagli avvenimenti del proprio tempo e della propria dinastia. Geniale e originale risulta l’ accostamento del suo destino con quello dell’ omonimo avo Carlo V. Interessante emerge poi la figura dell’Imperatrice Zita, tenace compagna e lucida consigliera per dieci anni fino alla morte del monarca. In sintonia con attuali vicende europee non esenti da preoccupazione, appare inoltre la citazione nel libro stesso della lettera del 16 ottobre 1914. Alla fine della missiva è infatti espressa una visione profetica circa le conseguenze che anche i vincitori subiranno dal successo. Sarebbe il caso di meditare. Particolare rilievo assume nell’ opera il costante desiderio di pace radicato nella persona di Carlo I, evidenziato dall’ autrice con una prosa di cui soltanto una donna è capace. Ciò non può essere disgiunto dal fatto che nel 2004 i popoli dell’ Impero Asburgico abbiano trovato una nuova forma di convivenza. Viene così realizzato l’ ultimo proposito del morente Imperatore di soffrire, affinché i suoi popoli si riuniscano, anche se l’ Europa è una pallida madre che non ci fa sognare. Il messaggio di questo libro è che la Mitteleuropea rappresenta un deposito di esperienze dimenticato, anzi negato, che è il caso di riscoprire e rivalutare. Vienna rimane, inoltre, la leggenda e il cuore d’ Europa, ultimo sogno. Romana de Carli Szabados ha voluto, come in altre sue opere provviste di scelta iconografia ed affinità elettive, celebrare il sole degli Asburgo che, nonostante tutto, fu comunque un sole. Il passato non passa invano. Qualcosa rimane. Un buon autore deve infine sempre disturbare.

POSTFAZIONE di Nerio De Carlo.

Scrive Romana de Carli Szabados nel suo libro su Carlo I d’ Asburgo: “Quel Lenin aveva dato l’ ordine dell’ azione e conquistato il potere intero al rientro dall’ esilio, mobilitando i suoi fedeli e, cosa strana, senza l’ appoggio della folla, ma con un manipolo di professionisti abili quasi quanto lui”. Non è un’ osservazione da poco. Era l’ autunno del 1917 e la rivoluzione russa aveva paralizzato l’ esercito sovietico, determinando la successiva pace di Brest-Litovsk sul fronte orientale. Gli Atti del Processo di Beatificazione di Carlo I d’ Asburgo si occupano autorevolmente anche di quell’ importante contesto. Si scoprono puntualizzazioni inedite che, per la prima volta, trovano pubblico riscontro in queste righe. La documentazione Summ. Test , pag. 221 – 222, prodotta dalla figlia minore dell’ Imperatore Elisabeth Charlotte, informa testualmente: “Il Governo tedesco aveva escogitato un piano per far cadere sia la Russia sia l’ Italia: taluni esponenti di spicco, che si trovavano in esilio, dovevano essere infiltrati in Russia e in Italia mediante un treno speciale. Se non erro, per la Russia si trattava di Lenin e di Trotzki. Non ricordo più chi fosse destinato all’ Italia. In ogni caso essi dovevano suscitare la rivoluzione nel loro paese. In tale maniera i fronti sarebbero crollati di per se stessi. Il Servo di Dio si oppose energicamente per due ragioni: in primo luogo perché il Comunismo era nemico della Religione; secondariamente però anche per saggezza, poiché un’ ideologia politica non si arresta ai confini. Questo rifiuto di mio padre ha determinato che nessun comunista potesse essere contrabbandato in Italia. Il fatto tuttavia che la Germania sia riuscita a introdurre segretamente Lenin in Russia, non rientra nelle responsabilità dell’ Austria”. Non si tratta di una nota qualsiasi, bensì di una testimonianza che integra nientemeno che gli Atti del Processo di Beatificazione e che trova puntuali riscontri storici. Il fatto poi che la stampa non voglia prenderne atto, rende la questione ancora più interessante. “Non giocare col fuoco” fu d’ altronde il consiglio di Giove a Prometeo! Il famoso treno speciale fu infatti usato e i professionisti non mancavano di certo. Le conseguenze moscovite sono ben note. Gli accorti lettori potranno interrogarsi o immaginare, forse con scarsa educazione coloniale, che cosa sarebbe accaduto se la rivoluzione fosse scoppiata anche in Italia. Per fare ciò essi dovrebbero chiedersi se l’ ambiente fosse stato favorevole e maturo per tale sovvertimento. Nessuno ignora che nel 1917 ci siano state la disfatta di Caporetto, le numerose diserzioni e decimazioni di militari, l’ occupazione di oltre 12.000 chilometri quadrati, le uccisioni di funzionari di Polizia e di ufficiali, le sollevazioni operaie di Torino e altrove, la consegna della sciabola agli insorti da parte di un Generale…- Presso la Casa Reale italiana, poiché la Regina era contigua alla Casa Imperiale russa, si sapeva della tragica fine dei Romanov. E’ forse il caso di rivedere certi segmenti storici inculcatici e di ammettere che taluni esiti hanno avuto motivazioni finora tenute nascoste. Per addolcire la pillola si potrebbe, magari, fare ricorso al volere divino affinché le cose andassero come sono andate. In ogni caso sarebbe come aver faticosamente salito una scalinata sulle ginocchia (ve n’è una a Roma!) e tentare ora di scendere alla stessa maniera. (Edizioni Goliardiche, Trieste)

LA LEGGENDA DEL  SANTO IMPERATORE

Quando il 41° Quaderno del Lombardo-Veneto informò nel 1995 che Carlo I d’Asburgo poteva essere proclamato Beato, quasi nessuno ci fece caso e soltanto i conoscitori della storia lo ritennero possibile. Giunge ora la notizia che l’ultimo Imperatore d’Austria sarà beatificato dal Papa il 3 ottobre 2004 per la sua vita e condotta cristiana. Carlo I era nato nel 1887 e divenne Imperatore alla fine del 1916, quando morì il prozio Francesco Giuseppe. Aveva sposato Zita di Borbone-Parma, dalla quale ebbe otto figli, uno dei quali ancora vivente. La sua successione al trono potrà sembrare insolita, non essendo Carlo né figlio né nipote dell’Imperatore deceduto. In realtà l’erede al trono Rodolfo era morto all’età di 31 anni a Mayerling, vittima di un omicidio su commissione e non per suicidio, come si volle far credere. Il posto nella dinastia fu occupato dal nipote dell’Imperatore Francesco Ferdinando, ma anche questo morì assassinato nel 1914 a Sarajevo. Suo fratello Otto, pure nipote dell’Imperatore, era morto nel 1905 lasciando due figli: Carlo e Massimiliano. Al primo di questi toccò dunque la successione al trono di Vienna a soli 29 anni di età. Carlo I era un uomo sensibile e altruista. Durante la Grande Guerra egli non esitò a gettarsi nell’Isonzo in piena per salvare un suo soldato. Durante la ritirata dalla Val d’Astico verso Arsero, l’ufficiale medico riteneva che un milite simulasse un’infermità per non marciare: l’Imperatore in persona volle controllare e concluse che né lui né l’ufficiale avrebbero potuto camminare in quelle condizioni, per cui era necessario il ricovero. Durante gli inverni 1916 e 1917 egli ordinò che le lussuose carrozze e i famosi cavalli lipizzani di corte fossero adoperati per trasportare carbone per il riscaldamento e i viveri che erano stati recuperati in qualche maniera. Da un raffronto non risulta che altri regnanti si siano comportati allo stesso modo. Non diverso fu il trattamento dei propri famigliari. La famiglia imperiale doveva consumare le razioni di guerra. Il pane bianco era proibito. L’unico fratello dell’Imperatore aveva 20 anni e cercava di soggiornare a Vienna. Fu costretto invece a recarsi al fronte. Un Arciduca dovette restituire il denaro ricevuto per un proprio brevetto ceduto all’Artiglieria. A un altro Arciduca furono sequestrate le somme guadagnate con la vendita di legumi secchi all’esercito: gli fu attribuita soltanto la modesta retribuzione spettante a un semplice venditore di granaglie sul mercato. Un contadino galiziano era stato udito pregare per lo Zar di Russia e condannato per alto tradimento. Una ballerina era stata processata per aver risposto male a un ufficiale che l’aveva offesa. Entrambe le sentenze furono annullate per ordine imperiale. L’Imperatore Carlo I era uomo di grande devozione. Nel suo proclama al momento della successione fu espresso il desiderio di raggiungere la pace prima possibile. Egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per il papa, si trattasse pure di andare contro i propri interessi dinastici. A tale proposito desta sospetto il silenzio della trionfalistica propaganda austrofoba nei confronti di Carlo I. Forse l’Italia fu favorita durante il suo regno e tacendo non sarebbero emerse notizie che non si dovevano, e probabilmente non si devono, sapere. Tutto ciò meriterebbe un approfondimento in altra sede. Dopo la Grande Guerra, i cui veri vincitori furono la fame, la miseria, la rivoluzione e la morte, il trono austro-ungarico crollò. L’Imperatore e la sua famiglia dovettero andare in esilio. Nel 1921, su invito del Papa, Carlo I tentò invano due volte di riconquistare il trono. Morì nell’isola di Madeira a soli 35 anni. I suoi resti non riposano nella Cripta dei Cappuccini a Vienna. Gli Atti del Processo di Beatificazione dell’ultimo Imperatore della Casa d’Austria contengono molte dimensioni di portata storica degne di grande considerazione. Se nel Veneto esistesse una Stampa degna del nome, questa dovrebbe occuparsene con intelligenza e senza timore per gli aspetti di originalità e verità che ne possono derivare. (Il Dialogo, mensile, Oderzo. Settembre 2004)

1866

          CONTROSTORIA VENETA CON MALIZIA

Il processo a Napoleone, svoltosi nel 2003 a Venezia, si è concluso con una sentenza  di condanna. E’ stato riconosciuto colpevole dell’irruzione nel territorio della  detestata neutrale Repubblica di Venezia nel maggio 1796, incurante del fatto che il  proprio nonno materno Ramorino fosse originario di Treviso, secondo  Chateaubriand. Altri motivi di condanna furono: 1) il Trattato di Campoformido del  1797; 2) la confisca della flotta della Serenissima; 3) il trafugamento di 40 milioni in  monete d’oro presso la zecca di San Marco (un terzo delle quali consegnate alla  madre Letizia, che le portò nel romano palazzo Rinuccini); 4) l’asportazione di  inestimabili tesori d’arte; 5) la sistematica persecuzione degli oppositori. Si potrebbe  discutere sulla legittimità del suddetto processo. E’ in realtà possibile uccidere un  nemico, ma non processarlo. Per farlo bisognerebbe possedere una legittimità che  certamente non può derivare dalle vittorie militari. Supponiamo pure che, per  assurdo, il procedimento possa considerarsi giusto. I capi d’accusa avrebbero  dovuto essere ben più numerosi. Il primo dei cinque addebiti, il Trattato di  Campoformido che il 17 ottobre 1797 attribuì il Veneto all’Austria, non evidenzierebbe tuttavia gli estremi di reato. L’intera storia veneta, vale a dire il recupero della memoria intera allargata ai capitoli scomodi, si compone di dieci periodi: 1- Dal 12° secolo a.C. al 2° secolo a.C. = periodo paleoveneto integrato dalla presenza celtica, 2- Dal 2° secolo a.C. al 5° secolo d.C. = periodo romano (Regio Venetia et Histria), 3- Dal 6° all’8 secolo d.C. = periodi longobardo e franco (Ducati e Marche), 4- Dal 9° all’11° secolo d.C. = Sacro Romano Impero, 5- Dall’11° al 13° secolo d.C. = Signorie, 6- Dal 14° secolo d.C. al 1796 = Repubblica di Venezia, 7- Dal 1707 al 1805 = Sacro Romano Impero, 8- Dal 1805 al 1813 = effimero Regno Napoleonico, 9- Dal 1814 al 1866 = Impero d’Austria, 10- Dal 1866 = Regno d’Italia. A prescindere dai punti 1) e 2) in gran parte preistorici e comunque troppo lontani, è dal periodo dei Ducati Longobardi e delle Marche Carolingie che si forma un centrale nucleo storico consistente e omogeneo per il Veneto, destinato a durare ben oltre un millennio e precisamente dal 6° al 19° secolo. L’epoca da considerare per lo scagionamento di Napoleone a causa di Campoformido comincia in realtà dal 9° e termina nel 19° secolo, anche se la sua omogeneità non è mai stata riconosciuta almeno in Italia. Che cosa avrebbero, infatti, a che fare le Signorie e i Principati, entità locali per definizione, con gli Imperatori? Che cosa c’entrerebbe Venezia, una Repubblica, con l’Impero? Il filo di Arianna serve per arrivare in fondo al labirinto ma, se il filo fosse una matassa, non si uscirebbe più. Il Sacro Romano Impero fu fondato da Ottone I di Sassonia nel 962, ma la genesi risale all’incoronazione di Carlo Magno avvenuta 162 anni prima a Roma. La conferma coincide successivamente con la poco nota canonizzazione dello stesso Imperatore in data 25 dicembre 1125 sempre a Roma. Cominciamo a dire che già nell’anno 805 ben due Dogi veneziani si sono recati ad Aquisgrana per rendere omaggio all’Imperatore Carlo Magno. Ne consegue che, poiché Doge significa Duca, Venezia poteva allora configurarsi come un Ducato soggetto all’Impero, il quale a sua volta si era trasformato da realtà politica monolitica in un aggregato di Stati. Quanto alle Signorie, affermatesi prima dell’espansione di Venezia nella terraferma, i Principi sia laici (come gli Scaligeri, i Da Camino, i Da Romano, i Carraresi…), sia ecclesiastici (come i Patriarchi, Vescovi, Abati e simili) erano Vassalli diretti dal 1180 e Vicari dell’Imperatore nelle rispettive zone. Taluni territori veneto-friulani, come il Pordenonese per esempio, appartenevano ai territori ereditari asburgici addirittura fin dal XIII secolo e alla Carinzia anche da prima. Essi erano pertanto già Austria ancor prima che questa esistesse come Stato. Ritorniamo a Venezia, che nel frattempo era cresciuta. Sembrerebbe ormai inverosimile ogni accenno alla sua riduttiva condizione di Ducato. Da sempre un potere, quando si fortifica, tende a cancellare i propri eventuali trascorsi di subalternità. L’operazione non riesce, tuttavia, quasi mai del tutto. Qualche traccia rimane. Si osservi, per esempio, lo stemma di Venezia con l’immancabile leone. Esso è sormontato da una corona “ducale” a cinque punte visibili, costituite da altrettante torri. Nella chiesa di San Giorgio in Isola, navata laterale, a sinistra entrando, c’è il monumento al Doge Marcantonio Memmo, il quale non aveva ricoperto la carica a lungo. L’iscrizione funebre recita: “Marco Antonio Memmo in regendis populis singolari/ summa urbis Laetitia ad Ducatu Venetiae”. L’epigrafe è recensita anche nel IV volume dell’opera del Cicogna “Iscrizioni veneziane illustrate”, che risale al 1824. C’è dunque un riferimento ufficiale al “Ducato di Venezia” e siamo nel 1615, poiché il Doge moriva il 29 ottobre di quell’anno. Il vocabolo “ducatus” ha in realtà anche altri significati, circoscritti alle competenze militari. Tale eventualità però non ricorre per un supremo magistrato investito di ben altri poteri. Quale imputazione deriverebbe a Napoleone per aver sancito a Campoformido la riconduzione del Veneto nel Sacro Romano Impero? Oltre alla continuità territoriale con il Ducato di Carinzia e la Contea del Tirolo esistono secolari trascorsi con l’Impero a differenza di altri reami peninsulari, il meno distante dei quali era rappresentato dal Regno della Chiesa. Si può essere certi che Ludwig van Beethoven non avrebbe incluso quel Trattato tra i motivi che lo convinsero a cambiare la dedica a Napoleone della sua celebre Terza Sinfonia, l’Eroica. La circostanza sarebbe stata piuttosto un’attenuante tra le prevalenti aggravanti di altro genere. Il concetto italiano era, inoltre, del tutto prematuro. La stessa geografia del tempo collocava tale idea in altre latitudini, come dimostra la cartografia del tempo. (Quaderni del Lombardo-Veneto, N. 59, pag. 42-43. Padova 2004). Memorandum                    Gufi

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L’ONDA  LUNGA  DELLA  STORIA

Le cocinelle hanno vita breve, ma già dopo poche ore ne hanno piene di umor nero le palline sulle elitre rosse. Esse non sanno nulla del mutare delle stagioni. Ciò non impedisce tuttavia che ci sia stato un ieri e che venga un domani. Anche gli episodi della storia sono frutto del passato, ma hanno effetti sul futuro. La difficoltà sta nel collegamento tra l’antecedente e l’avvenire. Gli intrecci complessi formano la storia. Modificare il passato non è cambiare un fatto isolato: è annullare le sue conseguenze che tendono a essere infinite e impreviste, secondo Jorge Luis Borges. La mattina del 30 gennaio 1889 l’Arciduca Rodolfo, erede al trono austro-ungarico, e la giovane Maria Vetsera con la quale egli aveva un rapporto di amicizia progredita e affinità elettive, si fa per dire, furono trovati senza vita nel castello di Mayerling. Suicidio fu l’invetrata causa ufficiale della morte, peraltro subito smentita da un telegramma di corte al Vaticano per consentire il funerale nella Cripta dei Cappuccini immortalata da Joseph Roth. Pochi credettero a quel giallo imperiale e molte furono le congetture. L’idea dell’omicidio è la più insistente e probabile. Sono stati indicati i moventi più fantasiosi. A nessuno è venuto in mente che si sia trattato di un motivo che sta sempre anche all’origine delle guerre: le finanze, magari di ampia portata, impastate con la politica . L’allusione è meno improbabile di quanto si creda. Già l’integerrimo Catone il censore aveva subito 40 processi per corruzione e il suo “delenda Cartago” derivava dal fatto che a Cartagine si produceva un olio d’oliva migliore di quello dei suoi uliveti laziali. La scena europea era nel 1889 la seguente. La Francia era stata battuta dalla Germania nel 1871 a Sedan. Fervevano sentimenti di rivalsa. La dinastia degli Orleans tramava per riavere il trono di Parigi. La capitale francese continuava a considerarsi il centro del mondo senza accorgersi che dove è il centro non c’è nulla. Entrambe le tendenze erano impersonate da Georges Clemenceau. Il personaggio congiurava nell’ombra senza mai comparire, tranne che nei numerosi duelli nei quali egli si limitava spesso a sparare nella coscia degli avversari o nelle immediate vicinanze. Il trattato di mutua assistenza del 7 ottobre 1879 tra la Germania e l’Austria aggravò la situazione. Clemenceau voleva annullare quel patto e cercava appoggi a Vienna basandosi, non per ultimo, su un conto rimasto aperto tra l’Austria e la Prussia fin dal 1866, quando questa determinò la dolorosa cessione del Veneto all’ Italia. L’avvicinamento della Russia alla Francia nel 1886 lasciava sperare per una simile operazione anche a Vienna. La chiave per tutto ciò sembrava essere il principe ereditario Rodolfo, ma gli infiltrati francesi presso la corte asburgica si rivelarono inferiori alle aspettative. Bisognava cercare personaggi più abili che ne sapessero una di più di quel povero cristiano del diavolo. In quegli anni era molto in auge un campione di intrighi, una vecchia conoscenza di Clemenceau: Cornelio Herz, diplomatico, giocoliere, tecnico, guaritore, politico, medico, ricattatore, giornalista, avventuriero, donnaiolo e instancabile untore poliglotta dell’ alta finanza. Il suo genio emerse specialmente nella più colossale impresa tecnica dell’epoca: l’elettrificazione di intere città. A ciò vanno aggiunte le installazioni telegrafiche e telefoniche per un iniziale e promettente giro d’affari anche in Austria. Inutile dire che a Herz furono attribuiti gli Ordini della francese Legion d’Onore e degli italiani Santi Maurizio e Lazzaro. Un uomo potente, ma privo di qualsiasi morale, adatto per i programmi anti austriaci di Clemenceau, che lo aveva conosciuto durante il suo soggiorno americano. Un miracolo del secolo era anche il Canale di Panama. L’emissione del relativo prestito fu affidata a Cornelio Herz, il quale si avvalse di Jacque Reinach, pure lui uomo con la faccia da mercoledì, secondo le descrizioni. Il rimborso di quelle obbligazioni conobbe serie difficoltà, com’era facile da prevedere. Proprio come qualche caso nei nostri tempi. Ma Clemenceau offerse a Herz la copertura politica e lo scaldalo fu appannato. Il Principe Rodolfo era entusiasta per i progressi dell’elettricità in quel tempo e nutriva ammirazione per il loro fautore. La realizzazione di una rudimentale telescrivente lo aveva affascinato soprattutto in prospettiva di una rivoluzione nelle comunicazioni militari. Il proponente pensava, invece, a un impiego delle innovazioni telegrafiche in un’altra rivoluzione, in altre parole per un ipotizzato colpo di stato a Vienna, in cui Rodolfo sarebbe stato il protagonista. I contatti con Herz e con la politica francese degradarono improvvisamente per il rifiuto del principe e l’appalto non ebbe luogo. Caddero così le implicazioni tecnico-politiche del grande affare. Rodolfo avrebbe esclamato in quella circostanza: “Contro la Chiesa sì – contro mio padre mai”. L’informazione proviene da Zita, l’ ultima Imperatrice della Casa d’Austria, e si comprende come l’erede al trono non fosse una falena abbagliata dal buio. Rodolfo avrebbe potuto palesare le condizioni politiche contenute nelle proposte pervenutegli, cioè la sua congiura contro Francesco Giuseppe per sostituirlo sul trono. Ciò sarebbe stato certamente imbarazzante per l’ Austria ma pericolosissimo per la Francia, cui Bismark avrebbe subito dichiarato guerra. Bisognava far morire Rodolfo, fu la logica conclusione di Herz e di Clemenceau. La vittima lo sapeva. L’assassinio del principe sarebbe stato naturalmente eseguito da ignoti assassini mercenari. I nomi dei mandanti, cioè del trio Clemenceau-Herz-Reinach, non sarebbero mai stati di dominio pubblico. Rodolfo si sarebbe difeso con un tavolo quando si accorse dell’irruzione a Mayerling, perdendo nella lotta anche alcune dita. La ragazza sarebbe stata invece uccisa altrove e poi accostata al cadavere dell’uomo per integrare la compromissione. Qui bisogna distinguere tra memoria cinica e memoria alienata. Nella prima si decide di mentire; nella seconda si rinuncia con rassegnazione a sapere notizie rischiose. Diciamo allora che circa un mese dopo gli omicidi di Mayerling e precisamente il 7 marzo 1889, Re Milan di Serbia, simpatizzante per l’Austria, “abdicò”. Suo figlio Alexander fu assassinato con sua moglie Draga per dare via libera alla alleanza franco-russa. Nel 1898 fu pugnalata l’Imperatrice Elisabetta, la mitica Sissi. Casualità o preparativi per Sarajevo 1914? Nel 1919 ebbe luogo a S. Germain la Conferenza di pace, in seguito alla quale furono imposte all’Austria pesanti sacrifici territoriali. Per ricattare la Commissione austriaca e indurla ad accettare tutte le condizioni, i componenti dovettero alloggiare a palazzo Reinach! Questo significava un sinistro avvertimento in quanto il possessore dell’immobile era stato contiguo ai responsabili della tragica fine di Rodolfo d’Asburgo. In altre parole: “O firmate, o fate una brutta fine”. La notizia e la sua interpretazione derivano, tra l’altro, da Camillo De Carlo, protagonista e medaglia d’oro della Grande Guerra, che fu appunto Segretario della Delegazione di pace italiana in quell’occasione. Si comprende in tal modo come nella moviola della memoria il luttuoso fatto di Mayerling abbia determinato, tanti anni dopo, un avvenimento storico di portata mondiale. Quanto al futuro, è sempre prematuro parlarne. In ogni caso dimenticare la storia significa doverla rivivere. Questa è, per esempio, una risposta da dare a quanti si interrogano sull’ islamizzazione dell’Europa. Essi non sanno, infatti, che il fenomeno in corso è diretta conseguenza del crollo dell’Impero Austro-Ungarico avvenuto nel 1918, di cui sono note le responsabilità internazionali. Sacile equivoco 1equivoco 2

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 I M P R E S E   G A R I B A L D I N E

A pagina 151 dell’elenco  telefonico milanese c’è il  recapito dell’Associazione  Nazionale Veterani e Reduci  Garibaldini. Se è consentita una  riflessione, questa riguarda  l’età dei soci, i quali  dovrebbero aver superato i  150 anni. Com’è noto, lo  sbarco a Marsala avvenne l’11 maggio 1860. Il movente non fu propriamente il patriottismo, ma la somma di tre milioni di franchi francesi pagati in piastre turche d’oro, come dimostra la quietanza conservata presso la Loggia massonica londinese “Quatuor Coronati”. Anche i piroscafi furono concessi gratuitamente. Battevano bandiera a strisce (una è esposta al Museo del Risorgimento di Agrigento) e furono facilmente confusi con navigli americani in cerca di rifornimento, evitando in tal modo la reazione della flotta borbonica. Prima di partire i Mille furono fotografati singolarmente per evitare che, se tutto fosse andato bene, fosse presentato un esagerato numero di richieste di benemerenze possibilmente non virtuali. Giova ricordare che Giuseppe Garibaldi fu attivo in Italia dal 1848 ed è pertanto giustificato chiedersi quale fu il destino dei suoi volontari prima e dopo lo sbarco a Marsala. Da Roma a Venezia Nel 1849 la Repubblica Romana era caduta e Garibaldi pensò di andare a Venezia per appoggiare l’insurrezione. Todi, Città della Pieve, Chiusi, San Marino, Cesenatico furono le tappe intermedie della trasferta. Da quest’ultima località, dopo la requisizione di alcune imbarcazioni, il contingente garibaldino si accinse a far rotta verso Venezia portando con sé molti valori, di cui si era appropriato a Roma e nei luoghi attraversati. A Magnavacca (Ferrara) furono catturati dall’esercito austriaco 162 volontari e 11 ufficiali. Il 5 agosto 1849 i prigionieri furono portati a Pola dal battello a vapore “Trieste”. Ad essi furono distribuite le razioni alimentari previste per la truppa austriaca e qualche capo di vestiario, dato che tutti erano “vestiti in modo miserabile e sono anche senza biancheria intima”, come si legge nella relazione del Generale imperial-regio Standeisky. Guerra civile americana: su due fronti Dopo l’impresa di Marsala altre gesta attendevano i Garibaldini. Ottocento di essi emigrarono in America nel 1861 per partecipare alla guerra civile. Due anni dopo 365 Garibaldini appartenenti al 39° di Fanteria comandato dal Generale nordista Hancock, combatterono contro 370 Garibaldini dell’ 8° Reggimento di Fanteria comandato dal Generale sudista Early. Per la precisione i primi portavano la divisa blu, mentre i secondi indossavano l’uniforme grigia. I caduti tra le loro file furono in quella occasione 95 e 60. Il giorno seguente le loro perdite furono quasi doppie, quando ebbe luogo la conquista della collina Cemetery Hill. Storia da rivedere Vi sono forse alcuni punti da rivedere nella storia ottocentesca. Potrebbe sorprendere che già nel 1849 la Marina avesse navi a vapore di notevoli dimensioni, ma ciò corrisponde a verità, anche se il loro numero non era ancora cospicuo. Anche l’immagine indotta di un esercito austriaco persecutore va ridimensionata, considerato il trattamento riservato ai prigionieri con uno status alquanto incerto. Si devono inoltre tener presenti le gravi condizioni dell’armata austriaca funestata da una diffusa epidemia malarica, citata nelle fonti ufficiali come “febbre della Laguna”. Anche qualche riflessione su certi comportamenti e ideali non sembra infine fuori luogo. (Il Piave, mensile. Conegliano V.)

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LEGGENDA, STORIA  E  CULTURA  DEI  CIMBRI

“Se la disposizione della materia è stata buona e come si conviene alla storia, è quello che ho desiderato. Se poi è mediocre e di scarso valore, è quanto ho potuto fare”. (II Maccabei, 15 – 38) Prüdere Liben ! Fratelli cari ! Non ho la pretesa di raccontare “la storia”, ma semplicemente “una storia” che potrebbe cominciare alla maniera cimbra e universale con le parole “Vor viil viil jaar = molti, molti anni fa”. I Cimbri del Cansiglio sono originari di Roana, nel Vicentino. Giunsero nel bosco nel 1707, ma il loro nuovo insediamento ebbe nei primi periodi forse carattere stagionale. Il 30 ottobre 1811 nacque un nuovo abitante del Cansiglio: Basilio Azzalini. Ciò fa ritenere che la comunità fosse diventata stabile. Di tutte le ipotesi avanzate sull’ origine dei Cimbri, soltanto tre possono essere prese in considerazione: 1) Superstiti della battaglia vinta dal Console Mario nell’anno 102 a. C. ; 2) Residui di popolazioni germaniche molto numerose, che nell’ alto medioevo abitavano vasti territori del Veneto ; 3) Migrazioni di coloni germanici nei primi secoli del secondo millennio. Per la prima ipotesi non esistono documenti. Essa non è storicamente sostenibile, ma è sorprendentemente la più radicata nella coscienza degli abitanti dei 7 Comuni (1). Lo conferma anche un episodio accaduto molto tempo fa: un principe danese volle visitare quei paesi e fu accolto entusiasticamente col grido: “Viva il nostro re!”. Consideriamo allora le altre possibilità. Nel V secolo d. C. parecchie stirpi germaniche erano già stabili nell’ Italia settentrionale. Esse chiesero dei territori per viverci, ma il generale romano Oreste glieli negò. Nell’ anno 476 Oreste fu vinto presso Piacenza dal condottiero germanico Odoacre e contemporaneamente anche l’ ultimo imperatore romano d’ occidente, Romolo Augustolo (figlio di Oreste) fu deposto. Le terre in precedenza richieste dalle popolazioni germaniche qui migrate furono loro finalmente assegnate. Quelle prime popolazioni transalpine sarebbero state rapidamente fagocitate dai loro vicini latini, ma altri contingenti giunsero da Oltralpe sulla scia delle migrazioni dei popoli. Nell’ anno 489 i Goti di Teodorico vinsero Odoacre e dopo quattro anni conquistarono anche Ravenna. Il nuovo regno non durò molto, poiché i Goti furono a loro volta vinti nella battaglia del Vesuvio nell’ anno 552 d. C. Le sconfitte non significarono evacuazione delle regioni a sud delle Alpi. Il Vescovo Enodio di Pavia, morto nel 516, ci assicura che : “Tanta parte della gente di Alemagna venne a trovarsi entro i confini d’ Italia senza danno dei possessi di Roma ed essa tornò ad avere un re dopo che aveva meritato di averlo perso. Chi aveva prima depredato le nostre popolazioni era diventato poi custode dell’ Impero. Aveva abbandonato fuggiasco la Patria, ma aveva fatto la sua ricchezza delle nostre terre e quindi trovato di potervi stabilire” (2). Poi giunsero i Franchi e gli Svevi. Lo storico Procopio ci informa nel suo “Bellum Goticum” che: “Teodiberto, re dei Franchi, era poco prima morto di malattia (anno 547), dopo essersi, senza alcuna ragione, reso tributari alcuni paesi della Liguria, le Alpi Cozie e gran parte della Venezia. Questo perché i Franchi, traendo partito dal fatto che entrambi i belligeranti (Romani e Goti) erano impegnatissimi e senza pericolo alcuno si erano arricchiti proprio di ciò per cui quelli si facevano la guerra. Nella Venezia soltanto poche cittadine rimanevano ai Goti, i luoghi marittimi ai Romani: tutto il resto se lo erano assoggettato i Franchi (3). E inoltre: “Più in là c’ è la Liburnia, l’ Istria e la Venezia, che si estendono fino alla città di Ravenna. Qui risiedono le popolazioni marittime. Al di là di queste, nell’ interno, abitano i Siscei e gli Svevi, non quelli sottoposti ai Franchi, ma altri, diversi” (4). Tra il 568 e il 774 ci fu il regno longobardo. La lingua longobarda si estinse nelle regioni meridionali poco prima dell’ anno 1000, mentre resistette a settentrione, secondo il Bruckner. Non si dimentichi a questo riguardo che dall’ anno 653 in poi non furono pochi i re longobardi di origine bavarese. Basti ricordare i nomi di Teodolinda (il cui trono d’ oro sarebbe stato nascosto nel Feltrino dai seguaci dell’ ultimo re, Desiderio), Ariperto, Gundeperto, Bertari, Cuniberto, Lindeperto, Ansprando ed il famoso Liutprando. Come è noto, Carlo Magno sottomise i Longobardi, ma la vittoria non gli bastò. Lo storico Eginardo ci informa che l’ imperatore dispose il trasferimento di popolazioni sassoni in Italia. Nell’ anno 804 la migrazione fu completata con l’ invio di diecimila elementi irrequieti non meglio identificati. Un documento del 2 maggio 874 attesta una donazione al vescovo padovano Rorido e vi si riscontrano numerosi nomi germanici. Nel 917 il duca Berengario del Friuli donò ad un altro vescovo padovano, Silicone, il paese di Solagna sul Brenta, vendendo i suoi poteri giudiziari “sui Germanici e sugli altri uomini libero che abitano o che abiteranno nella predetta valle di Solagna” (5). Possiamo tentare una conclusione con le parole dello studioso padovano Antonio Loschi, anch’egli cimbro, il quale sostenne che in tempi remoti i “Cimbri”, vale a dire popolazioni germaniche, abitavano la Regione dal fiume Adige al mare Adriatico. Questa dichiarazione risale al 1400, ma è confermata da un episodio accaduto pure secoli fa. In una delle rare alleanze tra vicentini e padovani, il comandante dei primi, desideroso di non far conoscere i propri piani strategici agli alleati, parlò alle truppe “in tedesco”. Nei Tredici e nei Sette Comuni, ma anche in altre località settentrionali, potrebbero essere successivamente giunte altre popolazioni dal nord per vari motivi. Nel 1166 cui fu a Pergine una ribellione contro il feudatario Guindibaldo. Motivo della sollevazione sembra essere stata l’ adesione di Pergine alla Lega dei Comuni Veneti, ma nel documento scritto il 13 marzo 1166 si legge che la popolazione germanica non si era ribellata. Non si comprende dunque il perché di una emigrazione di perginesi di lingua tedesca verso i territori veronesi e vicentini, presumibilmente già abitati da genti germaniche. Non sempre la storia ricopre l’ intero settore affidatale tra scienze, per cui si ricorre anche alla linguistica e alla filologia. Secondo queste due ultime scienze, le popolazioni germaniche dei Sette e Tredici Comuni sarebbero più recenti e giunte nel XII secolo dal territorio austro-bavarese. Un secolo più tardi altre migrazioni avrebbero popolato le località di Folgaria, Lavarone, Lucerna, Sappada, Sauris, Timau, Val Ferina. In effetti sono rintracciabili nella parlata cimbra numerosi caratteri dell’ alto tedesco, nonché determinanti particolarità fonetiche e lessicali degli idiomi bavaresi e tirolesi. Ciò escluderebbe ulteriormente la possibilità di trovarci di fronte a superstiti dell’ antichissima popolazione germanica settentrionale vinta dai Romani. Anche lo stesso nome di “Cimbri” contribuisce a smitizzare la provenienza germanico-danese. In seguito alla prima rotazione consonantica il termine aveva infatti acquisito una aspirata iniziale, tanto è vero che continuiamo a trovare toponimi come “Himmerland” e “Himbarsyssel” nel nord Europa, ma non da noi. I Cimbri possono dunque essere veramente quel che rimane delle popolazioni germaniche abitanti nel Veneto dopo la caduta dell’ impero romano ed integrate da successivi trasferimenti fino al secolo XIII. Rimangono gli enigmi del nome e delle attuali affinità linguistiche con la zona austro-bavarese. Il riferimento alla popolazione cimbra vera e propria, cioè quella del I secolo d.C., è solo un’ assonanza. In realtà i Cimbri attuali si sono autodenominati tali dall’ appellativo “Cimbar-mann”, che vuol dire “lavoratore del legno”. La parlata può invece benissimo sembrare simile ai vicini, un tempo contigui, linguaggi austro-bavaresi per effetto degli inevitabili prestiti linguistici, come oggi accade con l’ italiano, solo che ora non si può più parlare di “prestito”, ma di stabile influenza. Per quanto riguarda i Cimbri del Cansiglio, essi lavorarono nel bosco per la “Serenissima”, sempre bisognosa di buon legname per le sue famose navi. La loro attività fu particolarmente apprezzata dall’ Imperial-Regio governo austriaco, che ben conosceva il valore delle genti oneste e laboriose. Infine anche il regno d’ Italia consentì loro ufficialmente nel 1871 di permanere in quella che a buon diritto era diventata la loro terra. Nel 1874 i Cimbri del Cansiglio erano 250, distribuiti in 43 famiglie. Tre anni più tardi la popolazione risultava cresciuta di 30 individui e raggiungeva le 280 anime. La comunità contò poi ben 50 famiglie. Queste furono sempre un tangibile esempio di corretta convivenza con le popolazioni vicine e una indicazione di come si possa crescere insieme nel reciproco rispetto, anche in presenza di culture differenti e senza dover rinunciare alla propria identità. Molto si potrebbe dire sulla cultura cimbra. Basti però ricordare che è diventata proverbiale l’ espressione: “Questa persona è giusta come un Cimbro”. Il resto non può che essere secondario e marginale. Mi permetto di chiudere con questi versi in “cimbro”, rivolti ai giovani: Pui, pui vergiss as et : Ragazzo, ragazzo, non dimenticare Va olters virn Nene, virn Urnen dai tempi per avi e nonni In do geben de Hamat. qui è stata la patria. Plaip a de Hamat vir di ! Che lo sia anche per te! farfalla

   LA    LEGGENDA   DELL’ ORIGINE   CIMBRA

De ünzarn eltarn habent hortan kchöt, dass ünsar stam vun zimbarn ist von taüschen lentarn af an nort kömet in des bellisce lant, in zait vom krige, ba dar grosse stroach ist den gant übel. Des grosseste toal von krigarn ist gevallet toat, un de andarn haben sich verporget in balt ate perge von draizen kåmåün oben vern un dandare ate perge von üzarn züben kåmåün oben vitschenz. Übar disa hoge ebene in daü zait ist gabest alles an balt, ba habent genestet de pearen un de wölve, un koane låüte. I nostri genitori hanno sempre raccontato che la nostra stirpe di Cimbri è giunta nel paese latino dai territori tedeschi del nord, in tempi di guerra, non essendo loro riuscita la grande battaglia. La maggior parte dei guerrieri è caduta e gli altri si sono nascosti nel bosco sui monti del Tredici Comuni sopra Verona ed altri sui monti dei nostri Sette Comuni sopra Vicenza. Su questo Altipiano a quel tempo c’ era una grande foresta, dove proliferavano orsi e lupi, ma non la gente. (2) Quid quod a te Alemanniae generalitas intra Italiane terminos sine detrimento possessionis Romanae inclusa est, cui eventi habere regem, postquam meruit perdidisse. Facta est latialis custos imperii sempre nostrum popolatione grassata. Cui feliciter cessit fugisse patriam suam, anm sic adepta est soli nostri epulentiam, acquisita est iis, quae noverit ligonibus tellus adquiescere (Bergmann, Bd. 120, Anzbl, p. 4). (3) Paulo ante Francorum rex Theodebertus morbo obierat (547), cum sibi multo negozio tributaria fecisset nonnulla Liguriae, loca, Alpes Cottias, agrique partem maximam. Etenim Franci, ârrepta belli, quo Romani Gothique erant impliciti, opportunitate, sine discrimine ditionem suam iis loca auxerunt, de quibus illi pugnabant. Venetorum pauca oppia Gothis supererant: nam Romani marittima, Franci caetera occuparant. (Procopio, lib. IV, cap. 24 – edit. Venet. 1729 Tom. II, 226). (4) Liburnis proxima ist Istria, deinde regio Venetorum ad Ravennam urbem porrecta. Atque hi sunt, maris, accolae, supra quos Siscii et Subi, non illi, qui Francis parent, sed ab iis diversis, interiores terrae tractus obtinent. (5)Nos… pretaxatas vias publicas iuris regni nostri pertinentes de Comitatu Tarvisianense iuxta Ecclesiam Beatissime Justine virginis non longe a fluvio Brenta valle nuncupate Solane…seu omnem terram iuris regni in predicta valle adjacentem de quibus libet Comitatibus tam in territorio Cenedense ad nostram iurisdictionem pertinentem,nec non et omnem iudiciariam potestatem tam Germanorum quam aliorum hominum, qui nunc in predicta valle Solane habitant aut habitaturi sunt… (Bergmann, p.8).

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rapaciSTORIA DELL’INFLAZIONE MONETARIA dipendenza

                      LO  ZECCHINO  FU  LA  MONETA  PIU’  STABILE

Negli ultimi anni la capacità d’ acquisto del denaro si è costantemente contratta e si può affermare che nessuno degli stati progrediti ne sia rimasto indenne. Paesi come la Repubblica Federale di Germania e la Confederazione Elvetica hanno ragione di sentirsi orgogliosi del loro tasso inflativo contenuto, ma non bisogna dimenticare che una tale percentuale fino a poco prima del secondo conflitto mondiale sarebbe stata considerata come esorbitante, benché anche negli ultimi cent’ anni l’ inflazione sia stata in genere una regola, piuttosto che un’ eccezione. L’ Inflazione è in stretto rapporto con la storia del denaro e soltanto le sue cause sono cambiate da due millenni e mezzo a questa parte. In un primo tempo il fenomeno inflativo era solito investire un solo paese; in seguito, a causa della sincronizzazione delle varie economie nazionali, conseguente ai traffici mondiali, la sua estensione geografica si dilatò in progressione geometrica. Le prime monete furono coniate in Asia Minore nell’ anno 640 a. C., ma dovettero trascorrere ben due secoli prima che si presentasse la prima inflazione. Ciò accadde ad Atene nell’ anno 4°6 a.C. durante la guerra del Peloponneso, quando venne a mancare l’ argento per le dracme. Si ricorse allora al conio di monete di rame ricoperte da un sottile strato d’ argento. Il valore del denaro diminuì improvvisamente in Grecia, ma si mantenne relativamente stabile nel settore orientale del Mediterraneo. Dimensioni ben maggiori assunse l’ inflazione a Roma. In occasione delle guerre puniche, e più precisamente durante la seconda, che vide la calata di Annibale in Italia, le operazioni belliche divennero tanto costose da richiedere in un primo tempo il raddoppio delle imposte, il risparmio forzato e contribuzioni “una tantum”, per poi giungere alla riduzione della consistenza bronzea dell’ asse, che era la moneta standard dell’ epoca. Soltanto la vittoria su Cartagine ed il conseguente pagamento delle pesanti riparazioni di guerra da parte degli alleati dei punici consentirono un certo riequilibrio economico a Roma. La nuova moneta era ora rappresentata dal “denaro”, il quale conteneva ben 4 grammi di argento fino. Si trattò di una moneta abbastanza stabile fino all’ anno 64 d . C., allorché l’ imperatore Nerone decise la drastica diminuzione dei metalli nobili contenuti rispettivamente nel denaro e nell’ aureo, al fine di procurarsi i mezzi per la ricostruzione della città devastata dal noto incendio. Ad onore del vero bisogna ammettere che Nerone aveva fatto ricorso ad altri metodi per sanare le finanze pubbliche prima di pensare a soluzioni impopolari. Sua era stata infatti l’iniziativa di espropriare sei tra i massimi latifondisti dell’ impero e soltanto dopo aver constatato che le sostanze confiscate erano insufficienti, fu imboccata la via dell’ inflazione generalizzata. Da allora in poi le monete divennero non solo più piccole, ma anche più povere d’ oro e d’ argento. Il doppio denaro, per esempio, possedeva ormai un sottilissimo rivestimento d’ argento e a nulla valse l’ editto di Diocleziano, inteso a mantenere fisso il valore del denaro eliminando, in via sperimentale, perfino la differenza tra prezzi all’ ingrosso e prezzi al minuto. Il risultato fu tanto disastroso che il prezzo del grano, intorno al 300 d. C., era salito di ben duecento volte rispetto all’inizio della nostra era. Maggiore fortuna ebbe la riforma di Costantino, introdotta all’ inizio del quarto secolo. Era accaduto che la confisca dei tesori esistenti ancora nei templi pagani si era praticamente rivelata una insperata miniera di metalli preziosi per il conio della nuova moneta. A ciò si aggiunga che sotto Costantino comparve il primo bilancio statale per una razionale effettuazione della spesa pubblica, fino a quel tempo lasciata al caso, disposta secondo le esigenze del momento e sostenuta dalla relativa emissione incontrollata di nuova moneta. Caposaldo di questa valida riforma monetaria fu il “solido”, costituito da 4 grammi di oro fino e coniato per molti secoli mantenendone invariato il peso. Il nome di questa moneta fu veramente degno della sua solidità! Nel 1284 la Serenissima Repubblica di San Marco coniò il ducato, più noto col nome di “zecchino”. Questa fu l’unica moneta che raggiunse, e sorpassò, la stabilità del solido costantiniano, ottenendo la fiducia di tutti i mercati del mondo allora conosciuto. Nel medioevo l’inflazione fu determinata dalla volontà dei regnanti, che se ne servirono per procurarsi maggiori entrate, dichiarando spesso con un editto l’improvvisa svalutazione delle loro rispettive monete, subito sostituite da altre ben più povere di metallo nobile. Ad un simile abuso politico-economico è da attribuirsi anche la rovina del pfennig, che fin dal tempo dei vichinghi era considerata una ambita moneta d’ argento, paragonabile al denaro della repubblica romana. Ebbene, nel periodo tra il 1050 ed il 1330 il valore del pfennig era talmente sceso, da essere paragonato a quello di una moneta di rame. All’ inizio del Rinascimento molte cose cambiarono nel destino del denaro. La scoperta dell’ America, la razzia dei tesori indiani e lo sfruttamento, iniziato nel 1545, della ricchissima miniera presso Potosi in Bolivia, si trasformarono presto in una enorme disponibilità di oro e d’ argento per le zecche europee. Soltanto in Spagna giunsero 7.500 tonnellate d’ argento e 150 tonnellate d’ oro. Tale eccedenza di offerta fece crollare il valore del denaro, tanto che il prezzo del frumento in Europa si quadruplicò verso la fine del XVI secolo. Finché il denaro era costituito da sole monete metalliche, cui comunque era garantito un certo contenuto argenteo o aureo, l ‘inflazione si mantenne tuttavia entro limiti controllabili. L’ accelerazione aumentò con l’ introduzione della carta-moneta, la quale consentì l’ estensione della circolazione monetaria mediante una irrealizzabile promessa di cambio, a richiesta, con la corrispondente quantità d’ oro da parte delle banche centrali, o, come in Francia ai tempi del Direttorio, con l’ assegnazione di appezzamenti di terra confiscati ai nobili. Attualmente l’ unico valore della carta-moneta consiste nella fiducia nei confronti della situazione economica dello stato, cui la valuta stessa si riferisce. Le banconote circolavano già in Cina nel 1100 ma quando, all’ inizio del XVIII secolo, una banca parigina riuscì a farle accettare ai propri clienti, quest’ ultimi subirono un immediato danno dell’ 80%. Le cose andarono diversamente in America. Durante la guerra civile gli stati del nord emisero certificati di credito chiamati “Greenbacks”, i quali persero costantemente di valore fino al 1875, ma furono integralmente rimborsati dopo la fine delle ostilità. L’ inflazione monetaria raggiunse il suo culmine dopo la prima guerra mondiale. Il marco tedesco fu svalutato di circa un bilione di volte, impegnando nel novembre 1923 per la continua stampa di banconote ben 29 fabbriche di cliché, 144 tipografie e 30 fabbriche di carta con un totale di 7.500 dipendenti. La situazione era ancora più disastrosa in Ungheria, dove il pengö era stato svalutato un quadrilione di volte rispetto al suo valore ante guerra, prima di essere sostituito col fiorino nel 1946. Attualmente il catalizzatore dell’ inflazione monetaria è rappresentato dalla spirale salari-prezzi: l’aumento salariale provoca la lievitazione dei prezzi e viceversa. Ma questa è cronaca di tutti i giorni, cui la struttura degli attuali sistemi socio-economici sembra voler assicurare un lungo avvenire. (Il Dialogo, Oderzo, ottobre 1982).

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LE INVASIONI TURCHESCHE

Antonio De Pellegrini iniziò la propria opera sulle invasioni turchesche, alle quali avrebbero preso parte anche donne, indicando come catalizzatori “malanimo e discordia di Principi italiani”. La premessa sarà stata sottovalutata o non compresa, ma essa merita un approfondimento. C’erano in quel tempo contrasti tra il Ducato di Milano e la Francia. La crisi si era poi aggravata con la morte di Lorenzo il Magnifico e l’elezione del Pontefice Alessandro VI. Il Re francese Carlo VIII aveva forti mire su Napoli, dove egli voleva affermare i diritti degli Angiò. Dopo iniziali successi, il suo principale obiettivo diventò il Ducato di Milano, ma morì nel 1498. L’impresa fu continuata dal successore Luigi XII di Francia il quale conquistò Milano nel 1499 e, già che c’era, prese anche Novara proclamandosi Duca di Milano. Venezia appoggiò la politica francese con la Lega di Blois il 9 febbraio 1499, cambiando il precedente orientamento politico. Il comando delle truppe fu affidato a Nicolò Orsini. Questo era un evidente atto di ostilità contro Milano governata da Ludovico il Moro il quale, abbandonata la città e rifugiatosi in Germania, pensò a una vendicativa rivalsa. Dopo tutto lo Stato di Milano era una potenza europea prima che esistesse l’Italia. Il Moro non aveva amici in Europa, ma presumeva di averne in Asia Minore. Egli inviò una lettera a Costantinopoli, la quale provocò la disastrosa invasione dei Turchi attestati nei Balcani. “L’immanissimo turco”, così è chiamato il contingente osmano nei documenti dei Porcia-Brugnera, ebbe come guida Ermacora Ungaro. Anche i fratelli Alessandro e Giacomo Digon di Brugnera furono sospettati di aver accompagnato gli invasori, ma non c’erano prove a loro carico. E’ un peccato che molti documenti dei Porcia-Brugnera siano andati perduti nell’autunno del 1917 (quando furono ritenuti attestazioni di debito e subito bruciati dopo Caporetto, ma esistono riscontri sufficienti per la quantificazione dei danni delle distruzioni turchesche). Venezia si era allarmata e aveva incaricato un famoso ingegnere idraulico di studiare nuove strategie contro le invasioni da oriente. In particolare si pensò di provocare impetuose inondazioni dell’Adige e di altri fiumi mediante dighe a monte, che potevano essere aperte al momento opportuno. L’ingegnere idraulico era Leonardo da Vinci. Questi aveva dovuto lasciare Milano dopo la fuga del Moro nel 1499. Troviamo il genio nel Veneto nel marzo del 1500 e alcuni cenni nei documenti leonardeschi fanno pensare a un incarico segreto del Senato Veneto. Non sono noti i risultati dell’eventuale impegno di Leonardo, ma le invasioni turchesche cessarono. In conclusione Carlo VIII aveva avuto molto denaro da banchieri italiani per le sue imprese. Ludovico il Moro deve aver avuto un ruolo importante nella occupazione francese di Napoli. La Serenissima si schierò coraggiosamente con i vincitori. Quanto ad Alessandro VI Borgia, egli fece di tutto per favorire i propri figli e nulla per aiutare le nostre popolazioni angustiate dai Turchi. A proposito, nella quasi unificazione d’Italia operata da Cesare Borgia, figlio del Papa, il Veneto non c’era. Sia detto con delicatezza, ma tutto ciò contrasta con gli insegnamenti sulla collaborazione mai interrotta nei secoli dalle varie politiche intese a raggiungere l’unità del Paese, propinati da ignari maestri nella scuola. Di certo furono tempi duri tra il 1400 e il 1500. Ma i tempi non furono migliori nemmeno prima, se si pensa a Giobbe. E anche il clima non dovette essere gran che, se si pensa a Noè. (Il Dialogo, Oderzo, mensile, gennaio 2005).

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IL FIUME LA PIAVE

“Nella mia terra i fiumi sono testimoni. Non nascondono nulla, Vengono da alte montagne. A volte cantano. A volte gridano, talvolta piangono con noi in silenzio. A volta sono dolci, a volte irati, a volte portano fiori. Talvolta anche un cadavere. I fiumi sono fiumi, che scorrano qui o nel mio paese” (Kader Abdollah, scrittore iraniano).

Questo filmato vorrebbe essere, più che una normale rappresentazione, un atto di omaggio al fiume Piave. Il corso d’ acqua, simile ad un filo di luce liquida, conosce ambientazioni conferitegli da eventi storici, ai quali sono estranee sia la natura sia la civiltà delle origini. Si è così determinata una specie di memoria collettiva in crisi di abbondanza. Il fiume è ricordo di sconfinate sofferenze, di enormi sacrifici, di straordinarie bestialità e di semplici, semplicissimi eroismi (non confondibili con quelli catalogati e resi ufficiali dalla cosiddetta “storia ufficiale”, per usare parole di Alberto Asor Rosa). Si tratta dell’esatto contrario di quell’eroismo, che forma oggetto di tanti esagerati tripudi nazionalistici. Si tratta piuttosto della vera dimensione umana, estranea alla grancassa da orticaria, nella quale anche i morti hanno un potere. Diario di guerra, rapporto di servizio divisionale. “Spiace che il tenente Lorenzo… sia caduto alla testa del suo valoroso reparto. Sono fiero per questa nuova azione gloriosa. Povero, allegro commilitone. Anche tu non avrai avuto l’altro ieri il presentimento della tua bella morte, quando scherzavamo sui teschi. Ora rifletto che, quando altri scherzano sulla vita, noi non possiamo farlo. Tre giorni fa è arrivata una cartolina per te con la Posta Militare. Quando fu scritta, tu giacevi già morto sulle ghiaie insanguinate. Io l’ho letta al posto tuo. La cartolina dimostrava buon umore. Essa era stata scritta scritta da una ragazza con sottile grafia femminile e io la lasciai cadere: ‘Caro Lory! Pensa un po’, la piccola studentessa bionda di filosofia si è fidanzata sul serio. Dall’altro ieri la cosa è anzi ufficiale. E tu sei ancora vivo? Potrai sopravvivere con tutto ciò? Così si comporta tutta la gioventù. Scrivi presto. Pensiamo spesso a te.’ La scrittura fu iniziata quando tu andavi all’ attacco sul terreno, incitando i tuoi volontari che ti seguivano gridando. E’ stato un superbo contrattacco. Quando la scrittura è terminata, il tuo cuore non batteva più e i tuoi occhi vitrei fissavano il vuoto nulla… La bionda filosofa penserà ancora che tutto sia accaduto per causa sua”. Il fiume Piave, da perfetto modellatore del paesaggio fatto d’acqua e di tempo, ci ricorda anche che i confini, in una visione di lungo periodo, possono essere privi di motivo e regolarità. La terra non appartiene all’ uomo. E’ l’ uomo che appartiene alla terra. Inoltre la natura non è un lusso, bensì la nostra padrona di casa. Il tempo è il vero lusso. Sono emerse recentemente cognizioni finora ignorate che potrebbero capovolgere più di qualche convinzione. Ci riferiamo agli Atti del Processo di Beatificazione di Carlo I d’ Asburgo, ultimo imperatore della Casa d’ Austria. Nella documentazione “Summ. Test., pagine 221-222 (Elisabeth Charlotte) sono contenuti importanti riferimenti alla Grande Guerra. Si ha l’ impressione di bere a un’ altra coppa. L’ argomento è interessante, anche se rimane attuale la pericolosità di giocare col fuoco, già ricordata da Giove a Prometeo. Divulgare tali informazioni sarebbe come discutere con le credenze delle folle, situazione che equivale a discutere con un ciclone secondo l’ espressione di Gustave Le Bon, filosofo sociale francese. Conviene allora concludere l’ argomento con l’ istruttivo racconto dello scrittore Giovannino Guareschi, il quale pure può suggerire qualcosa: “Correva l’ anno 1918 e io lo lasciai correre. Anche perché era un anno difficile. Il 4 novembre scoppiò la pace e cominciarono i guai”. Il fiume Piave, il fiume di famiglia, che non scorre solo poiché noi scorriamo con lui, è creatura selvatica più vicina alle leggi della natura che a quelle dell’ uomo. Esso ci rammenta che alla fine il campo coltivato prevale sempre su quello di battaglia. Per questo il corso d’ acqua non sopporterà in eterno l’ ingiuria degli uomini senza reagire. Ci fu un tempo in cui gli abitanti delle campagne rivierasche conobbero la parzialità della natura, la quale riservava a ciascuno la propria parte di ghiaccio: ai poveri purtroppo durante l ‘ inverno, ai ricchi durante l’ estate! Ebbene, la nostra gente è riuscita a modificare tale realtà. Essa riuscirà anche a fare in modo che il fiume non venga stravolto. L’ uso dell’ ambiente sta bene, ma non il suo abuso anche se per caso ci fosse qualche “decretino” a consentirlo. Il fiume Piave è una forza naturale e rappresenta nella zona l’ unico corridoio biologico tra le Alpi e l’ Adriatico, dove un tempo la polenta era il solo denominatore comune. Esso solcava la “Terra dei Larìn”, già ricca di povertà e intrisa dalla rugiada lunare qui denominata ancestralmente “aguàth”, scorrendo tra gli argini verdi come il mormorio del tempo non addomesticato da alcuna clessidra onoraria. Il paesaggio plurale, la comunità vegetale sulle rive, il cenacolo del vino, il velluto pungente dell’ ortica, le pannocchie dai grandi denti e la galassia dei fiori vengono vicini come per toccarti. Questi campi sono volti, sguardi, mani tese o richiuse. Quando si capta la realtà di queste presenze, si entra in preghiera con esse, non si è più estranei alla loro superficie. P.S.- Se il fiume Piave potesse esprimere un desiderio e gli uomini fossero in grado di capirlo, questo sarebbe il seguente: “Poiché la Storia è la maestra della vita, è un dovere raccontarla tutta quanta ed esatta. Essa è un arcobaleno liberatorio, che la letteratura maiuscola non finisce mai di mettere nella luce più giusta”. (Testo del documentario “Sulle orme della Grande Guerra”. Comitato Imprenditori Veneti “Piave 2000” – Anno 2005).

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NUOVI    EQUILIBRI

Capita che una scoperta declassi un oggetto in precedenza utile. Si pensi, per esempio, ai fiammiferi. Tra poco la gioventù non saprà che cosa fossero. Consideriamo i canali di Suez e Panama. Importanti rotte marittime sono cadute in disuso con negative conseguenze per certe zone e con vantaggi per altre. Ciò non accade solo nei mari, ma anche nei continenti. Il canale “Ludwig” collega i fiumi Meno e Danubio. La prima idea risale a mille anni fa, ma fu il Re Ludovico di Baviera, il mitico Ludwig, a riproporla nell’800. L’impiego della ferrovia penalizzò allora quella via d’acqua resa possibile da geniali opere idrauliche da Bamberg a Kehlheim e dunque lunga 172 chilometri. Il canale viene ripreso attualmente in considerazione. I bassi costi di gestione per un traffico fluviale dal Mare del Nord al Mar Nero, senza i passaggi da Gibilterra e dal Mediterraneo, sposteranno i trasporti in altre direzioni. In tale favorevole processo assumono nuovamente particolare rilevanza i Paesi della Mitteleuropea danubiana grazie proprio al canale “Ludwig”. Le implicazioni per i traffici, e dunque per attività produttive e di trasformazione, saranno molteplici poiché anche per la Serbia, unitamente ad altri Stati senza il mare, l’uso dei porti marittimi diventerà secondario. La domanda e l’offerta sono pur sempre le supreme leggi del mercato. I primi beneficiari saranno la Baviera, l’Austria, le Repubbliche ceca e slovacca, l’Ungheria e la Serbia, tutte strade che escono dalla stessa valle. L’indotto sarà costituito dal cosiddetto Nord-Est e dalla Slovenia, cui seguirà la Croazia. Avrà luogo, in altre parole, un ricompattamento della Mitteleuropea con interessanti ricadute per il Veneto. La Regione ha fatto grandi passi ormai e soltanto la miopia dei presbiti potrà illudersi che la dimensione culturale rimanga disgiunta da quella operativo-economica. E’ noto che la rassegnazione è la professione dei Veneti, ma potrebbe anche accadere che qualcuno sia disoccupato. (Il Piave, mensile. Conegliano, gennaio 2005).


LE QUATTRO GIORNATE DI MILANO

Qualcuno obietterà che le “giornate di Milano” furono cinque. E’ esatto, ma solo per le giornate utili a certa storia, cioè quella risorgimentale del 1848. Ve ne furono altre quattro cinquant’ anni dopo, ma queste sono decaffeinate nelle greppie mentali per motivi di opportunità. Ci sono cose che sono come un infamante segreto di famiglia che non si deve dire. Tutto incominciò il 6 maggio 1898. I milanesi si ribellarono contro l’esagerato costo della vita. Quarantamila dimostranti furono contrastati da ventimila soldati comandati dal gen. Fiorenzo Bava – Beccaris durante lo stato d’assedio disposto dal Governo Rudinì. I morti furono 100, i feriti 500; gli arrestati 800. L’impiego dell’artiglieria fu consistente. In un sito Internet si legge: “La tragica reppressione milanese si inquadra nei tentativi reazionari e liberticidi che contrassegnarono gli ultimi anni del Regno di Umberto I°”. Il generale fu decorato con la Croce di Grande Ufficiale “per il grande servizio reso alle Istituzioni e alla civiltà”. Sia consentita una piccola disobbedienza. Se quella strage fosse stata effettuata dagli Austriaci di Radetzky, che cosa sarebbe accaduto? Semplice: avremmo avuto l’eterna indignazione generale, lapidi a ricordo di quella barbarie, commemorazioni annuali di vasta portata e sceneggiati televisivi a non finire. Invece Bava –Beccaris non compare nemmeno nell’Enciclopedia Italiana Treccani. Ricorre, è vero, asetticamente nella Piccola Treccani , ma senza ascrizione di responsabilità. Anche in questo caso ci furono esecutori e mandanti. Per i primi non c’è nulla da aggiungere. Per i secondi, invece, la memoria deve diventare interrogazione del possibile. Il Principe Alfonso Serafino di Porcia viveva a Milano nel palazzo color crosta di panna cotta ove attualmente si trova l’Automobile Club. Noto è il suo legame sentimentale con la cognata Contessa Eugenia Vimercati Sanseverino, che egli sposò nel 1865 dopo la morte del di lei marito. La figlia della Contessa, nata dal primo matrimonio nel 1835 e chiamata pure lei Eugenia, fu adottata come figlia da Alfonso Serafino di Porcia. La ragazza sposò il Duca Giulio Litta Visconti Arese, ma divenne presto l’amante di Umberto I° di Savoia con tutta l’influenza che da ciò le derivava. Il parco della villa reale a Monza e il giardino della residenza di Eugenia erano contigui e ciò facilitava gli incontri a chiaror di lucciola. Non è improbabile che la donna abbia suggerito al Re nel 1898 di usare le maniere forti a Milano, diventando in tal modo una responsabile indiretta, una mandante, dei luttuosi avvenimenti. Giancarlo Pizzi, sempre bene informato, dà preziose indicazioni al riguardo con la sua relazione negli Atti del Convegno sui Porcia del 1994 (pag. 100). Che una bella donna sia in grado di influenzare un regnante è fuori di dubbio. Che ci fosse, però, una specie di Contessa di Castiglione imparentata, benché non consanguinea e meno avvenente della Castiglione, con i Porcia non era noto. Tuttavia a pensar male si commette peccato ma si indovina, è stato autorevolmente sostenuto. Anche l’uccisione del Re Umberto nel 1900 potrebbe dunque essere stata una ritorsione per le “quattro giornate di Milano”. [Il Piave, mensile stampato a Conegliano, feb. 2005] .

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ANDREA MINUCCI DI SERRAVALLE (1512-1572) MEDICO INSIGNE, ARCIVESCOVO DI ZARA, PRECURSORE DI MINUCCIO MINUCCI.

“A Sua Altezza Imperiale e Regia Otto d’Asburgo-Lorena, Erede e Patrocinatore dell’Impero Austriaco, Signore di Venezia e di Dalmazia”.

Dobbiamo all’ Abate Jsacopo Bernardi alcune delle scarse notizie sulla vita e l’opera di Andrea Minucci. Egli nacque nel 1512 a Serravalle. La località, già nota nella storia per varie e valide ragioni, fu descritta da Giannantonio Flaminio come “amenissima”. Il Barbieri la rappresentò come “cupe orride gole Serravallesi”. Iacopo Monico, nominato Patriarca di Venezia, scrisse al suo successore nella Sede Episcopale di Ceneda entusiastiche parole su Serravalle (1). Camillo De Carlo, ultimo proprietario di Palazzo Minucci, la definì in un manoscritto inedito (2) come “una contrada chiusa, di un borgo chiuso alla radice delle Prealpi”. L’ elegante scrittore di poesie latine Giovanni Piazzoni (3), che di Andrea Minucci fu amico, ne delineò in due versi l’ esistenza: “Pirei dum medicor celebre: post, sancta deorum Relligio tenuit, morior medicamine falso”. Andrea Minucci studiò in un primo tempo filosofia a Padova e proseguì poi gli studi di medicina presso lo stesso prestigioso Ateneo veneto. Esercitò la professione medica a Venezia con maggiore fortuna di quella che ebbe curando se stesso, essendo egli deceduto probabilmente a causa di una terapia sbagliata! L’illustre Serravallese frequentò a Venezia la famiglia Corner e fu particolarmente apprezzato da Alvise e Federico, entrambi vescovi e cardinali, nati rispettivamente nella città lagunare nel 1517 e nel 1531. Un episodio fu determinante per Andrea Minucci. Alvise Corner, Cavaliere Commendatore di Malta, aveva deciso di recarsi a Parigi e di farsi accompagnare dal Minucci. Le ragioni del viaggio non sono note, ma forse potevano riguardare le vicende dell’Ordine Sovrano dei Cavalieri Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta. A quell’ epoca è infatti attribuibile la ripartizione dell’ Ordine in otto “lingue”, tre delle quali assegnate alla Francia. Il viaggio iniziò il 5 ottobre 1549. Federico Corner, vescovo di Treviso, li aveva preceduti a Lione, dove tutti si riunirono il 10 novembre. Proprio in quel giorno era però morto il Pontefice Paolo III (4) e divenne inevitabile che Alvise Corner si recasse a Roma per il Conclave. Il prelato veneziano andò a Marsiglia per imbarcarsi alla volta di Civitavecchia. Andrea Minucci si mise in viaggio per Venezia, dove giunse nel gennaio 1550 e ricominciò a fare il medico. Alle sue cure ricorreva una scelta e agiata clientela. Poco dopo, l’ 8 febbraio, fu eletto il Pontefice Giulio III (5). Alvise Corner invitò Andrea Minucci a Roma. Questi accettò il 14 settembre 1550. A questo punto avvennero alcuni fatti determinanti per la qualificazione e la futura carriera del Minucci. Il Cardinale Andrea Corner morì puntualmente (si fa per dire) a Roma il 30 gennaio 1551. Alvise Corner, che già rivestiva la carica di Arcivescovo di Zara, successe al suo defunto parente Cardinale in data 20 dicembre 1551. Non fu un caso che Andrea Minucci entrasse, proprio in quel tempo, nella carriera ecclesiastica. Alvise Corner, oberato dagli impegni della porpora cardinalizia, rinunciò nel 1555 all’ Arcivescovado di Zara. Gli successe il suo Vicario Muzio Calini. Sempre, non per caso, il Calini fu subito dopo (nel giugno 1555) promosso dal Pontefice Paolo IV (6). La sede arcivescovile risultò dunque vacante. Il Cardinale Corner riassunse la carica, ma soltanto per consegnarla ad Andrea Minucci, il quale nel frattempo aveva raggiunto i requisiti formali per esserne investito. La conferma del Pontefice Pio V (7) giunse il 18 novembre 1567, quando l’Arcivescovo Andrea Minucci aveva 55 anni (8). Nei cinque anni del suo ministero Andrea fu sensibile ai pericoli di guerra che incombevano su Zara. Egli ritornò infatti a Venezia per sollecitare provvedimenti (9). Anche a Serravalle fece ritorno con festosa accoglienza (10). Durante il viaggio di ritorno a Zara sostò a Venezia, dove morì nel 1572 all’età di 60 anni. I fratelli Nicolò e Girolamo fecero portare la salma a Serravalle (11). Di Andrea Minucci così scrisse Giangiuseppe Liuti: “… che questo Andrea abbia opere in pubblico nol so: credetti una volta che la Vita di S. Augusta fosse di lui, ora si vuol credere che sia di Minuccio (l’ autore della storia degli Uscocchi), e lo è in fatto”. Bartolomeo Francesco Gera (12), erede di averi, libri e archivi dei Minucci, non evidenziò alcunché di notevole su Andrea Minucci. Il Farlati diede poche notizie nel Tomo V dell’opera “Illyrium sacrum” (pag. 127 e seg.)- L’Ughelli trattò il personaggio nel Tomo V dell’opera “Italia sacra”, ma con poca esattezza (Andrea sarebbe morto e sepolto a Zara!) – Un solo cenno proviene da Valerio Ponte, Arcidiacono della Chiesa Arcivescovile di Zara, nel suo libro “De Ecclesia Jadrensi”. Nulla si seppe dall’Abate Domenico Capretta (13). Di più apprendiamo dall’opera “Nobiltà d’Italia” di Giampietro dè Crescenzi, stampata a Bologna dal Tebaldini: “Da questa patria (Serravalle) e da questa famiglia antica, seminario d’uomini segnalati, sono usciti Monsignor Andrea Minucci Arcivescovo di Zara, che per la sua modestia, integrità e dottrina, si acquistò presso tutti il cognome di buono. Girolamo suo fratello, celeberrimo Giureconsulto, padre di Monsignor Minuzio dà Minucci, Arcivescovo di Zara, Abate di San Crisogono e Preposito di Attinga Vecchia in Baviera, già Segretario dei Romani Pontefici Innocenzo IX e Clemente VIII”. Si trattava di Minuccio Minucci, nato a Serravalle nel gennaio 1551, che aveva soggiornato a Zara presso lo zio Arcivescovo, preparandosi in tal modo ad assumerne l’alto ufficio. Egli fece apporre un’iscrizione nel Battistero di quella cattedrale (14) e dispose la celebrazione di una messa quotidiana in suffragio di Andrea.

N O T E 1) “Te vocat aprico Cenetensis acumine clivus/ Te placido illimis Mesulus omne vocat/ Gens ubi virtutes et pulchras excolit artes/ Et viget antiquae religionis amor ». 2) La casa di fronte, 1948. 3) Fu contiguo a Francesco Rebertello, Pietro Pagano, Marcantonio Flaminio, Cardinale Dalla Torre, Girolamo Amalteo… 4) Alessandro Farnese, allievo dell’Umanista Pomponio Leto. Fu eletto papa all’età di 66 anni dopo un’esistenza alquanto turbolenta. Ebbe parecchi figli illegittimi, fra i quali Pier Luigi, “famoso nella storia dell’umana perversità” secondo il Ricotti. 5) Giovanni Maria Ciocchi del Monte. Figura non esemplare. Dedito al gioco d’azzardo e altre sregolatezze. Il Panvinio scrisse di lui: “Non conobbe la grandezza del papato”. 6) Gian Pietro Carafa. Personaggio duro e collerico, esercitò largamente il nepotismo (Carlo Carafa fu nominato Cardinale quantunque rozzo soldato, dalla vita sregolata e scandalosa). 7) Michele Ghislieri, domenicano. Introdusse notevoli riforme nella corte papale e negli Ordini religiosi. Abolì il nepotismo, ma non fu immune da eccessi d’altro genere. Sotto il suo pontificato ci furono persecuzioni contro i Protestanti in Veneto specialmente nell’anno 1568. Durante il papato di Pio V ebbe luogo la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). 8) Il Piazzoni scrive: “Si quicquam charo, de quo quam chare Minucci/ Est gratum adjuro gratis esse potest / Nil mihi quam de te magna quod venit ad urbe/ Quod Divum claro sis quoque tu in solio/ Nectantum patriae quam toto gratulor orbi/ Quod bene te, tanto preside, tutus erit”. 9) Il Piazzoni scrive: “Pro reditu reverendissimi Andrete Minutii – ad classem venetam: Adriaci portus, et quae tegis aequora Classis, / tutus ab insidiis quisquis ut alta petat;/ Sic vos turca ferox timeat, vos Pronus honoret/ Sic liceat placida posse quiete frui;/ Vos precor in patriam dum Thyrsis vela reverit, (Musulei Thyrsis fama decusque soli)/ Vos nunc este boni, tacitos praebete recessus,/ Nel, duce te, classis, sentiat ille dolos”. 10) Piazzoni scrive: “Fama est in patriam te primo vere reverti: O utinam verum nuncius ille ferat! Pro quo Thura calent, precibus chorus omnis in ipsis, Audiat Omnipotens quas Deus aure bona! Interea et placido subsidant acquora fluctus Et te tranquilla aura vate ». 11) Nella chiesa di S. Andrea, parete di destra presso l’altare maggiore, c’è l’eopigrafe tombale: “Jesu Cristo Redemptori/ Andreas Minutius Jo. Filius/ Artium Scientiarumq. Peritissimus/ Jaderae Archiepiscopus/ Ibi Romae et Ubiq. Clare vixit/ annum agens LX Venetiis obiit/ Nicolaus et Hieronymus S.D./ Fratres Fratrem maerentes/ Huc Deferii et Deponi Curarunt MDLXXII”. 12) Dal quale Giuseppe De Carlo acquistò il Palazzo Minucci. 13) Ceneda, 12.7.1858.-…Non ho trovato nulla che lo riguardi…- 14) Iscrizione nella cattedrale di Zara, Cappella del Battistero: CHRISTO REDEMPTORI/ ANDREAE MINUTIO SERAVALLENSI7 DOCTRINA RERUM USU CHAR. PRAELATISSIMO7 PER PIUM V PONT. M. JADR. ARCHIEP. CREATO QUI MORIENS/ INCREDIBILE SUI DESIDERIUM BOONIQUE COGNOMENTUM APUD JADR. RELIQUIT/ LONGIS PEREGRINATIONIBUS/ MINUTIUS EIUS EX HIERON, FRATER NEPOS/ IN PACIS AC BELLI STUDIIS VERSATUS BAVARIAE DUCIBUS A CONSILIIS AB IIS HONORIBUS ET OPIBUS AUCTUS/ AC TABDEM INNOC. IX ET CLEMENTIS VIII SUMMI PP A SECRETIS/ CONFECTA DIUTURNIS LABORIBUS VALETUDINE INTEGRA TAMEN AETATE/ AD EODEM CLEMENTE QUI DE EPISCOPIS DILIGENT. EXAMINANDIS LEGEM LAUDATISS TULIT/ XXX POST PATRUUM OPTIMUM ANNO EIDEM ECCL. PRAEFECTUS ET ABBATIAE S. CRISOGONI DONATUS/ MONUMENTUM P. ALTARIA AEDIFICAVIT ET CONSACRAVIT LOCUM TOTUM EXORNAVIT/ SEPULCRUM SIBI DESIGNAVIT ATQUE QUOTIDIANUM SACRUM IN PATRUI/PARENTUM FRATRUM BENEFACTORUM SUISQUE IPSIUS ANIMAE SALUTEM INSTITUIT/ ANNO MDXCVIII/ VIXIT ANDREAS ANNOS LX OBIIT MDLXXII/ VIXIT MINUTIUS ANN. LIIII OBIIT MDCIII/SUMMA APUD BAVARIAE DUCES PRO REPUBLICA CHRISTIANA/NEGOTIA PERTRACTANS. (Atti del Convegno Internazionale 6 maggio 2000: I Minucci.- Circolo Vittoriose di Ricerche Storiche, Vittorio Veneto.)

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NAPOLEONE E IL VENETO

Tra il 1805 e il 1813 Napoleone III considerò, seppure tra notevoli insorgenze, il Veneto per un suo progetto che si rivelò una cruna senza ago. Il 16 agosto 1806 il Sacro Romano Impero si trasformò in Impero d’Austria a causa delle mutate condizioni politico-territoriali. L’ultimo Imperatore ereditario, Francesco II d’Asburgo, era praticamente succeduto a se stesso con il titolo di Imperatore d’Austria nella indiscussa capitale Vienna, cuore e ultima leggenda d’Europa. Il dominio napoleonico si avviò poi alla fine. Il Congresso di Vienna, svoltosi tra il 22 settembre 1814 e il 10 giugno 1815, stabilì che il Veneto dovesse ritornare nell’ambito asburgico. Dal punto di vista giuridico non c’era nulla da eccepire. L’ultimo monarca a cingere la Corona Ferrea, con la quale si incoronavano gli Imperatori del Sacro Romano Impero, fu Ferdinando II, da non confondere con il suo omonimo e ben più valido antenato cinquecentesco. Lo stemma ufficiale dell’Austria contiene infatti legittimamente anche il Regno di Venezia. Dopo il 1866 il Veneto divenne parte del Regno d’Italia, evento sancito dal discusso plebiscito del 27 ottobre nello stesso anno. Il determinante arbitro delle vicende politiche in gran parte dell’Europa era allora Napoleone III, Imperatore dei francesi. La sua prospettiva è riassunta nella lettera del 24 luglio 1859 all’Imperatore Francesco Giuseppe: “Poiché Vostra Maestà mi ha detto a Villafranca che la questione della Venezia sarà precisamente quella del Lussemburgo nei confronti della Confederazione germanica, tutto dipenderà dalla maniera nella quale il Vostro Rappresentante esaminerà la questione e intenderà risolverla”. La posizione austriaca è ancora più chiara, come risulta dalla corrispondenza del Principe di Metternich con il Ministro degli esteri Rechberg in data 27 settembre 1859: “A Villafranca, a proposito della posizione che dovrebbe prendere la Venezia nella Confederazione italiana, i due Imperatori hanno nominato il Lussemburgo per precisare in qualche modo l’analogia che esisterebbe fra queste due Province”. Il Veneto doveva dunque diventare un Granducato indipendente, eventualità che smentisce la propagandata, unica alternativa della sua annessione al Regno d’Italia. Per comprendere come quel piano sia fallito, è il caso di ricordare che a quel tempo si trovava a Parigi Virginia Oldoini Verasis. Si trattava della famosa contessa di Castiglione, un’adrenalinica bellezza disponibile e disposta. La presenza della nobildonna a Parigi non era casuale o turistica. Cavour stesso aveva infatti scritto al senatore e storico Luigi Cibrario il 21 febbraio 1856 di “aver arruolato nelle file della diplomazia la bellissima Contessa di Castiglione, invitandola a coqueter (civettare) e a sedurre, ove d’uopo, l’Imperatore”. Se si aggiunge che nel 1866 Napoleone III aveva già 58 anni e la signora soltanto 29, si possono comprendere molte cose. Rimarrebbero tuttavia da chiarire alcuni interrogativi. Come si potrebbe con un altro termine denominare l’istigazione a commettere adulterio nei confronti del marito, peraltro alto dignitario di Casa Savoia? Si sarà trattato di corna imperiali, ma sempre corna erano! Premesso che il rappresentare austriaco non poteva competere con gli argomenti della contessa, come potrebbero essere configurati questi servigi? Prestazioni occasionali e saltuarie, oppure collaborazione coordinata e continuativa? La supposta verità – che non è un medicinale da assumersi per via esclusiva – allude piuttosto alla seconda ipotesi, con costi a carico dei sudditi s’intende. Dato infine per scontato che la seduzione è l’illusione del migliore aspetto della vita, sarebbe stata ipotizzabile a Vienna la stessa operazione di Parigi? No di certo! A parte le 229 dame della corte asburgica, tra le quali poteva pure distinguersi almeno statisticamente qualche eccellenza, a Vienna c’era l’Imperatrice Elisabetta, la mitica Sissi. Si può dire che tra i vari pericoli, cui Francesco Giuseppe era esposto per il suo ruolo di Imperatore, mancava certamente la probabilità di essere preso a cornate. In conclusione: per Napoleone III il Veneto valeva bene una bella donna, come in una precedente occasione Parigi valse bene una messa. Per il Veneto, invece, senza la contessa di Castiglione, niente annessione al Regno d’Italia. (Quaderni del Lombardo-Veneto, n. 58, pag. 58-59. Padova 2004).

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PALAZZO MINUCCI-DE CARLO: I L   S A L O T T O   D E L L E   G I A D E

Inserire foto cartello inventario austriaco con didascalia: “ Avviso del Comando supremo Austro-Ungarico affisso sul portone di Palazzo De Carlo (documento di alto valore storico, a testimonianza della correttezza dell’esercito AU) Nel numero di marzo 1995 “Il Piave” si è occupato di alcuni documenti non noti che sono parte integrante della Fondazione “M. Minucci”, in quanto connessi con le vicende del Palazzo De Carlo e di chi l’ha abitato. Viene ora proposta la descrizione di uno dei più piccoli e prestigiosi ambienti della dimora che rappresenta una dimensione importante del patrimonio culturale vittoriose. L’arte orientale è già presente nel palazzo: basti pensare ai vasi attualmente nel salone d’onore vigilati dai personaggi della storia antica dipinti da A. Lazzarini. Ma la stanza delle giade è un concentrato di gusto orientale. L’ambiente è intenzionalmente poco illuminato, affinché meglio risalti, nell’atmosfera seducente, la collezione delle dodici giade. La parete centrale è ricoperta da tre pannelli: uno persiano lavorato ad ago con motivi floreali e due cinesi a ricamo policromo raffigurante paesaggi orientali. Alle pareti laterali pendono altri due pannelli a ricamo su seta, pure con decorazioni floreali, ma soltanto uno sarebbe originale. L’arredamento è completato da divani in seta rosa, un basso tavolino in cristallo il cui piano copre un tessuto damascato, un grande tappeto di Smirne (mt.4,20 x 2,10) in cui prevalgono i toni rosa e azzurro, un lampadario bianco sottile ed etereo che accentua l’atmosfera seducente dell’ambiente. Le giade sono esposte come su un altare presso la parete centrale. Ci sono un grande vaso rosa con coperchio dalla superficie decorata con draghi e altri animali, due vasi cinesi, uno verde con coperchio e manici di ottone sbalzato, con decorazioni di volatili sui rami. Il vaso con manici e coperchio in giada colorata, che pure raffigura uccelli su un ramo, merita una particolare menzione. Potrebbe essere dipinto, ma se così non fosse, ci troveremmo di fronte a un raro capolavoro di giada birmana dal colore “giallo d’uovo”, come è chiamato il materiale con cui fu realizzato. Altri due vasi cinesi verdi raffigurano animali stilizzati: sul coperchio un leoncino con ali esigue, forse una chimera. La coppia di aquile cinesi ha le teste smontabili? Questo non è tuttavia l’unico particolare notevole: becchi e artigli sono poderosi, con unghie quasi umane. Quasi alla sommità risalta per la squisita fattura una coppa arancione lavorata a pelle d’uovo. Nello spazio centrale del gradino più alto si trova una divinità cinese verde affiancata da due vasi lavorati in “pietra saponariae col coperchio sormontato dal mitologico leone cinese. Il pezzo più pregevole è tuttavia rappresentato da un blocco di giada rosa, quasi bianca, raffigurante anatre. Di fronte alla bellezza di questi oggetti si può comprendere e giustificare l’alta considerazione attribuita in Oriente agli artisti che lavorano la giada. D’altronde questa pietra (silicato di calcio e magnesio con durezza 6,5 alla scala di Mohs), nota quale rimedio per i calcoli renali, corrispondeva a una vera e propria pietra preziosa ed era simbolo sia di purezza, sia di ricchezza materiale e spirituale. Le giade di Palazzo De Carlo sono illuminate ad una ad una, ma con fonti luminose sorpassate. Sarebbe doveroso adeguare l’illuminazione (ma allora non solo quella del “salotto”) con le numerose soluzioni offerte dal progresso. Si ha motivo di ritenere che, qualora esista l’intenzione di valorizzare la Fondazione nel senso del testamento con il quale questa fu istituita, qualche sponsor del settore dell’illuminazione potrebbe pensare a un investimento in cultura. (Il Piave, mensile. Conegliano V.).

nuvola           aquilaorsetti

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PORCIA

A le memorie de done mari, Carmele di Brugnere, cun sentiment agrât di fi”.

Non si può parlare dei Porcia-Brugnera senza soffermarsi su un’altra antica stirpe: i da Prata. Sia i Porcia, sia i da Prata erano tra le più importanti famiglie del Patriarcato di Aquileia. I loro voti furono spesso determinanti nel Parlamento friulano. In occasione di conflitti i relativi Feudi fornirono notevoli contributi sia in “elmi”, cioè cavalleggeri pesanti, sia in fanteria. Nel 1419 i da Prata, dopo la distruzione del loro castello ad opera dei Veneziani, uscirono per sempre dalla storia friulana. I loro beni furono poi venduti, nel 1514, a Daniel Florido da Spilimbergo. Si dice tuttavia che la casata continui ancora in Ungheria, ma con il nome di Palffy. I Porcia-Brugnera, invece, rimasero. Risaliamo nel tempo per meglio capire gli avvenimenti. Il 1164 è l’anno della comparsa ufficiale dei Prata-Porcia, poiché con questi nomi abbinati deve essere considerata la dinastia. Per la verità, già nell’anno 739 il re longobardo Liutprando aveva concesso la contea di Ceneda a Giovanni Porcia, ma si ha motivo di ritenere che la posizione più certa fosse quella di “Avogaro” di quel vescovado. L’albero genealogico dovrebbe dunque iniziare con Gabriele, padre di Vecelletto, signore di Prata, Porcia e Brugnera; infatti il 30 aprile dell’anno 1181 egli fu insignito dal vescovo Sigifredo di un castello in Ceneda e nel 1188 ricevette dal Patriarca Gotofredo l’investitura delle terre di Porcia e Brugnera, che si estendevano presso la riva sinistra della Livenza in territorio friulano. Soltanto i conti di Gorizia potevano vantare un’investitura con tanti beni. Gli altri nobili si dovevano accontentare di solito, sempre per l’investitura, di un ben più modesto dono: un lembo della veste del Patriarca. Vecelletto fu anche a capo di un esercito che doveva contrastare certi programmi trevisani per quanto riguardava la Sinistra Piave. Le cose finirono molto male: comandante ed esercito furono fatti prigionieri ed il primo dovette, anzi, obbligarsi a risiedere a Treviso un mese l’anno. Vecelletto ebbe due figli: Gabriele e Federigo. Esercitarono l’Avogaria a Ceneda, finchè i da Camino non li sostituirono in seguito alle “lottizzazioni”, che anche nel Medioevo esistevano e come! Gabriele e Federigo, invece che attenersi alla massima che “l’unione fa la forza”, divisero i loro beni. Era il 1203, poiché finchè era vivo il padre, non si sarebbero azzardati a un tale passo. Gabriele assumerà il nome “da Prata”, Federigo si chiamerà “di Porcia”. Infatti ricorre in un un documento dell’undicesimo secolo. Nel 1214 insorse una contesa per la definizione dei confini tra le proprietà dei da Prata e dei Porcia-Brugnera. Fu accettata di buon grado la mediazione di Ezzelino II° da Romano, detto “il monaco”. Ciò preoccupò non poco il Patriarca di Aquileia, al quale era nota la parentela dei suoi feudatari con la famiglia da Romano, che godeva di una pessima fama. In realtà la parentela esisteva. Vecelletto aveva infatti sposato Gisla da Romano, figlia di Ezzelino il Balbo. Per allontanare i sospetti, Vecelletto aveva per la verità provveduto a diventare provvisoriamente guelfo, anzi aveva perfino combattuto a Legnano nel 1176 contro il Barbarossa. Poi presenziò alle trattative di pace tra l’imperatore svevo e il pontefice Alessandro III° a Venezia, ma sulla sua fede guelfa non si potrebbe giurare. Dopo la morte di Ezzelino da Romano, avvenuta nel 1260, i da Prata ed i Porcia si riabilitarono presso il Patriarca di Aquileia. I da Porcia furono poi sempre presenti, ed in primo piano, in tutti gli eventi storici del Friuli, prima contro l’espansionismo in terra ferma di Venezia, quindi contro le invasioni turche, infine nelle guerre napoleoniche. Per citare un episodio, nella Battaglia di Lepanto, allorché il comandante della flotta Agostino Barbarigo fu gravemente ferito ad un occhio da una freccia (si era appena alzato la celata dell’elmo per asciugarsi il sudore!), Silvio di Porcia assunse il comando della nave ammiraglia. Si distinsero anche in campo culturale (Jacopo si laureò a Padova in giurisprudenza nel 1509, scrisse trattati militari e fu mecenate di studiosi. Giovanni Artico fu drammaturgo e amico di G.B. Vico; Francesco Serafino, nel ‘700, fu noto archeologo e lasciò numerosi scritti); in campo ecclesiastico (Girolamo il Vecchio e Girolamo il Giovane furono nel ‘500 rispettivamente nunzio apostolico e arcivescovo di Adria; Leandro fu benedettino a Montecassino, poi nel 1728 fu eletto vescovo di Bergamo ed infine fatto cardinale); in campo politico (Giovanni Ferdinando, nato nel 1605, ottenne il Toson d’Oro e fu ministro dell’imperatore Leopoldo I°; Alfonso Gabriele, X° principe, fu governatore di Trieste dal 1817 al 1822 e contribuì notevolmente allo sviluppo della città e per primo ebbe l’idea di fondare una Cassa di Risparmio). L’XI° principe, Aladar, morì pochi decenni fa ponendo fine al ramo principesco ungherese di una casata che ha onorato Porcia e il Friuli. (Il Fogolâr Furlàn di Milano).

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LE TERRE DI PORCIA E BRUGNERA E IL LORO CONTRIBUTO ALLA LETTERATURA E ALL’ ARTE DEL PASSATO.

Dopo la morte del cardinale Pileo da Prata, avvenuta nel 1400 a Padova, la riserva di ingegni sulla riva sinistra della Livenza sembrava esaurita. Ma a confermare un’ autorevole presenza nella cultura del tempo provvide Jacopo di Porcia. Nato nel 1462 dal conte Artico e da Francesca Padovani di Colloredo, egli pubblicò un trattato pedagogico nel 1492 a Treviso grazie all’ arte tipografica di Gerardo di Fiandra. E’ il caso di ricordare che la prima pubblicazione della Bibbia ebbe luogo nel 1534, dunque l’ opera di Jacopo costituisce un precedente di rilievo. Tra le indicazioni pedagogiche del trattato ricorre quella di far istruire i bambini da una scuola privata fino al decimo anno di età; poi è consigliabile proseguire gli studi presso una scuola pubblica, perché vi vengano letti con cura Cicerone e Tito Livio. L’ insegnamento della morale non è indispensabile: i bravi ragazzi migliorerebbero, ma i cattivi soggetti peggiorerebbero! Un secondo trattato celebrò la grandezza di Venezia, ma di maggior valore sembra essere l’ epistolario comprendente la corrispondenza con le personalità contemporanee venete e friulane, ma anche con l’ imperatore Massimiliano I, col Pontano, col Filarete. Nel 1515 comparve un lavoro in due volumi sulla strategia militare. Piacque e fu ristampato in altre tre edizioni, l’ ultima delle quali a Basilea nel 1537. Notevole e originale è il capitolo sulle armi da fuoco. Nella prima metà del 1600 fu attivo un altro Porcia: Antonio, detto il Purliliese. Prete e precettore, scrisse una cronaca sugli avvenimenti tra il 1508 ed il 1532. Antonio si chiamava anche un pittore, nato a Udine nel 1507. Un secondo pittore, Apollodoro di Porcia, si affermò invece nella seconda metà del 1500 e all’ inizio del 1600. Maggiore fortuna ebbe Giovanni Artico di Porcia, nato il 10 agosto 1682 da Fulvio II e da Laura da Maniago. Dopo gli studi presso il collegio dei padri Somaschi di Murano, Giovanni Artico frequentò personalità, quali Ludovico Antonio Muratori e Scipione Maffei. Nel 1721 fu pubblicata la sua tragedia intitolata “Medea”. Le “Meditazioni sulla grandezza di Dio e le miserie dell’ uomo” del principe Serafino di Porcia furono pubblicate a Udine nel 1825 e costituiscono un’ opera apprezzata per il suo intento devozionale. Anche la tesi di laurea di Alfonso Serafino di Porcia, intitolata “Vantaggi e danni della scoperta del Nuovo Mondo” e discussa a Padova il 21 agosto 1823, costituisce un valido contributo per la comprensione dei punti di vista ottocenteschi. Fino a qui l’attività diretta. Ma c’ è un’ interessante produzione riflessa. A Padova l’ erudito don Sebastiano da Zanella pubblicò un trattato sulla lingua tedesca aulica con un’ intera pagina di dedica a Girolamo di Porcia-Brugnera, vescovo di Adria e nunzio apostolico presso i principi della Germania settentrionale. Nella parte superiore della copertina campeggia lo stemma dei Porcia-Brugnera. La vita e l’ attività di Giovanni Ferdinando principe di Porcia occupano un’ importante parte del libro di Gualdo Priorato, pubblicato nel 1673. Anche una “Allegoria dedicata al principe Alfonso Gabriele di Porcia”, pubblicata nel 1826, fece espresso riferimento all’ allora stimato governatore di Trieste. Lo stile, l’ arte e il valore degli edifici di proprietà dei Porcia-Brugnera furono infine il risultato di una volontà di bellezza e splendore. A prescindere dalla magnificenza del castello situato in Porcia, sono illustrati e dettagliamene descritti nell’ opera di J. W. Walwasor, pubblicata a Norimberga nel 1685, i manieri residenziali in Carniola, Ortenburg, Mauthen, Oberdrauburg, Hermagor, Spittal in Carinzia e Lauterach in Baviera, ma bella mostra di sé fanno anche i palazzi a Vienna e Monaco. (Il Dialogo, Oderzo).

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I POSSEDIMENTI DELLA CASATA DI PORCIA E BRUGNERA IN AUSTRIA E IN GERMANIA

Ignorare ciò che è avvenuto prima che tu fossi nato, è come non vivere” (Cicerone).

Interessanti rapporti tra i Porcia-Brugnera e la Carinzia sono documentati già nel XII secolo (1). Un diploma del 7.9.1178 conferma la donazione al convento benedettino di Millstatt di un podere di 1700 ettari situato a Fontanafredda. Nel 1449 tutte le proprietà carinziane del convento friulano di Moggio, pure benedettino, furono vendute a quello di Millstatt e qurest’ultimo cedette i propri beni posseduti in Friuli, tra i quali San Foca, al conte Bianchino di Porcia. Oltre due secolo più tardi il prestigio della casata si affermò in Austria Giovanni Ferdinando di Porcia (1602 – 1665) ottenne nel 1657 l’ onorificenza del Toson d’ Oro e il 17.2.1662 fu nominato principe con un decreto di 15 pagine emesso motu proprio dall’ Imperatore Leopoldo. Suo figlio Giovanni Carlo divenne nel 1666 capo del governo carinziano. L’ acquisizione di una contea in Austria era dunque divenuta un obbligo connesso con la nuova dignità e con la fondazione del ramo austriaco dei Porcia, che durò 256 anni. La contea di Ortenburg rappresentò una buona occasione: l’ ultimo titolare, il conte Giorgio di Salamanca, era morto l’ 8 dicembre 1639. Poiché non c’ erano eredi, la contea di Ortenburg ritornò all’imperatore. Questi la vendette nel 1640 ai baroni Widmann, grandi commercianti di Venezia, per 300.000 fiorini. Nel settembre 1661 morì anche il cardinale Christoph Widmann-Ortenburg, che fu sepolto nella chiesa di San Marco a Roma, e Giovanni Ferdinando di Porcia rilevò dai parenti di quest’ ultimo la contea omonima per 365.000 fiorini in data 8 ottobre 1662. Per la precisione i possedimenti che ne facevano parte erano i seguenti: Oberdrauburg, Winklern, Mauthen, Spittal, Hermagor ed altri beni minori. Quanto alla somma pagata, questa corrispondeva, a puro titolo indicativo, ai seguenti parametri: circa mezzo milione di vitelli macellati, circa 7.100.000 polli, 37 milioni di uova, 44 milioni di salsicce, 37 milioni di litri di birra, 37 milioni di tegole, 1500 aratri, 16 milioni di anni di lavoro di un operaio specializzato (10 ore di lavoro al giorno). Saranno in questa esposizione considerati i complessi di Spittal, Vienna, Monaco di Baviera, Karlstadt (Karlovac) e Primano (Prem). Il castello di Spittal. La costruzione, oggi nota come Castello Porcia, fu edificata tra il 1533 e il 1539 per volontà di Gabriele di Salamanca, ministro delle finanze del re Ferdinando I, che dal 1524 era anche signore di Ortenburg e intendeva offrire alla sua seconda moglie Elisabetta, diciassettenne figlia del margravio del Baden, una degna residenza realizzata secondo la nuova concezione rinascimentale. Dopo qualche tempo dall’ acquisizione della contea da parte dei Porcia, e precisamente negli anni 1667-68, il terzo principe Giovanni Francesco Antonio dispose notevoli restauri e vi fece aggiungere lo stemma con le parole: PORTIA AUT PORCIA EX SANGUINE REGUM TROIANORUM ET SICAMBRORUM PROGENITUS.- A tale scritta si sarebbe ispirato Adamo Matteo de Sukovitz nel 1716 per la redazione della genealogia dedicata al quinto principe Annibale Alfonso, che appunto inizia con le medesime parole. Anche il nome Ascanio, aggiunto a quello del quarto principe Gerolamo, doveva avere la medesima funzione. Il 29.4.1797 il castello subì un incendio e riportò un danno di ben 70.000 fiorini. Il tredicesimo principe Ferdinando fece eseguire gli affreschi esterni, attualmente poco riconoscibili. Sempre a lui si deve il trasferimento nella sala del primo piano di un soffitto a cassettoni proveniente dal convento di Millstatt. Il fregio rinascimentale e il camino in ceramica furono invece fatti venire dall’ Italia. Nel giardino c’ è una fontana del XVII secolo, che prima si trovava al centro del cortile. Quest’ ultimo richiama elementi toscaneggianti per i suoi ordini di arcate semicircolari ed anche esempi lombardi. La costruzione è un palazzo e non un castello vero e proprio. Già Gabriele di Salamanca lo considerava tale, se nel suo testamento ricorre un termine che traduce il significato veneziano di “Cà”. Ne sono conferma le quattro trifore con balconate del primo e secondo piano, caratterizzate con piccoli leoni. La suddivisione della facciata mediante pilastri accenna nuovamente all’ architettura veneta, eventualmente influenzata da quella lombarda. Degno di nota sono le decorazioni in pietra e in stucco. Tra le più significative è doveroso ricordare le Meduse, Plutone con due cani infernali, Ercole e il leone, Cronos con la falce, Marte, la Virtù, Giuditta, e altri soggetti mitologici. Determinante per la dimensione genealogico – storica della contea di Ortenburg è la sala degli stemmi. La serie di 33 blasoni fu commissionata al pittore Martin Ladinig dal 13° principe Ferdinando alla fine del diciannovesimo secolo. Il 22.4.1918 l’ edificio fu venduto all’ industriale serico di Prata barone Klinger von Klingerstorff (2), dal quale l’ Amministrazione comunale di Spittal lo acquistò per 160.000 scellini. Ora è adibito a Museo. Il palazzo di Vienna La costruzione sorge nella Herrengasse e fu acquistata nel 1666 dal secondo principe Giovanni Carlo di Porcia un anno prima della sua morte. Il palazzo è quasi soffocato dalle case vicine. La facciata è stata rifatta nel 1750. I due cortili hanno arcate rinascimentali sovrapposte, colonne toscane, decorazioni con motivi riproducenti strumenti musicali, due stemmi nella balaustrata. Nel 1773 il palazzo fu ceduto al Camerario di corte Bartolomeo von Tinti perché il quinto principe Annibale Alfonso non aveva potuto pagare un debito di 39.000 fiorini. Poi vi si insediò la biblioteca amministrativa del Cancellierato. La modestia architettonica di questa costruzione dipende dal fatto che essa fu edificata nel 1531, quando lo spavento per l’ assedio turco di Vienna, risalente a un paio d’ anni prima, era tutt’ altro che dimenticato. Fu dopo il 1683, cioè con la completa vittoria sul nemico, che la città si sviluppò. Inoltre la residenza ufficiale dei principi di Porcia era Spittal e non Vienna, anche se il primo principe Giovanni Ferdinando morì in questa città il 17.2.1665. Il palazzo di Monaco La costruzione sorge nella Kardinal-Faulhaber-Strasse al n. 12 e fu realizzata nel 1693 da Enrico Zuccalli per i Fugger di Augsburg. Dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale ci fu una ricostruzione nel 1952. La facciata originale è ancora conservata. La casa ha tre piani. Le finestre del primo piano sono caratterizzate da colonnine laterali e dalla pronunciata copertura semicircolare. Notevole è il portale e lo stesso dicasi per il balcone soprastante con decorazioni in ferro battuto. La residenza divenne proprietà dei Porcia per una strana coincidenza. Il principe elettore di Baviera Karl Albrecht, che fu imperatore col nome di Carlo VII dal 1740 al 1745, aveva avuto una relazione con Maria Josepha Tipor – Morawitzka, figlia di un generale di origine polacca e della contessa di Cernay. Dalla relazione era nato un figlio. E’ il caso di ricordare che il principe elettore non era nuovo a simili avventure. Già nel 1733 egli aveva infatti avuto una relazione con una damigella di corte.. In entrambi i casi la “liquidazione” per le signore fu concretizzata con un buon matrimonio e con un palazzo come dono di nozze: lo sposo della damigella di corte fu il conte Spreti e quello di Maria Josepha fu il sesto principe Giovanni Antonio di Porcia. La prima coppia ebbe il palazzo Holstein, la seconda il palazzo di Monaco. La costruzione del palazzo Holstein e i restauri del palazzo Porcia, effettuati nel 1736, sono opera del medesimo architetto. La fortezza di Karlstadt Fu costruita dall’ arciduca Carlo nel 1378 (3) su 9.000 teschi di turchi quali macabre fondamenta. Nel 1704 il complesso fu venduto per 40.000 fiorini al quinto principe Annibale Alfonso di Porcia. Due possono essere stati i motivi di questa acquisizione: 1) allontanarsi dalle attenzioni della contessa Giuliana Lodron, 2) sfuggire alle pretese dei creditori, fratelli della suddetta ammiratrice. Le doti militari di Annibale Alfonso erano scarse. Nel 1709 egli riebbe i suoi 40.000 fiorini e ritornò a Spittal. La fortezza fu attribuita al conte goriziano Giuseppe Ribatta. Sono gli anni in cui la strategia di Eugenio di Savoia, rivelatasi vincente, non ammetteva deroghe.- Sia consentito ricordare che il trionfo di questo condottiero costituisce l’ oggetto di un pregevole affresco del pittore veneto Antonio Lazzaroni (26.6.1672 – 16.4.1732), una delle opere più notevoli del palazzo De Carlo (Fondazione M. Minucci) a Vittorio Veneto. Il castello di Primano E’ un maniero possente non lontano dal Timavo, appartenuto già ai Patriarchi di Aquileia, ai Duinati, agli Svevi, agli Asburgo, ai Raunach. Una baronessina von Raunach sposò nel 1894 Ferdinando, tredicesimo (dodicesimo secondo un altro calcolo, che esclude Geronimo Ascanio) principe di Porcia, il quale divenne così signore di Prem. In una stima(4) la rendita del possedimento riguardava 5.000 fiorini annui. Nei pressi del castello di Primano, a Bittigne, c’ è un ponte sul Timavo che reca lo stemma dei Porcia e l’ iscrizione “Deus felicitas, homo miseria”, che fu un motto purliliese (5). Mitterburg – Pazin – Pisino Donazione alla chiesa episcopale di Parenzo già al tempo degli Ottoni (6), poi al Patriarca di Aquileia, indi a Gorizia, ai duchi d’ Austria, a famiglie feudali. Il 3.8.1660 l’ imperatore d’ Austria rilasciò un diploma di 13 articoli per l’ attribuzione della contea di Mitterburg al conte Giovanni Ferdinando di Porcia, non ancora nominato principe. Il costo della contea era di 550.000 fiorini, ma furono pagati soltanto 350.000 fiorini per graziosa liberalità sovrana in quanto il compratore era primo maggiordomo di corte, presidente del Consiglio intimo e ministro di stato prima di Ferdinando III e poi di Leopoldo I. Il 18.4.1662 Leopoldo I manifestò per iscritto il proposito di elevare Mitterburg al rango di contea principesca dell’ impero, come era stato fatto per Gradisca. Più tardi l’ imperatore ritirò la promessa e il principe di Porcia dimostrò scarso interesse per il possedimento istriano. Quest’ultimo interessava però al principe Gian Vicario d’ Auersperg, il quale mediante una specie di negozio fiduciario riuscì ad acquisire Mitterburg per 550.000 fiorini nel 1665, due mesi dopo la morte del precedente proprietario. La rocca sorge su una rupe inaccessibile ed evidenzia l’ aspetto di una architettura feudale molto austera. Ampie sono le pertinenze: magazzini, stalle, cucine, cisterne. Nel 1548 erano stati ultimati i lavori di ampliamento e consolidamento, rendendo normale la ricettività del maniero (7). Attività culturale a corte Due erano i motti dei Porcia. Il primo, risalente al tempo degli antenati da Prata, dice: “Fiat pax in virtute tua et abundantia in turribus tuis”. Sono parole desunte dal Salmo 122 (e non 121, come risulta da una didascalia esistente sotto la raffigurazione di un singolare duplice stemma sormontato dal pellicano). Il secondo motto, risalente al principe Francesco Serafino, rammenta: “Deus felicitas, homo miseria”. Viene naturale chiedersi quali riflessi nella vita di corte abbiano esercitato i suddetti concetti. In realtà il castello di Spittal era un centro culturale non secondario. Il principe Gabriele incrementò specialmente la musica tra il 1750 e il 1756. Al posto dell’ antica farmacia del castello fu ricavato un piccolo palcoscenico. Quasi certamente vi furono rappresentate commedie di Goldoni, poiché nel 1765 furono acquistati 19 volumi con le opere del celebre autore. Un inventario del 1776 evidenzia l’ esistenza di costumi teatrali e di altri oggetti da usarsi per la rappresentazione di commedie (8). Anche il teatro delle marionette trovò favore a Spittal: è documentato uno spettacolo in occasione della Pasqua del 1753. Per una più rispondente dimensione dell’ attività musicale a corte dei Porcia vengono infine citati i seguenti dati inventariali: 1776: 1 violoncello, 4 violini, 1 viola da braccio, 2 corni, 2 trombe, 2 oboe, 4 flauti, 1 cimbalo boemo, 2 clarinetti inglesi, per un complesso di 19 orchestrali di cui sono noti anche i nomi; 1785: un paio di tamburi, 10 trombe, 4 oboe, 2 paia di clarinetti, 1 fagotto, 4 paia di corni, 2 corni inglesi e alcuni strumenti a corda (9). Si ha però motivo di ritenere che l’ attività musicale a corte fosse già ridotta verso la fine del XVIII secolo, poiché nell’ elenco dei dipendenti del castello di Spittal non risultano più i musici. Note 1) H. Prasch – 800 Jahre Spittal a. d. D., 1990, pag 356 2) H. Prasch, opera citata, pag. 377 3) H. Prasch, opera citata, pag. 359 4) Günther Probszt-Ohstorff – Die Porcia – Klagenfurt 1971, pag. 179 5) Mario Lannes – Il castello di Primano, Trieste 1936 6) Monumenta Germaniae Historica, Dipl. Reg. et Imper., t. II, pag. 356-357; cod. dipl. Istr. Anno 983, 2 giugno 7) Camillo De Franceschi – Storia documentata della contea di Pisino, Venezia 1964 8) Spittal a.d.D. – Von Markt zur Stadt – 1970 – pag. 139 9) Rauter, Hofmusik, pag. 144 Elenco delle località in Austria, Istria e Germania in cui si trovavano i principali possedimenti dei Porcia-Brugnera Afritz, Flaschberg, Goldstein, Grünburg, Hermagor, Horneckh, Hornegg, Karlstadt, Klagenfurt, Laibach, Landshut, Lauterbach, Mattighofen, Mauthen, Meillenhofen, Mitterburg, Möderndorf, Möllbrücke, München, Niederlauterbach, Oberdrauburg, Oberlauterbach, Ortenburg, Pittersberg am Gailberg, Prem, Senosetsch, Spittal, Tettensee, Wien, Winkler (Vittorio Veneto. I PORCIA, Atti del convegno 9 aprile 1994. Castello vescovile di Vittorio Veneto a cura del Circolo Vittoriose di Ricerche Storiche).

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SISSI: UNA  BELLA  DONNA  NEL  TEMPO  E  NEL  LUOGO  SBAGLIATI

Il 10 settembre 1898 fu assassinata Elisabetta, Imperatrice d’Austria e Regina d’Ungheria. Tre mostre a Vienna la presentano più viva che mai. Ogni epoca ha una sua principessa: la rosa d’Inghilterra è morta, viva la rosa d’Austria e Ungheria. Sissi, o meglio “Sisi”, come ella usava firmare le proprie lettere, sembra essere uscita dalla Cripta dei Cappuccini per far lievitare il commercio dei souvenirs. Bisogna proprio essere defunti da molto tempo per diventare immortali. L’Imperatrice aveva 61 anni quando fu uccisa, ma essa rimane sempre giovane e bella nella memoria collettiva. Aveva infatti proibito ogni ritratto o fotografia dopo il compimento del 32° anno di età. Nessuno doveva notare nel suo aspetto la devastazione del tempo. Era una calda giornata quel 10 settembre di un secolo fa, quando l’anarchico Luigi Licheni la pugnalò presso il lago di Ginevra. Egli voleva colpire uno qualsiasi dei regnanti, come ebbe poi a confessare. Avrebbe preferito uccidere il pretendente al trono francese, ma, in mancanza di questi, anche l’Imperatrice d’Austria andava bene. La multietnica monarchia asburgica provò sdegno profondo ma ci furono poche lagrime, come informa il conte Kielmannsegg. L’Imperatrice si era, per così dire, già congedata dal cuore dei sudditi. Appariva problematica, eccentrica, disinteressata per i suoi obblighi di regnante, moglie e madre. Forse era la donna sbagliata nel tempo e nei luoghi sbagliati. Tutto era iniziato con il matrimonio. Il fidanzamento con suo cugino Francesco Giuseppe avrebbe dovuto avvenire con la sorella di Elisabetta, Elena! Ma l’Imperatore si innamorò di Sissi nel 1853 a prima vista. Anche lei lo amava. Soltanto il suo mestiere non le piaceva. Sarebbe stato meglio se fosse stato un semplice sarto! La corte viennese era convinta che la sedicenne sposa non fosse adatta per il destino che l’attendeva e lei ricambiava a modo suo. Le nozze furono comunque celebrate il 24 aprile 1854. I turisti vengono ora informati su ogni dettaglio nelle mostre viennesi. Sissi era alta un metro e settantacinque. Aveva un girovita di soli cinquanta centimetri. Voleva essere bella per l’eternità e la sua parrucchiera Fanny Angerer doveva nascondere accuratamente ogni capello che restasse nella spazzola, altrimenti erano guai. Era amante dei cavalli . Durante i suoi viaggi in Inghilterra e in Irlanda partecipò a molte cavalcate e fu gradita ospite presso una certa famiglia Spencer! Nonostante i suoi capricci l’Imperatore stava dalla sua parte: la chiamava il suo “angelo Sisi”, faceva costruire residenze dove essa voleva, veniva a sapere dai giornali dove essa soggiornava, faceva installare per lei perfino una vasca da bagno nell’appartamento della Hofburg, mentre egli continuava a preferire il catino per lavarsi. Sissi rifiutò di vivere da Imperatrice e preferì la propria bellezza alla rigidità della corte. Forse pensava di appartenere solo a se stessa, come lascia pensare il famoso ritratto dipinto nel 1864 da Franz Xaver Winterhalter. Tra i 145 sarcofaghi allineati nella Cripta die Cappuccini ve n’è uno che ha più fiori degli altri. Su un nastro che lega tre rose sta scritto: “In ricordo dell’Imperatrice e Regina Elisabeth”. A giudicare dalla grafia sembra che l’omaggio venga da una giovanissima. (Quaderni del Lombardo-Veneto, n. 47, pag. 46-47, Padova 1998.).

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GLI   STATUTI   DI   BRUGNERA

Lo studioso friulano che, essendo venuto in possesso di documenti interessanti sulla storia del proprio paese, ne informasse il Sindaco o la direzione della Biblioteca, avrebbe scarse possibilità di ottenere una risposta. A dispetto del disinteresse diffuso, la storia friulana rimane una scheggia di esperienza umana notevole. In tale dimensione storica assumono sufficiente rilevanza gli Statuti di Brugnera, cioè di un lembo di terra friulana che merita di essere riconosciuta e rivalutata. Il feudo di Brugnera apparteneva ai signori di Porcia e Brugnera. Nel 1268 la famiglia aveva suddiviso in due parti la propria giurisdizione. Quella di Brugnera comprendeva le ville di Albina, Brugnera, Calderano, San Cassiano, Francenigo, Gaiarine, Maron, Resteiuzza e Roverbasso. Si noti come talune località sono addirittura al di là della Livenza, cioè del confine friulano storico. Gli statuti di Brugnera, intesi quale legislazione per il territorio, risalgono al 1335, cioè all’anno della contesa tra il Patriarca Bertrando d’Aquileia e Rizzardo VI da Camino per il possesso di Sacile. Dalle genealogie si rilevano i nomi degli appartenenti alla famiglia di Porcia e Brugnera viventi in quel tempo: Bortolussio, Alberto, Nicolò, Tolberto, Biachino, Gabriele, Morando, Odorico, Nanfosio, Artico Federico. Il terzo ed il sesto personaggio erano presenti, in qualità di plenipotenziari, alla pace tra il Patriarca Pagano e gli Scaligeri nel 1332. Il nono fu Castaldo della Meduna e preposito di S. Stefano d’Aquileia. Artico fu invece avvocato della chiesa di Ceneda ed ebbe ben tre mogli. Tra le donne c’erano Chiara, Beatrice, Gaia, Mabilia, Beatrice. La seconda e l’ultima furono rispettivamente mogli di Guecello da Camino e del signore di Polcenigo. Dagli Statuti di Brugnera emergono aspetti interessanti della vita friulana del 1300. In quell’epoca il potere di emettere sentenze capitali competeva al Patriarca. L’unica eccezione era costituita dai Porcia-Brugnera e questa non era attribuibile ad un’usurpazione di tale prerogativa, com’era effettivamente accaduto in Friuli nel 1238, quando cioè il Patriarca Bertoldo fece cessare gli abusi. Gli articoli sull’economia sono rari. Nel settore agricolo era disposto che i campi fossero abbandonati dopo il raccolto. Forse lo sviluppo economico non era molto vasto a quel tempo lungo le rive della Livenza. Numerose erano, invece, le punizioni. Negli altri statuti friulani la pena per fatti lievi era di 8 soldi, per i reati minori la multa raggiungeva i 20 soldi; per casi più gravi si giungeva ai 25 soldi. Per Brugnera la pena minima era di 25 soldi di denari piccoli. La somma si raddoppiava e si quadruplicava a seconda delle aggravanti. Questo concetto giuridico derivava dal diritto germanico e sembra ricorrere, oltre che a Brugnera, soltanto a Sacile e Polcenigo. Non sempre le pene erano pecuniarie. I maldicenti, per esempio, venivano immersi per tre volte nella Livenza senza alcun riguardo per le stagioni. I ricordi dei ricordi tramandano che ancora nel nostro secolo una donna, la popolare “Spedocina”, dovette scontare la pena corporale a causa delle frequenti allusioni ai parassiti ospiti delle capigliature dei vicini. Le maggiori preoccupazioni degli Statuti di Brugnera sembrano derivare da risse, furti, percosse, intrusioni nelle proprietà altrui, irregolare commercio di vino, porto d’ arme abusivo. Gli ultimi articoli, tuttavia, proibivano severamente il consumo delle piccole ciambelle biscottate, confezionate con farina di cereali poveri, ancora noti col mitico nome di “butholài”. Segno evidente che i dolciumi erano considerati dissolutezza. Lo stesso dicasi per qualche modesta civetteria nell’abbigliamento, che di solito costituiva l’unica esagerazione, si fa per dire, del sabato santo. I signori di Porcia e Brugnera, cui competeva l’amministrazione della giustizia mediante l’applicazione degli Statuti, accettavano le accuse purché integrate da giuramento. Era un modo come un altro per appellarsi alla certezza del diritto. A giudicare dai risultati, nel 1300 non c’era sulle rive della Livenza la criminalità organizzata. Queste norme giuridiche rappresentano uno specchio fedele della situazione e della mentalità trecentesca friulana. Esse debbono essere, tuttavia, inquadrate nella più ampia realtà sociostorica dell’epoca. A tal fine risulta indispensabile l’opera del prof. Günther Probstz-Ohstorff intitolata “Die Porcia” ed edita dalla Deputazione di storia patria della Carinzia nel 1971, di cui purtroppo non esiste una traduzione in italiano. (Il Fogolâr Furlàn di Milano).

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IL  TOSON  D’ORO

Dopo le battaglie della fine del 1400 contro i Turchi, l’utopia di far convergere tutti i Principi d’Europa in un unico Ordine, tramontò definitivamente. Filippo il Buono, Duca di Borgogna dal 1414 al 1467, progettava una grande Crociata intesa a contrastare la pressione turca. A tale scopo egli, dopo aver rifiutato l’ attribuzione dell’ Ordine della Giarrettiera offertagli da Enrico VI, decise di fondare un nuovo Ordine cavalleresco che sottolineasse la propria indipendenza e lo sostenesse nella realizzazione dei primi piani. Il 1° gennaio 1430 Filippo il Buono sposò a Bruges Isabella del Portogallo. In tale occasione egli ufficializzò anche la fondazione dell’ Ordine del Toson d’ Oro, il quale aveva per finalità dichiarate la gloria di Dio e la difesa della Religione cristiana. Il Pontefice Eugenio IV espresse la propria approvazione con il Breve del 1443 e i Padri del Concilio di Trento aggiunsero ovviamente la loro benedizione. Lo Statuto dell’ Ordine, redatto in lingua borgognona, fu promulgato il 22 settembre 1431 a Lilla in occasione del primo Capitolo solenne. In quella data furono investiti i primi 24 Cavalieri. I 66 articoli statutari prevedevano, tra l’altro, che i Cavalieri del Toson d’Oro fossero 31. Carlo V portò il numero a 51 e poi Filippo IV lo aumentò a 61. I Cavalieri, nobili per nascita o per meriti particolari, si impegnavano a demandare al Capitolo dell’ Ordine ogni controversia sorta tra loro, preoccupandosi soprattutto che prevalessero la tranquillità e la prosperità del bene comune. L’ Ordine del Toson d’ Oro fu ammesso al Gran Consiglio Sovrano e invitato a controfirmare la Prammatica Sanzione del 1549. I Cavalieri avevano il privilegio di stare a capo coperto a cospetto del Re e di possedere una particolare pietra d’ altare per farvi celebrare la Messa. I massimi dignitari dell’Ordine erano: il Cancelliere, il Tesoriere, il Giudice e il Re dell’Armata. Quest’ultimo era anche denominato Toson d’ Oro e indossava, durante le cerimonie, un prezioso collare d’ oro smaltato, chiamato “forca” oppure “gogna”. Il monile comprendeva gli stemmi di tutti i Cavalieri viventi nel corrispondente periodo di tempo. Al collare era appesa l’ immagine di un vello di pecora, che doveva essere “penzolante” e “traballante”. Ogni collare assegnato portava incisa una cifra, che consentiva di conoscere il numero dei Cavalieri insigniti in precedenza. In caso di morte del titolare, tutto doveva essere restituito al Tesoriere entro tre mesi. Il collare recava anche la scritta: “Pretium non vile laborum = Grande ricompensa per l’impegno profuso” e “non aliud”, a significare che un principe insignito del Toson d’ Oro non aveva più motivo di aspirare ad altri riconoscimenti e onori. L’origine del vello ovino è controversa. La leggenda accenna all’ispirazione esercitata dalla bionda e folta capigliatura di Maria van Crombugghe, una delle donne più belle e ambite dell’epoca in Europa. Un altro modello potrebbe essere stato probabilmente il mito di Giasone e degli Astronauti alla ricerca del vello d’ oro. In entrambi i casi il simbolo fu oggetto di critiche. Maria van Crombugghe era una delle 24 favorite più note e non sembrava il caso di proporla come modello di virtù. Giasone, invece, era un eroe pagano, noto per comportamenti non edificanti. Egli non aveva, infatti, mantenuto la promessa di matrimonio fatta a Medea, cosa indegna per un modello cavalleresco. Fu dunque proposto di sostituire Giasone con Gedeone. Questo fu un eroe biblico, il quale non aveva esitato a ringraziare Dio per i miracoli ottenuti, offrendo sacrifici di ovini. Il richiamo al vello di pecora non sarebbe sembrato, pertanto, fuori luogo. L’ Ordine del Toson d’ Oro non ebbe mai carattere territoriale. La sua sovranità non si trasmise, per esempio, alla Stato di Borgogna, bensì alla Casa di Borgogna. Quando Carlo V rinunciò, nel 1529, a ridiventare Duca di Borgogna e cedette la carica stessa a Francesco I, quest’ ultimo rimase estraneo all’ Ordine. Il Re di Francia consentì a Carlo V di conservare il titolo onorifico di Duca di Borgogna, affinché egli mantenesse la sovranità dell’ Ordine fino al 1555, anno della sua definitiva rinuncia al titolo medesimo. La festa dell’ Ordine ricorre ogni anno il 30 novembre, giorno di S. Andrea. Dal 1 dicembre 1963 il Gran Magistero è affidato all’ Arciduca Otto d’ Asburgo, figlio dell’ultimo Imperatore Carlo I. L’ Ordine del Toson d’ Oro conta attualmente 50 Cavalieri. La lingua ufficiale è il Francese. Il 30 aprile 1478 la sovranità dell’ Ordine del Toson d’ Oro fu assunta dall’ 80° Cavaliere Massimiliano, Arciduca d’Austria e futuro Imperatore. La Casa d’ Asburgo nominò tra il 15° e il 18° secolo 538 Cavalieri. Al 445° posto dell’annuario dell’ Ordine figura Giovanni Ferdinando Conte di Porcia, insignito nel 1657 durante il Magistero di Filippo IV, Re di Spagna e sesto sovrano del Toson d’ Oro della Casa d’ Asburgo. Giovanni Ferdinando di Porcia, nato a Venezia probabilmente nel 1605, Ambasciatore di Ferdinando III presso la Repubblica Veneta, Conte di Mitterburg e Brugnera, Signore di Senosetsch e Prem, Maggiordomo di corte della Contea principesca di Gorizia, Consigliere segreto dell’Imperatore Leopoldo I d’ Asburgo e Primo Ministro, Governatore della Carinzia, fu elevato al rango principesco del Sacro Romano Impero il 30 aprile 1662. Nel castello Porcia di Spittal (Carinzia) ebbero luogo molti importanti eventi musicali, che rispecchiarono l’interesse del Principe Giovanni Ferdinando per la musica, le lettere e le arti fino alla sua morte, avvenuta nel 1665. (Per le nozze di Guecello di Porcia e Brugnera con Valeria Pedroni, 21 giugno 2003).

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I L     T R A M O N T O   D E L L’ O C C I D E N T E (*)

Le mire islamiche sull’Europa non sono una novità. Si comincia con Poitiers, si prosegue col primo sbarco a Marsala nel 926, ci si arresta a Granada verso la fine del 1400, Solimano il Magnifico punta su Vienna nella prima metà del 1500, si tenta un’offensiva nel 1571 a Lepanto, Maometto IV° assedia Vienna nel 1683…, tutte vicende accuratamente evitate nella recente Costituzione Europea, naturalmente. Bisogna dire che le prime invasioni islamiche, specialmente in Spagna e in Sicilia, significarono anche trasmissione di sapere, impulso per l’arte, integrazione di cultura. Nelle ultime spedizioni turche verso il cuore d’Europa prevalsero, invece, i succhi gastrici. La trasmigrazione in atto verso l’U.E. significa che solo il metodo è mutato: da militare a migratoria e demografica. Si prevede che entro questo secolo l’islamizzazione del continente sarà ultimata e non si sa a chi attribuire il fenomeno. La circostanza che presto un cristiano europeo sarà bizzarro come oggi un buddista svedese, per usare le parole del filosofo delle religioni Philip Jenkins, sarebbe ormai rassegnazione. L’islamizzazione in corso è diretta conseguenza della fine dell’Impero austro-ungarico. Essa si verificò per diritto di conquista, come scrisse Sergio Romano nel Corriere della Sera del 2 gennaio 2005. Se quella antica struttura politica multiculturale avesse potuto resistere nel 1918 (anziché consentire la salvezza d’altri, come risulta negli Atti della Beatificazione di Carlo I° d’Asburgo), non ci sarebbe stata la seconda guerra mondiale con le distruzioni e gli stravolgimenti che ne seguirono e che ci inquietano. Quel crollo è paragonabile al taglio dei boschi. C’è un iniziale vantaggio dalla vendita del legname, ma poi giungono i dissesti idrogeologici. Non si dimentichi che l’ antica Diocesi di Vienna era stata elevata al rango di Arcidiocesi proprio per i suoi trascorsi di resistenza e per la sua funzione di contrasto alle invasioni dall’ Oriente. Sembra ora il caso di ripetere con Shakespeare che quando il vecchio cane muore, le fedeli pulci si avventano sui suoi cuccioli. Le cause del disfacimento dell’Impero asburgico sono ben note. Altrettanto palese è che non fu un vantaggio. Ma quanto valeva quella perdita di fronte ai nazionalismi baldanzosi e miopi? Le conseguenze si estendono, infatti, anche a popoli che nella Grande Guerra non erano coinvolti e che oggi pure si trovano al bivio. La colpa ufficiale del via libera all’islamizzazione del Continente (ormai diventato “ incontinente ”!) è ravvisabile. Non così i fiancheggiatori occulti nostrani con stipendi d’oro per facce di bronzo, che sono più pericolosi di tutti gli artefici diretti dell’anti occidentalismo. E’ sempre stato così. Quando Vienna, cuore d’Europa, corse seri rischi durante il primo assedio, a Venezia c’era chi auspicava una vittoria del Sultano per esempio. Ad un certo punto si ritenne che l’ occupazione della capitale fosse imminente e ci si affrettò a far realizzare dagli orafi veneziani nel 1532 una preziosissima tiara a sette strati con perle rare a goccia per incoronare Solimano imperatore e papa dell’occidente. E’ inutile fare gli ingenui perché la corona è esposta a New York presso il Metropolitan Museum of Art. Forse è il caso di ricordare, per rimanere a quei tempi, che la nobile veneziana dodicenne Cecilia Venier fu rapita per farne un dono a Solimano. Il rapitore si chiamava Barbarossa, un nome non propriamente turco ma greco. Il francescano calabrese Ochiali combattè inoltre per i Turchi a Lepanto. A lui si deve la rapida riorganizzazione della flotta dopo la sconfitta ad opera delle navi cristiane. Anche nel secondo assedio di Vienna non mancarono gli occidentali accorsi in aiuto ai Turchi. I Re francesi furono tra i primi. Era il 1683 e la città, ultimo sogno d’Europa, sarebbe caduta senza il provvidenziale intervento di Marco d’Aviano. Non è noto se in qualche luogo fosse stata ideata una seconda corona! Ebbene, un ingegnere esperto in esplosivi doveva far saltare le mura per consentire l’accesso delle armate osmane. Il suo nome islamizzato era Islam Ahmet Bey, ma era un cappuccino coetaneo di Marco d’Aviano. Non sembri da guastafeste segnalare che egli apparteneva alla stessa Provincia veneta dell’ Ordine e che dunque i due protagonisti forse si conoscevano. Anche il nome dell’ammiraglio turco Cicala dice qualcosa circa l’origine del personaggio. L’ elenco potrebbe continuare e viene da chiedersi se valga la pena di fare qualcosa per ritardare il declino di una simile società. Non si può, con simili precedenti, pensare che l’attuale penetrazione nei grandi spazi mondiali, temuta specialmente dai settori vitivinicoli, bancari e della salumeria, difetti di valide collaborazioni occidentali che indicano, come pallido risarcimento, corsi di lingua araba per le scuole in crisi. L’integrazione avrà luogo, ma nel senso che gli europei (e non viceversa) si adegueranno, s’intende. Queste realtà non hanno nulla da temere dalle situazioni da loro stesse favorite. E’ noto che i monatti salivano incolumi sui carri dei cari estinti. E’ proprio vero, non si è mai abbastanza cauti nella scelta del propri contemporanei. Quale sarà l’evoluzione di questo stato di cose? La nostra sommersione sarà accentuata dal noto eccesso o uso improprio della tolleranza, che ha già raggiunto livelli assurdi? Non si dimentichi che in qualche Paese c’è già la possibilità di detrarre dalle tasse le spese per l’acquisto di armi ed esplosivi per compiere reati. In fondo si tratta di spese sostenute per l’attività, senza nemmeno chiarire se questa debba essere lecita o meno. Da noi si è per ora fermi alla chirurgia estetica che realizza l’ombelico a forma di mezzaluna su pantaloni a vita bassa. Il resto verrà. Non può essere diversamente. Quando un equilibrio si squilibra, scattano dinamiche ingovernabili e imprevedibili. Dopo alterne vicende non sembri esagerato prevedere la pretesa di costituire stati nazionali islamici indipendenti nei Paesi di immigrazione, come avvenuto in passato nei Balcani. Il futuro non vive di ideologie, ma di memorie. A questo punto, e solo in questo caso, a qualche nazionalista nostrano aumenterà la pressione sanguigna per lo sdegno. Sarà troppo tardi e, in fondo, sarebbe anche una giusta punizione per la cecità storica sempre ostentata, finis Austriae compresa. Il tutto avverrà nell’inerzia generale intervallata da qualche monitus interruptus (mugugno). Si tirerà in ballo l’opportunità e a nessuno verrà in mente che anche la distruzione di Cartagine fu un atto di opportunità. Catone il censore non tollerava, infatti, che a Cartagine si producesse un olio d’oliva migliore di quello dei suoi uliveti. In genere perché l’ignoranza trionfi basta che gli intelligenti tacciano o siano costretti a tacere in un ambiente dove due sono le immensità: l’universo e la stupidità. Per l’universo ci sarebbero tuttavia dei dubbi. Il poeta latino Lucrezio ha lasciato un suggerimento per casi analoghi: “E’ dolce guardare da riva il naufragio di chi si è inconsciamente avventurato nell’immenso mare”. A proposito, se qualcuno incontrasse per caso il futuro, gli dica per favore di non venire perché anche il futuro non è più quello di una volta.

(*) Dal titolo dell’omonimo libro di Oswald Spengler. [Il Piave, mensile stampato a Conegliano, feb. 2005].

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LA  VILLA  TARDO  ANTICA .

Le antiche pavimentazioni a mosaico localizzate nel 1891 nella zona del Foro Boario non dovettero interessare molto, se vi rimasero ancora per vent’anni prima della degna collocazione nel Museo di Oderzo. Cinque frammenti rappresentano altrettante suggestive scene di caccia. Un sesto reperto descrive in parte la struttura di una villa risalente alla prima metà del IV secolo d.C., che potrebbe essere la stessa costruzione cui i pavimenti appartenevano. Si notano il muro di cinta e il cancello semiaperto, oltre i quali una donna con fazzoletto e grembiule è intenta a nutrire le oche. I palmipedi sono evidenziati da apposito sfondo. Dietro si affrontano due galletti. Oltre il muro un vitello sbircia la scena. Nella parte superiore si vede un portico a pilastrini con base e capitello, la cui ringhiera è integrata da un’intelaiatura con paletti di rinforzo. L’importanza e la rarità di questo reperto consistono nell’applicazione al mosaico di una rappresentazione prospettica altrimenti presenti nei soli bassorilievi. Più precisamente quanto raffigurato in alto senza rispettare le proporzioni corrisponderebbe all’interno della casa e non a un piano superiore della stessa. Viene spontaneo chiedersi a chi appartenesse la villa con i preziosi pavimenti a mosaico. La risposta è pronta ma infondata: il proprietario era un patrizio romano, cui erano state attribuite terre nell’Opitergino! A costo di suscitare delusione, si fa rispettosamente notare che un patrizio romano, anche se ne fosse rimasto qualcuno nelle legioni a quel tempo, difficilmente avrebbe rinunciato alle comodità dell’Urbe per stabilirsi in un luogo né lieto, né bello (nec laetus, nec pulcher) scelto per scopi puramente militari o per la sola ragione di sottomettere i popoli indigeni (“unam ad priores populos coercendos”). Sarebbe stato destino più appetibile fare il gladiatore nel circo. Le legioni romane, ormai rarefatte, erano state sostituite da contingenti non romani nelle provincie dell’impero (Oderzo faceva parte della X regio Venetia et Histria) già da tempo. La conseguenza fu l’elezione di non romani nella massima carica imperiale: Ottone e Vitellio (69 d.C., imperatori legionari), Traiano (98-117 d.C., spagnolo), Severo (193-211 d.C., africano), Massimino il Trace (235-238 d.C.), Claudio il Gotico (268-270 d.C.), Diocleziano (284-305 d.C., dalmata), e altri. Aumentava contestualmente a Roma l’onomastica indice di consistente demografia non più latina. Nomi come Caesus, Caesonius, Flavius, Caesar, Ravilia, Albinus, Rubius, Longus, Magnus alludono chiaramente a caratteri somatici nordici, cioè capelli biondi o rossicci, occhi azzurri o grigi (come Catone, Silla, Augusto), colorito della carnagione o alta statura (come G. Cesare). Nell’epoca cui risale la villa opitergina le legioni erano costituite quasi interamente da Germani. A gruppi della stessa estrazione, stanziati vicino a vie di comunicazione terrestri o fluviali, appartenevano sia i coloni militari organizzati da un “praefectus”, sia gli operatori commerciali. La proprietà della villa tardo-antica va dunque collocata nel contesto socio-storico opitergino della prima metà del IV secolo che, per i motivi accennati, non poteva essere romano. Alla “Magistra Barbaritas” e alla sua rude e sana vitalità dobbiamo dunque la dimensione artistica dei mosaici conservati nel Museo di Oderzo. (Il Dialogo, mensile, Oderzo) .

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“VIVI O MORTI SIAMO DEL SIGNORE”

“Tutta la storia umana si divide in quattro epoche: il tempo dell’errore, il tempo del rinnovamento, il tempo della riconciliazione, il tempo del pellegrinaggio. Il tempo del pellegrinaggio è la presente età, nella quale siamo sempre come pellegrini in battaglia” [Jacopo da Varagine (benedettino) – Legenda Aurea].

Le mie parole spiegheranno, tra l’altro, il senso del titolo di questa relazione. Prima di tutto, però, un po’ di storia. Nel clima avventuroso e cavalleresco delle Crociate, nove personaggi si presentarono nel 1118 a Re Baldovino II a Gerusalemme: “Siamo infermieri e vorremmo curare i Crociati e i Pellegrini feriti”. Il sovrano rispose: “La proposta interessa, ma quale compenso chiedete?”- “Nulla”, risposero quelli, “chiediamo soltanto di alloggiare in un settore della reggia”. La richiesta sembrò ragionevole e l’accordo fu fatto. Il palazzo sorgeva sulle rovine del Tempio di Salomone. I nove personaggi divisero le loro attività in turni: alcuni curavano i feriti, altri frugavano nei sotterranei di quello che era stato l’edificio più importante della città. Trovarono qualcosa? S’imbatterono nei misteri della saggezza orientale antica o nelle regole della geometria sferica? Non si sa, ma in quel tempo si alzarono in Europa le cattedrali gotiche e l’arco a sesto acuto si rivelò un’ importante innovazione architettonica. L’Ordine fondato dai primi Templari crebbe in fretta. Le Comanderie e le Precettorie si moltiplicarono a vista d’occhio. Le prime erano istituzioni militari, le seconde centri di attività agricole e imprenditoriali per i rifornimenti dell’attività in Terra Santa. La fama del valore militare e della buona amministrazione si propagò ovunque. Il sigillo templare raffigurava due cavalieri su un unico cavallo. Poteva significare la parsimonia, il risparmio nei mezzi di trasporto che erano allora, come attualmente, molto costosi. In realtà c’era una ragione tattica: il secondo cavaliere scagliava sugli avversari i giavellotti e poi, insieme al compagno, scendeva con la spada in pugno per completare l’opera. Il pubblico può prendere visione di tale sigillo, perché ne è disponibile una copia fedele sul tavolo. I Templari avevano in principio la regola di Sant’ Agostino. Giova ricordare che questo Padre della Chiesa pregava sì il Signore di dargli il dono della castità, ma non subito. La regola fu comunque sostituita da un’altra molto più mistica e severa, dettata da San Bernardo da Chiaravalle. San Bernardo scrisse, su richiesta del primo Gran Maestro del Tempio, la Lode della Nuova Cavalleria intorno all’ anno 1130. Lo scritto consiste in un prologo e 13 capitoli. Era proibito ridere e giocare, portare capelli corti, cantare. Due cavalieri mangiavano in un’unica scodella. L’ igiene lasciava molto a desiderare. Immaginiamo cosa significasse indossare l’armatura con il caldo e con la polvere dell’ Oriente! Alcune tra le più memorabili battaglie ebbero luogo a Gaza (1171), Tiberiade (1187), Damietta (1219), Mausourah (1250), Sephet (1262). Dopo la caduta di Gerusalemme l’Ordine si trasferì prima a San Giovanni d’Acri e poi a Cipro. Si calcola in 70.000 il numero dei caduti in battaglia, Templari di ogni lingua europea. Tra i primi 23 Gran Maestri dell’Ordine del Tempio, 13 morirono nell’esercizio delle loro mansioni: 7 in combattimento, 5 in seguito a ferite, 1 in prigionia. Festività dell’Ordine del Tempio erano il 24 giugno (San Giovanni Battista), 20 agosto (San Bernardo da Chiaravalle), 11 marzo (giornata di lutto per i martiri). Sapienza templare: “sensu admisso fit idem, quasi natus non esset omnino” (chi non sopporta la verità non è degno di essere nato) – “Fra tris more noveris, non oderis” (puoi vedere il comportamento del fratello, non odiarlo). Alcune abitudini dei Templari: l’ uomo sposato poteva diventare Templare, purché anticipasse metà del proprio patrimonio; abbigliamento: camice di lana sulla pelle; saluto di riconoscimento: pollice piegato sul palmo della mano. Nessun riscatto pagato per la liberazione di prigionieri templari. Lingua dell’ Ordine era il latino, sostituito dal francese nell’uso corrente. I Templari avevano un proprio motto e una propria bandiera. Il primo era: Non nobis, domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam” (Non a noi, o Signore, non a noi, ma al Tuo nome dà gloria).- La seconda si chiamava “Baussant”. Era un vessillo bianco e nero, bipartito. Sono dicerie che il nome significasse “vaut cent” (vale cento) oppure “beau sang” (il bel sangue). Baussant è un aggettivo dell’ antico francese, significa “bicolore” e riguarda il mantello dei cavalli. Oggi si direbbe “baio”. Il vessillo era custodito e scortato da 5 – 10 cavalieri e non poteva mai essere abbassato. Serviva forse a segnalare dove si trovasse il comandante (il Maresciallo del Tempio)? Oppure c’ era una motivazione biblica? Mosè teneva alzata la mano e Israele vinceva; se l’abbassava prevalevano gli Amaleciti, così sta scritto (Esodo 17, 8-16). Nel “Parzival”, ricorda G. Malvani, c’ era un cavaliere bianco e nero, un cavaliere della Tavola Rotonda chiamato Feirefitz, cioè “figlio variopinto”. Bianco e nero erano anche i colori della luna: il primo si riferiva alla fertilità, il secondo alle occulte virtù del pianeta. Per quale motivo l’ Ordine era così numeroso? A quei tempi chi non era primogenito, non ereditava. Poteva, però, trovare equipaggiamento e gloria nelle oltre 9.300 comanderie templari. Bisogna intendersi su quanto costasse allora armare un cavaliere. Un cavallo valeva da 25 a 50 soldi (un bue ne costava 6); per un “giaco” (veste di maglie di ferro o di filo di ottone per coprire il petto e le reni) servivano 100 soldi, come per acquistare una fattoria. Poi bisognava mantenere lo scudiero, provvedere le armi, acquistare i foraggi….- Sarebbe oggi come mantenere un carro armato o un velivolo da combattimento. Una contea poteva al massimo fornire 150 cavalieri (Jacques Le Goff, Il basso medioevo). Alla fine delle Crociate c’erano tre eserciti armati fino ai denti che preoccupavano papi e sovrani, i quali se ne erano serviti fino a poco tempo prima: l’Ordine di Malta, i Cavalieri Teutonici e i Templari, appunto. I primi furono mandati a combattere i pirati nel Mediterraneo; i secondi dovettero affrontare i Prussiani infedeli; i terzi diventarono i tesorieri di monarchi e di papi. Questi ultimi svilupparono una grande attività bancaria, inventando perfino l’assegno circolare. Le ricchezze templari erano note ovunque, specialmente al Re Filippo il Bello di Francia e al Pontefice Clemente V, che si erano molto indebitati per costituire i loro regni centralistici. Questi galantuomini si chiesero: “Se dichiariamo i Templari eretici, che succederebbe?” – “Beh, in questo caso non dovremmo restituire più nulla”. Così fu fatto. Il 13 ottobre 1307 furono arrestati i Templari francesi. Su istigazione del Re Filippo il Bello, il 12 agosto 1308 il primo papa di Avignone pubblicò la Bolla che ordinava la procedura contro l’ Ordine del Tempio. Il Re Filippo il Bello, il 13 maggio 1309 fece bruciare vivi 54 cavalieri. I Commissari Pontifici protestarono… E’ inquietante questo ripetersi del giorno 13, divenuto da allora segno di sventura. Il 22 marzo e il 6 maggio 1312 furono emanate le Bolle pontificie “Vox in excelso” e “Considerantes dudum”, che abolivano l’Ordine del Tempio in via provvisoria e d’ordine apostolico (…non per modum definitivae sententiae, cum eam super noc his habitus non possemus fere de jura, sed per viam provisionis et ordinationis apostolicae…) Si ravvisa affinità con la Bolla “Dominus ac Redemptor meus” del Papa Clemente XIV, con la quale fu abolita nel 1773 l a Società o Compagnia di Gesù, nota per i servizi resi alla fede e alla civiltà. L’11 marzo 1314 fu arso anche il Gran Maestro, il quale insistette fino all’ ultimo ad affermare che l’Ordine era puro e sano e loro “vivi o morti erano del Signore”. Nei processi le accuse si rivelarono inconsistenti, ma non così la tortura. Si voleva che i Templari avessero vilipeso la Santa Croce nei rituali di accoglienza dei nuovi adepti. Si trattava di una pantomima simbolica in cui il postulante doveva dimostrare di trovarsi in uno stato di bassezza, dal quale lo avrebbero tratto i suoi confratelli per guidarlo sulla via della perfezione. L’ Ordine è veramente estinto o potrà ancora impegnarsi per il bene dell’Occidente? L’ultimo Gran Maestro, prima di morire, aveva trasmesso i propri poteri a un dignitario sopravvissuto. Dal 1324 al 1704 ci furono Gran Maestri francesi. Nel 1705 il potere passò al Duca d’ Orleans. Poi ci fu la clandestinità a causa della Rivoluzione.- Nel 1808 i Templari riemersero. Il 28 marzo 1808 il Coadiutore Generale (guardia spirituale) recitò l’ orazione funebre per i martiri dell’ Ordine del Tempio nella chiesa di San Paolo a Parigi. Seguirono contese interne: in Gran Bretagna fu eletto Gran Maestro il Principe di Galles, in Germania l’ Imperatore Guglielmo II.- Nel 1960 fu eletto Reggente F. Fernando P. de Sousa Fontes. E’ lecito chiedersi come mai il pensiero e gli ideali templari siano ancora attuali. Le schiere di quei monaci combattenti erano spesso reclutate nel Nord Europa, terra di antichi miti e di profonde suggestioni. A loro si deve la nuova impronta conferita alla Cavalleria in declino, impronta che preparò le future elitès europee. I loro modelli, Gesù e il Battista, erano più vicini all’ ideale templare di quanto lo fossero i chierici romani salmodianti. Il pensiero di questi asceti-guerrieri era collegato al concetto provenzale di “avventura”. In antico irlandese si sarebbe detto “echtrai” (G. Malvani). “Ech” significa “cavallo” e “traigh” la spiaggia. L’avventura dei romanzi cavallereschi non era altro se non una galoppata mattutina o serale sul bagnasciuga, guidati da un animale saggio: il cavallo. Anche Parsifal se ne servì. Si legge nel poema: “Or va dunque tu, come a Dio piace!”- gli disse e abbandonò le redini sul collo, dandogli forte di sprone.- Può essere che per istruire gli eletti fra i Templari fossero chiamati personaggi con estese conoscenze. L’ autore del Parsifal, Wolfram von Eschenbach, dovette essere tra questi e pure Dante Alighieri, se è esatta l’interpretazione di una scritta su una medaglia dell’ epoca, che lo vuole fratello accolto nell’ Ordine. Chi si sente in grado di farlo, può accogliere nelle proprie cellule i significati e le dimensioni di quella affascinante avventura che fu la sapienza templare. Gli amici della Cascina Linterno potrebbero organizzare un incontro sull’eventuale aspetto esoterico di quest’ ultima. La Milizia del Tempio giunse a Milano nel 1134, certamente al seguito di San Bernardo, giunto a Milano con lo scopo di sottrarla all’ influenza del papa scismatico Anacleto. C’ erano allora turbolenze in città tra i partiti che sostenevano rispettivamente l’Arcivescovo Anselmo V e il Papa Innocenzo II. San Bernardo vi giunse scortato dai Templari. La prudenza, allora come ora, non è mai troppa: San Bernardo poté parlare liberamente e riuscì ad infiammare gli animi dei convenuti a favore della Chiesa di Roma. La presenza autorevole dei Templari quasi fossero “angeli de coelis” influenzò la folla convenuta assieme ai prelati per il giudizio nei confronti del vescovo ribelle che dovette lasciare la città. San Bernardo proseguì la sua azione fondando il monastero di Chiaravalle e rendendo stabile l’insediamento della Militia Templi con la fondazione di una Comanderia nella zona del “Brolo grande”, che era un’estensione di 430.000 mq. Fuori dalle mura tra Porta Romana e Porta Tosa, in grado di controllare una delle vie d’accesso alla città. Gli edifici dovevano trovarsi nei pressi della Clinica De Marchi; non è senza motivo che la strada si chiama Via della Commenda. L’Imperatore Barbarossa e il suo quartier generale furono ospiti della Mansione templare nel 1154 e nel 1158. In quella occasione l’assedio risparmiò il lato ad ovest della città, più o meno dove si trova la Cascina Linterno. Viene da chiedersi perché. Era un presidio templare deputato al reperimento di foraggio, viveri e armi per i combattenti in Terra Santa, dove l’ Imperatore si sarebbe poi recato incontrandovi la morte? E ancora, i Templari erano Guelfi” o “Ghibellini”? Obbedivano al Papa, dunque dovevano essere guelfi, ma, nei periodi di pace tra le due fazioni, chissà…- I Templari: ossia non solamente gli eroici difensori della Terrasanta (quali fino ad oggi sono stati riconosciuti) ma anche e, forse soprattutto, i grandi Saggi che hanno reintrodotto in Europa l’Alchimia, dando così un nuovo e più compiuto significato alla vita umana. Quel significato che costituisce anche la profonda essenza dei romanzi del Santo Graal e che è così ben riassunto nel famoso motto templare (G. Malvani, L’eredità sapienziale dei Templari ovvero: l’ origine dell’ Alchimia medievale in Europa, 1955). Ecco ora alcuni fatti curiosi legati ai Templari. Il 15 settembre 1215 fu assassinato, in Germania, il duca Lodovico di Kelheim sul Danubio. L’attentatore fu ucciso dalle guardie del duca e furono offerte 4 once d ‘argento a chi avesse dato informazioni sull’ identità dell’ assassino. I Templari Domenico d’ Aragona e Ferdinando La Fort resero omaggio alla salma del duca Lodovico e poi esaminarono i resti dello sconosciuto sicario. Essi riconobbero il tatuaggio di Bafometto, ben noto all’ Ordine. Il duca era stato ucciso da un Templare. Il delitto potrebbe essere stato commissionato dagli “Assassini” (potente Ordine islamico in Oriente. Tra i due Ordini c’ erano frequenti contatti e forse interessi non solo politico-economici, ma anche sapienziali. Insegnamento del Vecchio della Montagna (capo dell’ Ordine degli Haschischaschuin o “Assassini”) ai Templari: “l’ Imperatore voleva conoscere il proprio futuro e l’indovino gli disse che avrebbe perduto tutti i suoi cari. Fu congedato senza compenso. Il secondo veggente predisse all’ Imperatore che egli sarebbe sopravvissuto a tutti i suoi cari. Fu ricompensato”. Se l’Ordine del Tempio esistesse attualmente, sarebbe costituito da Gran Priorati (uno per ogni nazione). Un Gran Priorato potrebbe avere uno o più Baliaggi (uno per provincia). Dal Baliaggio potrebbero dipendere una o più Commanderie (una per ogni città). Se l’Ordine del Tempio esistesse attualmente, avrebbe quattro gradi di Cavaliere: Cavaliere, Commendatore, Grande Ufficiale, Gran Croce. Se l’ Ordine del Tempio esistesse attualmente, avrebbe tre classi di affiliati in adeguamento alle Istituzioni similari: Dama, Scudiero, Croce di Merito. Se l’ Ordine del Tempio esistesse attualmente, le firme dei Cavalieri dovrebbero essere precedute da una croce e dalla lettera “F”; la croce sarebbe tripla per il Reggente e per il Gran Maestro, doppia per i Commendatori e soltanto la lettera “F” per i Cavalieri. Se l’ Ordine del Tempio esistesse attualmente, avrebbe le seguenti insegne in adeguamento a Istituzioni similari: Croce (in oro, smaltata in rosso, cm. 52 di lunghezza), Placca (in argento, cm. 85, 8 raggi), Collare (in oro, con 82 grani, croce dell’ Ordine a pendaglio). Se l ‘ Ordine del Tempio esistesse attualmente, gli aderenti avrebbero il mantello a mezza gamba, di panno bianco, caricato sulla spalla sinistra della Croce ricamata e cucita di mm. 260 di lunghezza. Termino con il seguente messaggio: Nel passato si trova la sorgente per dissetare i pellegrini del futuro. Il nostro compito non è di fare il pane, ma di fornire il lievito per la panificazione. I Templari sono fuori dalla ragione, dalla logica, dal tempo, perché sono soltanto uomini di fede”. (Atti del Convegno “I pellegrinaggi e i Templari a Milano”, 13 maggio 2000 nell’ambito del Jubileum A.D. 2000).

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I  MOTI  ANTINAPOLEONICI  IN  VENETO

Un contributo alla ricostruzione storica di avvenimenti poco noti ma assai significativi: la rivolta contro un potere esoso e irrispettoso delle volontà popolari. E’ opinione diffusa che il Veneto sia terre inerte sotto l’aratro della storia, tomba vuota pronta Per ogni contenuto. Una più attenta considerazione di alcuni eventi smentisce però l’indifferenza attribuita ai Veneti nei momenti più critici della loro esistenza. La storiografia si sofferma compiaciuta sull’opposizione a domini stranieri, purché questi provengano da settentrione. Il più rigoroso silenzio cala invece sulla resistenza contro occupazioni di estrazione neolatina, quasi che ammetterne l’esistenza possa in qualche modo porre in cattiva luce i successivi momenti risorgimentali. Si dice che esistano luoghi e momenti in cui sia possibile sapere tutto di certi fatti, senza capirne nulla, oppure sapere poco e capire molto. Sui moti antinapoleonici in Veneto si sa poco, eccetto forse le cosiddette “Pasque Veronesi”, ma la loro comprensione nel giusto senso non manca. Queste righe vogliono essere un modesto contributo alla ricostruzione storica di quei giorni e di quegli avvenimenti. Dopo i preliminari di Leoben, la municipalità di Venezia era riuscita a raccogliere, mediante una votazione a scrutinio segreto, l’aspirazione popolare alla indipendenza. Parigi si sarebbe smentita di fronte al mondo civile se, una volta conosciuto il risultato di quel pronunciamento, non lo avesse rispettato. I messaggeri veneti latori dei risultati elettorali vennero però prontamente fatti arrestare a Novara e nessuno poté accusare la Francia di non avere onorato le ripetute dichiarazioni di rispetto per la volontà dei popoli. Ad eccezione di una parvenza di congiura, attribuita ad un certo Cercato nella prima metà dell’ottobre 1797, le reazioni alla prepotenza degli occupanti furono soltanto formali: volantini inneggianti all’Austria ed ostentazione di indumenti giallo-neri specialmente da parte degli abitanti di Cannaregio. Il malcontento assume dimensioni di aperta rivolta a Comacchio, nel Ferrarese e nel Padovano a partire dall’aprile 1799. Si ricordano ancora i nomi dei capipopolo che ne furono protagonisti: Filippo Zagoli, Valeriano Chiarati e numerosi religiosi del monastero patavino di S. Antonio. Anche Este, Montagnana, Monselice e Chioggia conobbero estesi fermenti, tanto da scatenare pesanti rappresaglie francesi, che a Chioggia furono in parte attenuate grazie all’intervento del vescovo Sceriman. Tali moti possono essere tuttavia considerati delle semplici prove generali. Nel settembre 1805 Napoleone III aveva ricominciato le ostilità e non poco denaro era affluito a Venezia dalla Russia e dall’Inghilterra in funzione antifrancese. Com’è noto, le armi francesi ebbero la meglio a Austerlitz e, con la pace di Presburgo, stipulata il 26 dicembre 1805, il Veneto venne ceduto alla Francia. La reazione dei Veneti non si fece attendere. A Crispino, località situata tra Adua e Rovigo, il popolo si sollevò scatenando l’ira di Napoleone che, con decreto dell’11 febbraio 1806, privò i Crispinesi della cittadinanza. L’11 settembre 1806 il Viceré Eugenio di Beauharnais informava Napoleone che gli abitanti di Orgiano, Trissino e Valdagno si erano rifugiati in armi sui monti con intenzioni rivoltose. La causa di questo atteggiamento popolare sarebbe stata la renitenza alla leva, ma un ruolo determinante va attribuito anche alla preferenza sfacciatamente riservata nell’attribuzione dei posti migliori ad elementi ritenuti fedeli all’Imperatore dei Francesi benché professionalmente impreparati. Il 13 aprile 1809 l’Arciduca Giovanni d’Asburgo aveva vinto a Sacile contro i Francesi anche grazie ai 46 generali veneti accorsi a militare sotto le insegne della Casa d’Austria. Questa vittoria su Eugenio di Beauharnais agì come un catalizzatore, ed anche le notizie provenienti dal Tirolo, liberato dai volontari di Andreas Hofer, dovettero avere un peso determinante. Ad Este, Piacenza d’Adige, Solferino, Grange di Vescovana, Villa di Villa, Ospedaletto, Baldovina, Lozzo, Stranghella e Barbona scoppiarono disordini, che degenerarono anche in vendette personali. Il 9 luglio ci fu una battaglia a Mason fra Francesi e contadini veneti; il giorno seguente fu bruciata Molvena per rappresaglia da parte delle truppe; il 17 luglio i Francesi riconquistarono Asiago procedendo a rappresaglie contro la popolazione civile. A ragione si può parlare di insurrezione generale in Veneto con la contestuale riapparizione della bandiera di San Marco. La maggiore presenza di truppe nelle province di Treviso e Belluno evitò in parte il divampare di moti. Rimane tuttavia significativo l’episodio di Preganziol (Treviso), dove numerosi insorti si acquartierarono nella villa del conte Albrizzi, pretendendo l’argenteria padronale per la consumazione del rancio, argenteria che venne interamente restituita dopo l’uso. Com’è prassi comune in occasione di conflitti, l’avversario non ridicolizzabile viene spesso demonizzato o, nella più fortunata delle ipotesi, criminalizzato. Anche i tempi recenti offrono eloquenti e persistenti esempi di sistematica denigrazione non sufficientemente motivata. Nel caso degli insorti veneti (che furono subito denominati “briganti”) non sempre la loro criminalizzazione fu frutto di propaganda. Furono infatti commessi degli eccessi, che andarono dalla vendetta personale all’appropriazione indebita. I fatti di Feltre e Busche, ove si distinsero anche alcune donne, – una certa G. Negrelli si riteneva novella Giovanna D’Arco – lo confermano. Il 7 luglio la città di Rovigo fu letteralmente occupata dagli insorti ed anche qui avvennero alcune ruberie. Grazie alla intercessione di qualche parroco la refurtiva fu però quasi interamente restituita. C’è da chiedersi a quale strana categoria di “briganti” appartenesse questa gente, che restituita il maltolto! Nel diario della contessa Negri leggiamo invece che “i Francesi peggio dei briganti defraudavano e non restituivano mai nulla”. Il movimento di rivolta dovette essere molto preoccupante, se tutte le principali strade tra Verona e Padova furono presidiate per disposizione del conte Caffarelli, Ministro della Guerra e della Marina. La repressione francese fu sleale e indiscriminata al punto che, come autorevolmente riferisce Cesare Cantù, molti giudici si dimisero per non diventare complici di sanguinosi misfatti. Nonostante la concessione dell’amnistia, la “Cronaca Tornieri di Vicenza” elenca una lunga serie di esecuzioni disposte dalle Corti speciali di giustizia, che non risparmiarono semplici contadini rei di essere stati sorpresi con rastrelli, badili e perfino fruste fra le mani. Se si depurano questi atti dalle immancabili iniziative individuali ed irresponsabili di singoli imbrancati con i numerosi cittadini veneti in buona fede, rimane ammirevole ed inossidabile il tentativo di non accettare un potere esoso e privo di rispetto per l’identità dei popoli. A differenza della sollevazione del Tirolo, i moti veneti furono privi di capi degni di questo nome. Ciò avvenne perché Napoleone, avendo resi noti anticipamene i giochi delle potenze, aveva precluso il coinvolgimento di ingegni e coscienze. (Etnie, Milano – anno VI, 1985) .

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ANDREAS  HOFER  NELLA  LETTERATURA  TEDESCA

Il protagonista per eccellenza della insurrezione tirolese dell’ann0 Nove è stato denominato, di volta in volta, “combattente per la libertà”, “utile idiota”, “martire”, “barbone testardo”, “eroe”, “il santo”, “il fedele Hofer”: valutazioni contrastanti, provenienti da matrici culturali contrastanti. Seguendo l’ indicazione di Francesco De Sanctis, che sosteneva che la più imparziale storia di un paese fosse quella ricostruibile mediante la storia della corrispondente letteratura, cerchiamo, di contro ai continui tentativi di snaturarne il messaggio, di restituire alla figura del vincitore del Bergisel le sue più autentiche connotazioni. Il primo interessamento letterario per le vicende del 1809 è rilevabile dalle pagine di Bettina Brentano von Arnim, Diario di Goethe con una bimba. Già nella lettera del 3.3.1809 traspare un sincero entusiasmo per la causa tirolese, espresso con parole accorate e dense di preoccupazione. Che non si trattasse di semplici dichiarazioni è dimostrato dalla lettera del 20 aprile, dove l’autrice ammette con particolari incontestabili di aver fatto da tramite tra gli insorti e il conte Stadion, rivelando inoltre che lo stesso principe ereditario di Baviera aveva brindato al successo dei Tirolesi. Nel 1810 J.L.S. Nartholdy, zio del compositore Moses Mendelssohn, si servì degli appunti di Bettina Brentano per tracciare un profilo di Andreas Hofer che servisse come incitamento contro Napoleone. Karl Immermann fu autore di ben due libri sui fatti del 1809: Tragedia in Tirolo e Andreas Hofer, l’oste della Passiria. Il comandante montanaro appare sempre come un uomo che agisce più col cuore che con la ragione. La sua figura è il simbolo della lealtà in lotta contro le deviazioni del potere e per meglio definirne il contorno l’autore è ricorso a modelli classici. Vi troviamo infatti spunti di sapore schilleriano, tratti da “I Masnadieri” e dalla “Pulzella d’Orleans”, come pure situazioni kleistiane del tipo di quelle caratterizzanti La battaglia d’Arminio. Nel 1809 fu pubblicata la trilogia drammatica di Karl Domanig. Essa tratta i momenti più controversi della personalità di Hofer. Dopo aver dato l’ordine di smobilitazione egli non è forse riuscito a ravvisare indizi di pace duratura nel comportamento dei Francesi, per cui il primo impulso fu quello di continuare la resistenza. Ma fino a quando? Per poco, naturalmente. Questo errore investe la responsabilità del capo, che decide di pagare per tutti. Contrariamente a quanto si possa pensare, la personalità di Hofer è stata più sovente indagata nel nostro secolo che in quello in cui egli operò. Ciò è spiegabile con l’esigenza, che anche la letteratura rispetta, di osservare i fenomeni da una certa distanza, lontano da rancori o strumentalizzazioni. Rudolf Bartsch è autore del volume Guerra di popolo in Tirolo nel 1809. L’impegno dell’eroe appare completamente rivolto al bene della sua terra ed egli non è mai implicato in progetti politici o nella ragion di Stato. Questa sua astinenza deriva dalla conformazione dell’anima contadina, pronta allo slancio immediato ma aliena agli orizzonti troppo lontani. Anche Alois Flir sui occupò delle Immagini dai tempi della guerra tirolese in una serie di racconti dominati dalla personalità di Hofer e intesi alla fedele ricostruzione dell’ambiente popolare nel mondo delle Alpi. In definitiva l’autore non propone niente di nuovo, ma sia il comandante degli insorti, sia il suo popolo appaiono molto verosimili e questo è quanto si richiede spesso a un artista. In occasione del primo centenario dell’insurrezione apparve il lavoro di Alois Menghin, Andreas Hofer e l’anno 1809. Il protagonista viene presentato con imparzialità insieme ad altri personaggi appartenenti ora all’uno ora all’altro dei campi avversi. Sembra un’anticipazione dei dubbi che più tardi Bertolt Brecht solleverà nelle Domande di un lavoratore che legge, ma in realtà Menghin insiste sullo spirito di lealtà nei confronti delle gerarchie imperiali austriache, benché quelle, nel groviglio diplomatico-militare, apparissero agli occhi dei montanari poco affidabili o per lo meno poco comprensibili. Karl Schönherr scrisse ben tre drammi sui moti del 1809. La componente naturalistica della sua arte gli consentì di indagare profondamente, servendosi di un facile dialetto, nel destino del popolo cui anche lo scrittore apparteneva. L’inserimento in un suo dramma di motivazioni catalizzate da una estemporanea sacra rappresentazione costituisce un elemento di originalità, ma soprattutto una valida occasione per la più fedele ricostruzione della società alpina agli inizi del secolo scorso. Grande rilievo viene dato ai luoghi ed agli equilibri della comunità contadina, nella quale, come indica l’autore, possono maturare contraddizioni come la delazione che rese possibile l’arresto dell’eroe, che pure di quella realtà era espressione. Anche le opere di Hugo Greinz e di Hans Kramer presentano la morte spettacolare di Hofer come una protesta contro la mutilazione dei diritti dei popoli, di tutti i popoli. Erwin Rainalter si occupa della tragedia hoferiana in modo insolito: non propone la realtà agli uomini, ma pone gli uomini di fronte alla realtà. Scorgiamo così un Hofer diffidente nei confronti di quanti a Innsbruck giubilano per la vittoria: soltanto i suoi volontari gli danno affidamento e d’altronde questi si possono fidare ciecamente di lui. I suoi montanari hanno certamente fatto il loro dovere, ma chissà se l’imperatore farà altrettanto! In attesa di un chiarimento storico su questo argomento, non sembri esagerato un accostamento ideale di quella guerra di pochi contro i molti con il Passo delle Termopili. Prima della seconda guerra mondiale apparve il libro di Friedrich von Minkus, Tirolo 1809. Ne è protagonista l’intero popolo tirolese, di cui Hofer è la personalizzazione. Il montanaro conosce esclusivamente le leggi immutabili della natura e non comprende perché mai dovrebbe vergognarsi di schierarsi dalla loro parte. La difesa della propria terra è un imperativo categorico che di queste leggi fa parte, ma non si indossano uniformi in questa impresa, non si obbedisce a gerarchie estranee alla propria valle o alla propria parlata, altrimenti non avrebbe senso lottare contro i pericoli provenienti da oltre confine. Frank Kranewitter ritiene nel suo libro su Andreas Hofer che l’eroe non avesse il senso della misura. Tentare un’impresa bellica di enormi dimensioni con pochi uomini male armati non sembra una decisione ragionevole. Inoltre ciò che poteva essere un dovere in primavera diventava un errore in autunno. La perseveranza in questo errore diventa testardaggine e genera un complesso di colpa, un cupio dissolvi che finirà tragicamente. L’opera di Kranewitter, sorta in pieno verismo, è un contributo per una considerazione di Hofer sotto il profilo umano, lungi da strumentalizzazioni che ne possono stravolgere l’autentica identità. Bisognerebbe continuare nella elencazione dei libri che furono scritti su Andreas Hofer. Bisognerebbe citare i lavori di Theodor Körner, Anton Bossi-Fedrigotti, Karl Wolf, August Lewald, Karl Paulin e molti altri, ma anche da questa incompleta rassegna si può trarre una prima conclusione. Nella letteratura tedesca il capopopolo Hofer non è il personaggio in evoluzione, caro al Bildungsroman in quanto cresce con la propria esperienza, ma la personificazione dell’attaccamento alla propria terra e della lealtà fino all’autolesionismo. A ciò è doveroso aggiungere che, come esponente politico-militare pro tempore del proprio Land, Hofer non conobbe mai l’esitazione che, altrove, spinse a discutibile capitolazione altri responsabili di Stati prestigiosi, come il doge Manin e il Gran Maestro de Hompesch, che siglarono rispettivamente la caduta della Serenissima e di Malta. Come uomo l’eroe fu senz’altro condizionato dalla sua scarsa preparazione di popolano, per cui non ebbe quella chiarezza di idee che come capo di una rivoluzione di controrivoluzionari gli aveva fruttato mezzo anno di ininterrotte vittorie. L’ultima, più debole, fase dell’esistenza di Hofer fu riscattata dal suo coerente comportamento. Non si dimentichi che egli poteva rifugiarsi nei Grigioni. Non si trascuri che ad Ala il 2 febbraio 1810 il comandante prigioniero avrebbe potuto fuggire in occasione di un provvidenziale incidente, e invece preferì prodigarsi nei soccorsi ai suoi carcerieri. Se un simile fatto fosse accaduto altrove, sarebbe stato citato come esempio di umana virtù. Al di là delle contraddizioni, la letteratura presenta Andreas Hofer come un uomo degno dell’appellativo di eroe, poiché in ogni frangente seppe sollevarsi al di sopra dell’ambizione e dell’opportunismo. Eroe, soprattutto, perché mai progettò l’usurpazione, ma unicamente la difesa di valori ambientali e umani inalienabili. Principali momenti della vita di Andreas Hofer 22.11.1767 – Nasce nel comune di St. Leonhard in Passeier/ San Leonardo in Passiria. 22.7.1790- Partecipa, come delegato della Val Passiria, alle sedute della dieta tirolese a Innsbruck. 1796 – Partecipa, col grado di caporale, ai combattimenti austro-francesi al Passo del Tonale. Comanda, col grado di capitano, una compagnia di 129 volontari nei fatti d’arme presso Merano, San Genesio, Bolzano. 1805 – Appoggia con la sua compagnia l’esercito austriaco a Trento. 26.12.1805 – Pace di Pressburgo: dopo oltre quattro secoli il Tirolo viene annesso alla Baviera, stato satellite della politica napoleonica. 16.1.1809 – Convocazione a Vienna da parte dell’arciduca Giovanni d’Asburgo per la preparazione della resistenza armata. 10.4.1809 – Quattrocento volontari comandati da Hofer sconfiggono la guarnigione bavarese di Vipiteno, comandata dal maggiore Speicher. 13.4.1809 – Conquista di Innsbruck. 15.4.1809 – Parziale smobilitazione dei volontari e ritorno a San Leonhard di Passiria. 23.4.1809 – Partecipa alla conquista di Trento, occupata dai Francesi del generale Baraguay d’Hilliers. 15.5.1809 – Distruzione di Schwaz a opera dei Franco-Bavaresi. 19.5.1809 – Hofer ritorna a Vipiteno mentre l’esercito regolare austriaco è in ritirata. Mobilitazione dei volontari. 25.5.1809 – Vittoria di Hofer a Innsbruck e fuga dei Bavaresi. 6.7.1809 – Sconfitta austriaca a Wagram ed occupazione del Tirolo da parte delle truppe del generale Lefebvre. 4.8.1809 – I volontari attaccano con successo un’avanguardia nemica presso Bressanone.13.8.1809- Nuova vittoria di Hofer presso il Bergisel contro truppe numericamente superiori. 17.8.1809 – Andreas Hofer assume la reggenza del Tirolo. Inizia il governo dei contadini. 14.10.1809 – Pace di Schönbrunn. Alla volta del Tirolo marciano 56.000 uomini comandati da Eugenio di Beauharnais. 2910.1809 – Hofer viene ufficialmente informato della pace e decide di deporre le armi. 11.11.1809 – Influenzato da esponenti della resistenza tirolese, Hofer ordina la ripresa delle ostilità. 16.11.1809 – Lusinghiera vittoria dei volontari tirolesi sulle truppe del generale Rusca presso Merano. 22.11.1809 – Spettacolare resa dei Francesi in Val Passiria. 24.11.1809 – Fine della resistenza armata tirolese per l’arrivo di forti contingenti francesi. 26.11.1809 – Hofer si rifugia in alta montagna e lancia accorato appelli all’’arciduca Giovanni d’Asburgo. 28.1.1810 – Andreas Hofer viene arrestato su indicazioni del delatore Franz Raffl. 5.2.1810 – Hofer è prigioniero a Mantova. 19.2.1810 – Processo per ribellione. 20.2.1810 – Hofer muore fucilato comandando egli stesso il fuoco. (Etnie, scienza politica e cultura dei popoli minoritari, Milano, anno VI, n. 9) .

RICORDATI DI ME CHE SON LA SPIA

Presso la sede romana del Servizio Informazioni delle FF.AA. esiste un piccolo Sacrario, dove si trova anche la fotografia di Camillo De Carlo, medaglia d’oro vittoriese della Grande Guerra. L´ informazione proviene da una lettera inviata all’interessato dal Generale De Lorenzo in data 11 settembre 1957. Lo scritto comunica anche una specie di battimano con i guanti, cioe´ la concessione della medaglia d´ oro del SIFAR „come ricordo a coloro che ne hanno fatto parte e che a maggior ragione ritengo doveroso offrire a chi piu´ di ogni altro ha meritato“. Da quanto risulta dalle memorie scritte, Camillo De Carlo fu capo del SIM in Spagna dal maggio 1941 al marzo 1942, dopo essere appartenuto al MIS fin dal dicembre 1939. Il ritorno a Roma avvenne il 18 agosto 1943 e gli fu subito consegnata la convocazione di Pietro Badoglio, divenuto capo del Governo dopo il 25 luglio del 1943 appunto. A De Carlo fu comunicato che „conveniva“ trattare con l´ Inghilterra e con l´ America, ma egli avanzò non poche „obbiezioni“, come si legge testualmente, le quali sarebbero state comunque superate sia dalla sua destinazione temporanea alle dipendenze della Presidenza del Consiglio in via di liquefazione, sia dalle insistenze del Generale Carboni, conosciuto poco tempo prima. L´attivita´ informativa o persuasiva, chiamiamola così, continuo´ certamente in favore di entrambi gli schieramenti, anche se limitata dalle circostanze. Forse sarebbe pero´ improprio chiamarla spionaggio nel senso del termine. Quali potevano essere le “obbiezioni” di De Carlo? Mentre la Principessa Mafalda di Savoia, reduce dal funerale di Re Boris di Bulgaria, fu una sorpresa trovare Villa Savoia deserta il 9 settembre 1943, non doveva essere difficile presumere, per un uomo navigato come lui, che il Re e il Generale Badoglio si sarebbero „allontanati“ da Roma con la Fiat 2800 in direzione di Ortona, e da qui in Puglia. Un telegramma in lingua inglese pieno di errori ortografici e sgrammaticature, fu inviato proprio dallo Stato Maggiore il 9 settembre 1943 alla stazione radio alleata di Algeri per informare che i fuggiaschi erano diretti a Taranto, dove avrebbero brigato per apparire cobelligeranti degli Alleati dichiarando guerra alla Germania. Questo dovette essere motivo di particolare imbarazzo per De Carlo. Vengono di seguito elencate le ragioni: 1- L´ armistizio militare firmato il 2 settembre a Cassibile fu in realta´ una richiesta per schierarsi dalla parte dei vincitori e implicava per l´ Italia, in situazione di resa incondizionata, la privazione di qualsiasi iniziativa in politica estera. Una dichiarazione di guerra sarebbe stata, dunque, priva di valore giuridico e con future ripercussioni sull´immagine storica del Paese. Bisogna saper distinguere tra gloria e vanagloria. 2- La dichiarazione di guerra in tali condizioni non poteva essere accettata, non rientrando tra i poteri del governo del Re. Si imponeva una scelta, magari cercando il male minore. Certo, dal di fronte derivavano non poche aspettative italiane di vantaggi a nord-est una volta che la guerra fosse cessata, come accennato in una notevole opera sulle concentrazioni di ex jugoslavi anche dopo la caduta del regime nel luglio ´43, ma pianificata in data 12 agosto 1942. Un ritorno di De Carlo a Vittorio Veneto era da escludersi a causa di sue precedenti contiguita´ col regime. Non si dimentichi, inoltre e per assurdo, che egli avrebbe potuto essere perseguitato dalle leggi razziali del 1938. In fin dei conti ci sono sempre state due Sicilie e un solo Veneto, avra´ pensato, ed egli scelse le truppe del Generale Montgomery diventando da Maggiore, qual era, Tenente Colonnello. Per il resto la storia non dice altro. E´ lo storico che parla per lei. (Il Piave, mensile, Conegliano Veneto, novembre 2005).

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LEPANTO, LA BATTAGLIA CHE CAMBIO’ LA STORIA

La leggenda narra che tre bellissime ninfe si erano mostrate gentili con gli Dei. Verso Archeloo esse sarebbero state, invece, scortesi insultandolo con parole villane. La divinita´ sdegnata le sommerse allora nel mare Jonio e furono così convertite nelle isole Curzolari. La storia tramanda che presso queste isole ebbe luogo una grande battaglia navale tra le flotte cristiana e turca. Una improvvisata designazione ottocentesca denominò tale scontro, che ebbe luogo precisamente nel golfo di Patrasso la domenica del 7 ottobre 1571, come la battaglia di Lepanto. L´alleanza contro i Turchi, nota come la Lega Santa (da confondersi con la Santa Lega, stipulata nel secolo successivo), era stata proclamata a Roma il 25 maggio 1571. A Venezia l´ annuncio fu dato il 2 luglio 1571. Per quanto riguarda la partecipazione veneziana fu nominato Capitano Generale Sebastiano Veniero. Suo vice e Provveditore Generale della armata era Agostino Barbarigo. Lo storico bellunese Giorgio Piloni informa che Agostino Barbarigo volle avere al suo fianco il Conte Silvio di Porcia e Brugnera, nato circa nel 1526 e noto anche quale capitano della guardia durante il Concilio di Trento. Il Senato incaricò il Podestà di Treviso di recapitare tramite corriere a cavallo la nomina ducale al Porcia. Durante la battaglia Agostino Barbarigo fu colpito da una freccia nell´occhio sinistro. Il  ferito, portato sotto coperta, non morì subito, ma ebbe una dolorosa agonia in stato di incoscienza. Gli successe Federico Nani, il quale volle sempre con se´ Silvio di Porcia. Entrambi concorsero non poco all´esito dello scontro, avendo catturato anche una galea ne= mica sulla quale c´ era nientemeno che l´Ammiraglio turco Caratali, il quale fu fatto prigioniero. La notizia della vittoria fu recata a Venezia il 17 ottobre da Onfrè Giustiniano. A Treviso, tuttavia, non si sapeva ancora nulla. Uno sconosciuto si vantava di conoscere il risultato. Il Podestà Giovanni Gritti lo convocò e il personaggio fece una specie di gioco di prestigio, dal quale risultò che tutto era andato bene a Lepanto. Seguirono quattro giorni di processioni, giubilo e ringraziamenti. La flotta vincitrice si diresse verso Messina, Napoli e Roma. Alcune galee veneziane si diressero invece verso Corfù trascinando le navi turche catturate, rimorchiate per la poppa e con gli stendardi in mare. Già che c’erano, attaccarono anche la fortezza di Margarithi, la quale capitolò in breve tempo. In una lettera di Sebastiano Veniero al Doge si legge che „il magnifico Conte Silvio di Porcia ha combattuto con Onore contro gli avversari, per grazia di Dio sconfitti“. Egli ha riportato anche due ferite di freccia rispettivamente nel fianco destro e nella coscia sinistra. Per la precisione la sua partecipazione all´impresa di Margarithi sarebbe stata una iniziativa volontaria e non un obbligo, per cui non gli sarebbe spettato alcun particolare riconoscimento. Una certa ostilità per le celebrazioni della battaglia di Lepanto si percepisce negli ultimi tempi (non era così nel 1911, quando l´ argomento poteva servire per finalità nazionalistiche italiane in Nord Africa). In data 31 luglio 2005 una lettera pubblicata su un settimanale diocesano esprimeva perplessità  per una programmata processione in onore della Madonna del Rosario poichè integrata dalla rievocazione della battaglia di Lepanto. La contiguità con altre commemorazioni (come per esempio la liberazione di Vienna del 1683) avrebbe potuto inoltre prestarsi ad altre considerazioni. E´ probabile che si tratti di pura coincidenza ma alcune iniziative locali sarebbero intese alla rivalutazione della vita e dell´opera dello storico bellunese Giorgio Piloni, che in seguito sposò Degnamerita di Porcia e Brugnera. Altre assonanze combaciano ancora meglio. La consorte del Piloni era infatti ni= pote di Silvio di Lepanto ed è difficile evitare degli accostamenti. Comprendiamo. (Il Piave, mensile. Conegliano Veneto, ottobre 2005).

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FEDELI D’ AMORE: GLI ESPONENTI, I NUMERI, LE DONNE.

La fedeltà d’ Amore deriva dal Sufismo e dalla Mistica Iraniana nota come “‘Oshshaq”.- Gli aderenti costituivano una religione segreta per iniziati basata sul principio che la donna fosse un essere dell’ altro mondo e che quest’ ultimo fosse un mondo migliore. Tuttavia, poiché la donna non era sufficientemente valutata e amata, era necessario che il numero dei suoi ammiratori aumentasse il più possibile. Durante le Crociate il messaggio dei Fedeli d’ Amore si estese alle dimensioni occidentali presenti in Terra Santa. I Templari e l’ Ordine Teutonico dovettero essere i principali ricettori. I Trovatori si sarebbero poi incaricati della divulgazione in Europa. L’ epoca in cui questa osmosi si radicò corrisponde ai secoli XIII e CIV.- Ne erano stati protagonisti tre papi e un principe: Nicolò III, Bonifacio VIII, Clemente V e Rodolfo d’ Asburgo. Il primo era stato Inquisitore Generale per l’ Italia e l’ ultimo aveva confermato giuridicamente lo Stato della Chiesa. Nello stesso periodo si sviluppò il risveglio artistico, letterario, culturale in Occidente. Per quanto riguarda l’ Italia i nomi di Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Guido Guinizzelli dovrebbero si gnificare qualcosa. Di più contano Dante, Petrarca, Boccaccio, Dino Compagni e Brunetto Latini. Se poi si aggiungono Francesco da Barberino, Gioacchino da Fiore, Cielo d’ Alcamo, Lapo Gianni, Raffaello…, la questione assume ulteriore spessore. I Fedeli d’ Amore erano una setta. La definizione non deve essere intesa secondo l’ uso corrente. Natalino Sapegno ha spiegato che si deve comprendere come una “Scuola filosofica”. Dante scrive nel Paradiso (III,105) che l’ Ordine dei Francescani era una setta. L’ Amore doveva dunque integrare quest’ ordine segreto per definizione. Ma non si trattava propriamente dell’ Amore riferito al consueto senso del vocabolo. La donna impersonava la Filosofia, la Sapienza, l’ Intelligenza attiva, l’ Anima d’ ingegno. Questi concetti erano propedeutici a un rinnovamento morale e spirituale, in seguito al quale sarebbe poi giunta la Riforma.Gioacchino da Fiore aveva denominato questo tempo la seconda era della storia del mondo. Le caratteristiche della “donna” dei Fedeli d’Amore erano antitetiche allo strapotere dei Vescovi di Roma. La circostanza era pertanto molto pericolosa. Perfino i Domenicani e i Francescani erano Inquisitori! La dantesca “Vita Nova” era stata data alle fiamme! Urgeva usare un linguaggio segreto, diretto a chi doveva capire, da decifrarsi mediante un’ apposita chiave di lettura. Nel Canto IX dell’ Inferno si legge: “O Voi che avete gli intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame degli versi strani”. I destinatari erano gli oppositori del potere temporale dei Papi, i Ghibellini in esilio o in sonno che auspicavano l’ intervento del Re Federico III d’ Aragona e dell’ Imperatore Ludovico il Bavaro. La “Vita Nova” doveva indicare il pensiero politico della Confraternita dei Fedeli d’ Amore. Le donne dei Fedeli d’ Amore erano figure retoriche. Nel capitolo 14 del secondo Trattato del “Convito” si legge: “La donna di cui io m’ innamorai…fu la bellissima e onestissima figlia del’ Imperatore dell’universo alla quale Pitagora pose nome Filosofia”. Nella canzone “Al cor gentil” è chiaro che l’ Intelligenza sia la donna di Guido Guinizzelli.- Guido Cavalcanti s’ innamorò di Manetta a Tolosa in quanto somigliante a una Giovanna di Firenze, pure allusiva per l’ omonimia com il Battista. Tolosa era allora una delle capitali dell’ opposizione ghibellina. Allusivi sono naturalmente anche gli altri nomi di donna: Laura (che significa la verità mistica), Costanza, Fiammetta, Lagia, Selvaggia e Beatrice soprattutto. Molti incontri avvenivano in chiesa. Anche questa occasione poteva essere simbolica e non si trattava certo delle analoghe circostanze della mia gioventù, quando la chiesa era un luogo complice di sguardi. La simbologia di Beatrice è confermata da parecchi motivi. Sarebbe stata la figlia di Folco Portinari andata sposa a Simone dei Bardi. Insoliti sono il colpo di fulmine a soli 9 anni, la mancanza di tentativi di avvicinare la fanciulla, il matrimonio del poeta con un’ altra donna, l’ assoluta mancanza di gelosia nei confronti del marito di lei, eventualità che si registra anche per la moglie di Dante, il quale dichiarò che il numero “9” si conveniva a Beatrice. Tutti i numeri sono interessanti, ma alcuni sono più interessanti di altri. – 9 sono i mesi tra la nascita di Dante e il concepimento di Beatrice, – 9 sono i cieli che si congiungono quale auspicio per la nascita di lei, – dopo 9 anni e 9 giorni i due si rivedono, – la malattia del poeta dura 9 giorni, – Beatrice muore il 9° giorno del 9° mese secondo il calendario iraniano, – il numero 9 era sempre presente nell’ antichità, – 9 erano i libri sibillini, – 9 erano le Muse, – 9 erano i giri dello Stige, – 9 sono i cerchi dell’ Inferno, 9 gli scaglioni del Purgatorio, il Paradiso sta sopra il 9° cielo, – 9 erano i misteri eleusini. Il 9° Comandamento proibisce di desiderare la g o n n a d’altri, o qualcosa di simile, ma non si deve badare troppo alle assonanze. Forse si è trattato solo di una raccomandazione fatta a Mosè dalla moglie gelosa. Vi sono anche altri tratti comuni tra le donne dei Fedeli d’ Amore. Beatrice muore prima di Dante e lo stesso dicasi per Laura e Fiammetta rispetto a Petrarca e Boccaccio. Non si trattava allora di donne vere e proprie. Infatti nessun Fedele d’ Amore sarebbe mai stato preso a cornate da mariti gelosi.- A proposito di corna! Quelle dei cervidi si rigenerano. Vivremmo certamente più a lungo studiando questo fenomeno di rigenerazione, ma vivremmo peggio se si ritenesse che la nostra testa ne sia provvista.- I Fedeli d’ Amore non avevano questa preoccupazione. Il pensiero dei Fedeli d’ Amore non si sarebbe estinto nel Medio Evo. Esso si sarebbe piuttosto trasferito in seguito all’ interruzione degli scambi esoterici tra Oriente ed Occidente. L’ accesso a taluni scritti, ovviamente rimasti a lungo decaffeinati in Occidente, ha prodotto qualche impulso altrettanto ovviamente censurato nella nostra scuola.- Friedrich Leopold von Hardenberg, noto come Novalis e autore degli “Inni alla notte”, scrive: “L’ amore fondato sulla fede è religione“.- Che strano! Anche nel ‘300 si usavano proprio le parole “fede” e “amore“!- Novalis è a suo agio nella linea spirituale dei Fedeli d’ Amore. Anche il suo linguaggio cifrato è in linea: “Due non lo sono più, ma Enrico e Matilde. Sono uno unito all’altra in una stessa immagine”. La medesima collocazione compete, oltre che al perseguitato Torquato Tasso, al pittore Raffaello Sanzio, il quale scrisse al Conte di Castiglione: “Siccome si vedono così poche belle forme femminili, io tengo nella mente una certa immagine che nasce dalla mia anima”. Detto da un genio come lui, con le modelle di cui disponeva, emerge un sospetto. Anche Raffaello usava un linguaggio cifrato? Egli non poteva essere un uomo senza qualità, per il quale la verdura in scatola avesse il vero senso della verdura fresca, per usare le parole di Robert Musil.- La verità è che certa bellezza si descrive meglio con un pennello anziché con una penna. Gli stessi Leonardo e Botticelli sarebbero stati contigui a Raffaello per questo orientamento. Anche Piero della Francesca potrebbe essere stato contiguo ai Fedeli d’ Amore. Ancora di più Taddeo Gaddi. La sua “Madonna” tiene in mano un libro, il quale rappresenterebbe la sapienza ancora non spiegata dei Templari. Anche i colri bianco e rosso delle vesti erano un segno di distinzione dei Fedeli d’ Amore. L’ Austria evidenzia ancora tali colori e questa potrebbe essere un derivazione dalla dottrina emanata dall’ Ordine Teutonico e pertanto sottovalutata. Questo non sarebbe comunque l’ unico segmento trasportato in Europa dall’ Ordine Teutonico. Nella mistica ghibellina c’è un nome ieratico riferito agli Hohenstaufen, che non poteva essere svelato agli Infedeli d’ Amore.- L’ opera dell’ Imperatore Federico II di Svevia sulla caccia con il falcone nasconde certamente una conoscenza occulta. Ma anche gli Hohenstaufen furono demonizzati e infine oscurati da certa storia. Qualcosa è andato perduto. (22 aprile 2006.- Conferenza presso l’ antico Oratorio della Cascina Linterno di Milano, gradita dimora di Francesco Petrarca durante il suo soggiorno milanese).

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IL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA .

L’Ordine Sovrano e Militare e Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta, ebbe la sua origine verso l’anno 1048. Le finalità erano rappresentate dall’ospitalità, cura e difesa dei pellegrini in Terra Santa. Numerose furono le battaglie combattute sul mare e per terra dall’Ordine. Le più significative furono quelle per il possesso di Rodi dal 1310 al 1523.- Dopo la perdita dell’isola l’Imperatore Carlo V° assegnò all’Ordine le isole di Malta, Gozo e Comino il 26 ottobre 1530. Il 18 giugno 1565 una potente flotta turca si dispose a conquistare Malta. Le forze erano impari e il 23 giugno l’isola fu invasa. Soltanto il forte di S. Elmo continuò la resistenza. Mancavano l’acqua, i viveri, le armi.- Una flotta spagnola giunse provvidenzialmente in soccorso. Seguì una sconfitta per i Turchi, che significò la fine del loro predominio sul mare. La battaglia di Lepanto avrebbe poi confermato tale successo il 7 ottobre 1571. Durante la battaglia di Malta si verificò una crudele circostanza. La guarnigione cristiana volle celebrare i propri caduti con un canto funebre. Il comandante avversario pensò di offrire loro delle reliquie. Egli fece dunque crocifiggere su delle assi i corpi dei cavalieri morti e dei prigionieri ancora in vita, gettandoli poi in mare.- Una leggera corrente trasportò quei corpi verso il luogo in cui i difensori resistevano ancora.- Questi ultimi posero allora per rappresaglia sulle bocche dei cannoni gli avversari catturati e la risposta fu terribile.- Anche la storia dell’Ordine suggerisce che i tempi non furono mai migliori e che non si è mai cauti abbastanza nella scelta dei propri contemporanei. La storia dell’Ordine non è tuttavia disseminata soltanto di battaglie.- Nel grande ospedale di La Valletta si praticava una medicina d’avanguardia per quei tempi. L’anatomia e la chirurgia rappresentavano gli studi più progrediti. Frequenti furono perfino gli interventi per calcoli renali e cataratta. Nell’attività ospedaliera dell’Ordine non sono mai mancate la sintonia con il resto del mondo e la imparzialità verso i sofferenti. Anche in questa attività accadde qualcosa di significativo.- Un Principe musulmano era stato ricoverato in un ospedale dell’Ordine. Le cure non avevano alcun effetto ed egli sembrava vicino alla morte. Il malato rifiutava il cibo.- Un giorno gli infermieri lo portarono in giardino con la speranza di stimolargli l’appetito. In giardino c’era un magnifico cavallo accudito da un paggio.- “Vorrei mangiare la carne di quel purosangue”, disse il malato. Poichè si trattava nientemeno che della cavalcatura del Gran Maestro dell’Ordine, giunto per ispezionare l’ospedale, gli infermieri gli proposero altra carne equina.- “No. O quella o niente!”, fu la decisa risposta.- Bisognò informare il Gran Maestro. Questi ripetè la regola fondatrice dell’ospitalità.: “Quando un ammalato si presenta, che sia portato in letto, e lì, come fosse Nostro Signore in persona, dategli quanto di meglio avete in casa”. Poi il Gran Maestro continuò: “Quando si tratta del proseguimento di una vita, non sono ammesse esitazioni”.- Queste parole confermarono che la vita è tutto ciò che succede quando si pensa al futuro. Il cavallo doveva essere dunque sacrificato!- Tale disponibilità fece recedere il principe dalla sua richiesta. Subito dopo egli cominciò a mangiare e morì. Nel 1798 Napoleone Buonaparte occupò l’isola di Malta, ritenendola un punto strategico nel Mediterraneo. I mezzi per una valida difesa non mancavano, ma si decise di non combattere. Mai come in questo caso il dubbio sembra avere affilato i suoi coltelli con la verità. Malta era geologicamente, ma soprattutto idealmente, un’isola. E’ dunque comprensibile che siano sorti problemi nei rapporti con delle penisole!- Si ritiene tuttavia che la mancata resistenza fosse motivata dalla regola dell’Ordine, la quale vieta di battersi contro alri cristiani. Il Sovrano Militare Ordine di Malta è dotato di un Codice e di una Costituzione, che ne sanciscono la secolare indipendenza, la sovranità internazionale e l’unità.- Il Gran Maestro regna su oltre 12.000 Cavalieri e riveste il titolo di Altezza Eminentissima. L’Imperatore d’Austria gli conferì la dignità di Principe del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica e il Pontefice quella cardinalizia. Le sedi dell’Ordine Sovrano godono del diritto di extraterritorialità. La corona e lo scettro costituiscono le insegne della sovranità. I componenti dell’Ordine Sovrano sono divisi in tre classi: 1) Cavalieri di giustizia e Cappellani conventuali, 2) Cavalieri di obbedienza e “donats” di giustizia, 3) Cavalieri e Dame d’onore e di devozione, – Cappellani conventuali ad honorem, – Cavalieri di grazia e di devozione, – Cappellani magistrali, – Donats di devozione. Sono parecchi gli esponenti della casata di Porcia e Brugnera che appartennero al Sovrano Militare Ordine di Malta. Negli Annali del Granpriorato di Lombardia e Venezia figurano quali Cavalieri e Commendatori, Francesco Saverio (15.09.1765 – 15.03.1832), Alfonso (2.02.1790), Antonio (11.03.1793 – 4.08.1860), Leopoldo (31.07.1801 – 3.02.1878), Ferdinando (10.11.1834 – marzo 1896), Alfonso Gabriele (21.09.1868 – 24.04.1932), Guecello Pirro (14.02.1911 – 26.09.1994). I bisnonni di Lucrezia di Porcia e Brugnera, nata il 18 maggio 2006, furono: Il Principe Guecello Pirro di Porcia e Brugnera, nominato Cavaliere d’onore e devozione dal Sovrano Ordine di Malta in data 20 novembre 1980, Il Conte Uguccione Scroffa, che fu Gran Priore del Sovrano Militare Ordine di Malta a Roma. Per il riconoscimento del titolo di Cavaliere è necessario esibire, oltre a importanti credenziali, anche i certificati di battesimo e di matrimonio religioso.

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R A G G I R O     I M P E R I A L E

Era il 1867. L’8 giugno Francesco Giuseppe ed Elisabetta, la mitica Sissi, furono incoronati a Budapest Re e Regina d’Ungheria. Sulla monarchia austro-ungarica pesavano tuttavia ancora la sconfitta di Koenigsgraetz e la perdita del Veneto, cioè di una parte dell’Impero che comportava 122 milioni di ducati di ricchezza annua. Le difficoltà economiche del governo di Vienna erano dunque una comprensibile realtà.
Il 19 settembre tre personaggi furono ricevuti dall’Imperatore, sebbene l’udienza ne prevedesse soltanto due. Si trattava del Padre Romualdo Roccatani, del Conte Don Josè Maroto dè Fresno y Landres e del Colonnello Don Antonio Jmenez de la Rosa: un italiano e due spagnoli.
La forzatura per la terza persona, cioè per il religioso, sarebbe stata effetto dell’interessamento dell’Arciduchessa Sofia, madre di Francesco Giuseppe, o del Provinciale dei Gesuiti che avrebbe assicurato che la condotta dell’interessato fosse conforme ai Comandamenti tranne, forse, ad eccezione del nono. Con un pò di fantasia si potrebbe ricostruire l’aspetto fisico dei tre “petenti”. L’ecclesiastico provvisto della regolamentare “circumferentia corporis”. Il Conte con baffi e pizzo alla D’Artagnan nei film di cappa e spada. Il Colonnello dignitoso, convinto che le orecchie non hanno le palpebre e probabile marito con qualche lacuna. Il motivo del colloquio era singolare. Padre Roccatani aveva un segreto che avrebbe svelato solo all’Imperatore. Egli era in grado di trasformare l’argento in oro puro! i tre erano alla ricerca di un principe che finanziasse l’impiego dell’invenzione. La somma sarebbe spettata per 4/6 allo scopritore e 1/6 a ciascuno dei due nobiluomini. Napoleone III fu scartato a priori: troppo scaltro. Il Barone Rotschild fu lasciato da parte: col suo telegrafo era in grado di trasformare la carta, non l’argento, in oro presso le Borse del continente. L’Imperatore Francesco Giuseppe appariva il più accessibile poiché il Colonnello de la Rosa aveva combattuto tre mesi per la difesa di Gaeta voluta dalla sorella di Sissi. La petizione dichiarava che non era richiesto nessun anticipo e che la priorità riservata a Francesco Giuseppe era fondata sulla difesa della Cristianità sempre attuata dagli Asburgo. L’imperatore considerò la comparsa dei tre soci come un segno della Provvidenza, una gratitudine divina per la protezione riservata alla Chiesa. La disponibilità dell’oro non avrebbe inoltre significato un risarcimento per le amputazioni territoriali del 1866? Come rifiutare un dono del cielo?
La petizione degli alchimisti prevedeva naturalmente anche l’eventuale rifiuto della scoperta. Si provvide pertanto a insinuare che, in tal caso, si sarebbe verificato un danno paragonabile a quello sofferto dal Bonaparte dopo la sua ricusazione delle navi a vapore che avrebbero potuto assicurargli la supremazia marittima.
Il 17 ottobre 1867 ebbe luogo il primo esperimento in un laboratorio del Politecnico. Due storte di vetro contenevano complessivamente 500 grammi d’argento. Il crogiolo di ferro ne racchiudeva la metà. Il 9 marzo 1868 fu notato che dall’amalgama si era staccato lo 0,48% di polvere nera poi riconosciuta come oro. La relazione di un esperto lasciava intendere che il procedimento avrebbe riguardato nel tempo il resto della miscel. Fu ordinata la ripetizione degli esperimenti presso la Zecca di Vienna. L’illusione era evidentemente ancora presente nella speranza di Francesco Giuseppe. Il risultato fu negativo. La situazione peggiorò quando Padre Roccatani avavnzò la richiesta di un anticipo pari a cinque milioni di fiorini. Gli esperimenti continuarono tuttavia e stavolta fu constatata la presenza dell 0,776% di oro! Non si trattava propriamente di un successo, ma della non avvertita caduta di un anello nel crogiolo, fu riferito con riverente disagio. Per non dare adito a rimostranze la Cancelleria imperiale liquidò al religioso 10.000 fiorini. La stessa somma fu riconosciuta complessivamente ai due complici
Francesco Giuseppe dovette ammettere di essere stato ingannato. La sua ingenuità era stata la conseguenza della nota predilezione asburgica per i progetti suggeriti da stranieri. Basti ricordare che ben tre dei suoi cinque Ministri degli esteri non provenivano dalla politica austriaca, ma erano più che altro ideologi esperti nel fornire le briglie per i cavalli di Troia. La truffa dell’oro era costata 20.000 fiorini. A Francesco Giuseppe era andata meglio che al fratello Massimiliano, la cui avventura messicana, sempre suggerita da stranieri, si era conclusa con la morte. Come si sa, poiché nessun potere sopporta la verità, gli Imperatori hanno il privilegio di congedare con sollecitudine le circostanze spiacevoli dalla rubrica delle loro udienze.
(Mensile “Il Piave”, Conegliano Veneto, settembre 2006)
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                                                                        IL   MITO   DEL   BUCINTORO.
La parola per definire la famosa e sfarzosa imbarcazione veneziana a remi è singolare e arcana. Il Bucintoro ospitava il Doge nel giorno della “Sensa“, il quale fungeva da ufficiale dello stato civile nella celebrazione del matrimonio di Venezia con l’Adriatico.

Il “burcio in oro” fece la sua comparsa nel 1252.La data potrebbe però essere spostata al 1311. Questa è tuttavia un’ipotesi debole perchè Francesco Sansovino nel 1273 citava già un “navilium Duecentorum Hominum”. Come la maggior parte delle simbologie, anche il Bucintoro potrebbe aver avuto la radice nel mito. Virgilio tramanda che Enea organizzò dei giochi funebri per celebrare la morte del padre Anchise. Una delle imbarcazioni che parteciparono alle onoranze si chiamava Centaurus e trasportava cento uomini. Venezia avrebbe voluto raddoppiare quello sfarzo, ed ecco un “Bicentaurus” con i 200 uomini citati dal Sansovino. Il nome potrebbe essere derivato anche dalle trombe e “buccine” che si suonavano festosamente a bordo dell’imbarcazione.- Il Bucintoro fu ricostruito più volte. A quello del 1526 ne successe un altro nel 1606, costato ben 70.000 ducati. Ma allora Venezia non dipendeva ancora dai trasferimenti da Roma!- L’ultimo varo fu voluto dal Doge Alvise Mocenigo nel 1729. Le dimensioni erano: 35 mt. di lunghezza, 7,5 mt. di larghezza e 8 mt. di altezza. L’equipaggio: 3 ammiragli, 40 marinai e 168 vogatori disposti 4 per ognuno dei 42 remi.- E’ quasi certo che si trattasse del Bucintoro dipinto dal Guardi. Altri artisti, come il Canaletto, vollero tramandarlo ai posteri con tutta la loro bravura. L’ultima uscita del Bucintoro avvenne nella “Sensa” del 1796. Poi i Francesi, dopo averne asportato i materiali di pregio, , gli cambiarono il nome in Prama Hydra, lo armarono con 4 cannoni e lo usarono come difesa galleggiante del Lido.

Nel 1824 fu provveduto alla definitiva demolizione presso l’Arsenale veneziano, essendo ormai ridotto a un rottame.- Si aggira ora per Venezia il desiderio di ricostruire il Bucintoro. tale e quale era. Sarebbe una bella immagine per Venezia e per la sua storia di Repubblica indipendente. Altrove lo avrebbero già fatto, se avesse fatto parte del patrimonio storico. E’ un’iniziativa lodevole, ma ardua e costosa. Bisognerebbe prima di tutto risalire ai disegni e progetti originali.

Poichè la demolizione ebbe luogo sotto il Governo austriaco, non è escluso che quella buona amministrazione abbia conservato una parte della documentazione residua e che questa sia a Vienna.- In tal caso qualcosa si potrebbe fare. Basta che i volonterosi si rivolgano al Comitato Imprenditori Veneti “Piave 2000”. La nota Associazione ha infatti conoscenze e possibilità in ambiente viennese. Più gravi saranno le difficoltà economiche. Escluso il contributo pubblico (non si tratta di restaurare reperti romani o supposti tali!), la sponsorizzazione privata dovrebbe essere imponente.

Per ultimo, qualora si realizzasse il progetto, bisognerebbe provvedere alla manutenzione e al rimessaggio. In altre parole, magari aggiungendo difficoltà di navigazione, il Bucintoro non si ha da fare.

La speme è finita, andate in pace.

(Il Piave, mensile, gennaio 2007).

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                                                                  I    B A R BA R I

,,,è già notte e i Barbari non vengono. E’ arrivato qualcuno dai confini a dire che di Barbari non ce n’è più.- Come faremo ora senza i Barbari? Dopotutto quella gente era una buona soluzione”.             (Costantino Kavafis, Aspettando i Barbari)

Senza contare i Germani, che integravano le Legioni dell’Impero Romano, già da tempo e ai quali venivano assegnati appezzamenti di terreno da coltivare dopo il congedo, furono almeno una dozzina le popolazioni giunte d’oltralpe nell’Agro Opitergino dal ‘400 d.C. fino al secolo X.- Incominciarono i Visigoti nel 401, seguiti da Vandali e Ostrogoti. Gli Unni di non grata memoria arrivarono nel 452. Gli Eruli spuntarono nel 476. Poi vennero i Bizantini. Durò un bel po’ il dominio dei Franchi. Lo stesso si può dire dei Longobardi che spuntarono nel 568. Poi comparvero gli Avari all’inizio del VII secolo e subito dopo gli Slavi del Ducato di Carantania. Nel X secolo fu la volta degli Ungari, pure di non grata memoria. Nella toponomastica questi passaggi, ma anche le relative permanenze o insediamenti, rimasero registrati. La topografia incontra infatti maggiori difficoltà a diventare politicamente scorretta. Le vie “Schiavonesche” e “Ongaresche” si riferiscono rispettivamente agli Slavi e agli Ungari. A Pordenone c’è un bivio: via Romans e via Sclavons.- Le numerose località chiamate “Pieve” furono ripopolamenti disposti dai Patriarchi-Principi di Aquileia. Gli altrettanti Comuni denominati “Fara”, o “Farra”, furono centri abitati costruiti dai coloni trasferiti dall’Imperatore del Sacro Romano Impero e non solo una prerogativa del solo Nord-Est. Si trattava quindi di popolazioni slave e germaniche fatte arrivare per colmare i vuoti demografici causati dalle pestilenze e dalle guerre. Ebbene, tutte queste etnie e i loro ordinamenti politici furono rispettosi della cultura sedimentata nei territori loro assegnati, la quale li aveva accolti. Le miriadi di lapidi ed iscrizioni conservate nei musei o rimaste indisturbate nelle sedi in cui furono poste, lo dimostrano. Eventuali danneggiamenti intervenuti nei secoli sono attribuibili agli agenti atmosferici, non ad animosità delle nuove politiche medievali. Non fu così nella seconda metà del secolo XIX. Le iscrizioni che costituivano altrettante pagine di storia per ciascuna comunità, furono sistematicamente scalpellate per renderne impossibile la lettura. Costituiscono un esempio le realtà di Venezia, Asolo, Feltre e così via. Molte lapidi furono invece infrante, affinché nessuno potesse chiedersi che cosa mai vi fosse scritto e quale evento riguardante la città esse ricordassero. Per forza! I civili responsabili non erano stavolta Barbari! Oderzo non fu risparmiata. La città non aveva registrato eventi straordinari nell’800, tranne che una volta. Era il dicembre del 1824. L’Arciduca Ranieri d’Asburgo, Viceré del Regno Lombardo-Veneto, volle visitare alcune località tra Treviso e Portogruaro. Egli era al corrente che le biblioteche dei Tomitano e degli Amaltei erano tra le più celebri e antiche della zona quanto a manoscritti, incunaboli e trattati di agricoltura. Il Principe decise dunque di fare tappa a Oderzo per visitarle. L’interesse e la soddisfazione del Viceré furono tali che Francesco Amalteo fece murare un’importante lapide nell’omonimo palazzo. Nel 1866 quella traccia di storia opitergina fu frantumata dal furore risorgimentale e dall’orientamento che intendeva privare la città di ogni impronta del passato, che pure era esistito. Non fu un’espressione di rispetto per la cultura locale. Sensibilità culturale, civile diligenza e interessamento per le dimensioni storiche opitergine vorrebbero che ora quella lapide venisse ripristinata.- Non è mancata una proposta in tal senso, supportata da opinioni favorevoli e auspici. Anche la stampa ne ha parlato.- Non è tuttavia pervenuta alcuna risposta dalle istituzioni competenti. Anche un riscontro negativo, per il quale sarebbe comunque difficile trovare una credibile motivazione, sarebbe andato bene perché le decisioni, qualsiasi esse siano, competono ai vertici preposti. Non sembri quindi esagerata l’aspettativa di una norma che stabilisca la decadenza dalla carica rivestita per gli amministratori eletti, in caso di mancata risposta alle istanze ricevute. Per la necessaria informativa a quanti desiderassero ugualmente conoscere la circostanza del caso di specie, viene riportato il testo della famosa lapide che, non si comprende per quale motivo, ha dato tanto fastidio: “Il 13 dicembre 1824 Ranieri Arciduca d’Austria, Viceré del Regno Lombardo-veneto, onorò della sua presenza con un’ora di umanissimo colloquio la Biblioteca degli Amaltei che è vanto della Provincia di Treviso. Francesco Amalteo affidò ai posteri un tale onore per la sua casa”. Ogni commento sarebbe superfluo ma, a proposito del titolo del presente scritto, sembra pertinente il giudizio di Marcel Proust:” La vera terra dei Barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli”. (Il Dialogo, mensile, Oderzo marzo 2007).

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LE MILLE MINORANZE.

“E io, in un paese straniero, avrò nome di schiava. In cambio dell’Asia che abbandono avrò la stanza nuziale della morte: l’Europa”. (Euripide, Ecuba).

La carta geografica d’Europa sembra un mosaico, nel quale molte tessere siano state spostate determinando chiazze variopinte circondate da colori dominanti: sono le identità popolari che per motivi etnici, religiosi, politici, linguistici ed altro sono conglobate in altri differenti. Si pensi, per esempio, alla composizione del Regno Unito, della penisola iberica, del Belgio, della Russia, della complessa situazione balcanica e, perché no?, dell’Italia. Si pensi quindi alle ex Repubbliche marinare e alle Città Anseatiche. In questo intreccio i contrasti sono inevitabili. Le contese possono sorgere tra legalità generale e mentalità delle singole minoranze. E’ sempre stato cos’. Per una visione non priva di spunti didattici basta ricorrere al Mito.- Nella semplice, immaginosa e libera da pregiudizi con cui si tentano di spiegare le cose, gli usi, i costumi, le visioni del mondo e le istituzioni dell’antichità, l’Antigone di Sofocle fa testo. Tutte le tragedie greche hanno un evidente risvolto civile e politico. Da un lato le Leggi garantiscono la convivenza dei cittadini. Dall’altro la sfera di diritti intimi e privati afferma la propria diversità dal potere e pretende una propria difesa. Ne consegue che, in certi frangenti, Le Leggi non si vogliano o non si possano rispettare senza andare contro i propri principi e il conflitto può risultare dunque una chiazza di colore decisiva per gli equilibri della polis diversamente effigiata. Sofocle scrisse l’Antigone nel 441 a.C.- La scena si svolge a Tebe. Creonte è il Re della città. I suoi nipoti sono Antigone, Ismene e Polinice. La prima è una donna attraente e orgogliosa. E’ la figlia di Laomedonte e sorella di Priamo. Giunse al punto di sostenere che la propria chioma fosse più bella di quella di Era. Com’era da aspettarsi, la divinità si sdegnò e la punì. I capelli di Antigone furono trasformati in viscide serpi che la tormentavano con i loro morsi. Alcuni dèi provarono tuttavia pietà. La malcapitata sorella di Priamo fu dunque trasformata in una cicogna, che uccise le bisce ad una ad una. Plinio il Vecchio e Plutarco hanno sostenuto che per l’uccisione di una cicogna si applicasse in Tessaglia la stessa pena prevista per gli omicidi. Il significato mitico del volatile risultò bene consolidato fin dall’antichità. Viene tuttavia automatico accostargli un altro animale allegorico: la volpe.- Ma la volpe e la cicogna si sopportano soltanto nella favolistica. Nella realtà sarebbe diverso, cioè come nel caso delle componenti maggioritarie e minoritarie nello stesso Stato. Un giorno Polinice partecipò ad un complotto contro Tebe e vi perse la vita. Creonte rifiutò che fosse celebrato il funerale del nipote infedele. Le due sorelle ebbero orientamenti diversi. La più giovane accettò l’ordine del re. L’altra si oppose e fece ugualmente seppellire la salma del fratello.- Antigone disse in quel frangente a Ismene: “Tu hai fatto la scelta di vivere morta tra questi vivi. Io preferisco morire da viva”. E poi rivolta a Creonte: “Non mi interessano le Leggi, perché sono nata per amare e non per governare”. Nella necessità di amare non può essere escluso l’amore per la propria piccola patria. L’individualità emerge nella tragedia con tutta la sua umanità e naturalità Si sviluppa un duello di idee tra le inviolabili Leggi divine e le utili Leggi civili. L’umanità si contrappone all’impersonalità rigida ed irrispettosa dei sentimenti.- Ebbene, nel caso delle Comunità incastonate in cornici statali estranee e spesso ostili, specialmente se queste ultime sono irritate per la privazione delle Colonie, può verificarsi l’antitesi che preferisce la sopravvivenza al futuro. I Governi temono tali squilibri e propongono obtorto collo una parvenza di provvisorio rispetto per le realtà che, a causa di magiche o nefaste combinazioni alchemiche storico-internazionali, si sono venute a trovare nell’ambito del loro potere. Sia gli uni che le altre convivono spesso con riserve mentali. I Governi sottoscrivono accordi con l’intenzione, o la speranza, di non mantenerli. Intanto essi facilitano una specie di sommersione etnica intesa alla dichiarazione finale che le realtà di cui trattasi sono nel frattempo estinte. Per ottenere tale scopo la politica induce la cecità su di sé nelle Comunità minoritarie, affinché queste non notino o non facciano notare la propria visione del mondo. Vengono quindi decaffeinati sia talenti creativi, sia gli interessi centripeti locali.. Subentrano poi il divieto di presenza nella Pubblica Amministrazione e soprattutto nella scuola mediante rimedi accuratamente paracadutati, e il declassamento della parlata autoctona. Il programma prevede insomma l’eclissi del presupposto che magister sia più di minister, per non apparire cittadini di serie B. le Comunità minoritarie sopportano la situazione di fatto con scarsa educazione coloniale nella speranza, o nella prospettiva, che un auspicato catalizzatore intervenga prima o poi a modificare la scena politico-territoriale. Nel frattempo continuano naturalmente gli sguardi in cagnesco. L’illusione delle maggioranze di avere sempre partita vinta può avere risvolti inaspettati. E’ nuovamente interessante conoscere lo svolgimento e la conclusione del Mito.- Antigone, cioè la componente minoritaria, viene punita e imprigionata. L’eroina sfugge al proprio destino suicidandosi. A questo punto la parte maggioritaria potrebbe cantare vittoria. Invece no. Il suicidio di Antigone ha delle devastanti conseguenze: sia Emone, figlio di Creonte e innamorato di Antigone, sia Euridice, moglie del re stesso, si suicidano.- Nella tragedia i morti riscattano i morti. Se dal Mito può essere tratto un insegnamento, non è detto che le componenti maggioritarie possano conseguire una vera vittoria sulla parte inizialmente soccombente. Il tempo, non la cronaca, avrà l’ultima parola. (Il Piave, Conegliano, mensile, marzo 2007).

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L A   D I O C E S I   D I   O P I T E R G I U M

Giulio Cesare avrebbe integrato il territorio di Oderzo con 300 centurie (corrispondenti agli attuali circondari di Conegliano e Vittorio Veneto) per gratitudine in seguito all’appoggio di Volteio alle sue lotte contro Pompeo. Il racconto dello storico Lucano non cita però nessuna ricompensa territoriale e anche l’episodio di Volteio sarebbe storicamente dubbio. L’Agro Opitergino fu comunque molto esteso e costituì la competenza territoriale della Diocesi di Ceneda, ora Vittorio Veneto, cui appartengono pertanto anche Trichiana, Mel e Lentiai. La Diocesi di Opitergium ebbe un’esistenza travagliata. Alcune turbolenze ne consigliarono il temporaneo spostamento ad Eraclea già nel V secolo. Dalla seconda metà del VI secolo e per un centinaio d’anni, con i vescovi Marciano (549 – 593), Floriano (+ 620), Tiziano (+ 632), Magno (+ 632) e Bennato (?) ci fu una relativa tranquillità. I guai peggiori cominciarono nel 665. d.C. Oderzo era controllata dai Bizantini fin dall’anno 616. L’Esarca di Ravenna Gregorio aveva invitato per un convegno conviviale i figli di Gisulfo, Duca longobardo del Friuli. I loro nomi erano Tasone e Caco. Il pretesto era quello di tagliare loro la barba. Intendiamoci: la cerimonia corrispondeva allora a una promessa di adozione in seguito alla morte del padre e non un esercizio di barbieria. I due giovani giunsero a Oderzo, ma l’accoglienza prospettata non ci fu. Essi furono anzi uccisi. Il fatto sarebbe avvenuto nell’anno 625. Sembra lecito sospettare un complotto ordito da Bizantini e Longobardi per eliminare gli eredi al trono ducale del Friuli. Il Re Adoloaldo, figlio dei regnanti longobardi Agilulfo e Teodolinda, più tardi anch’egli morto assassinato, sarebbe stato infatti presente a Oderzo in quel tempo. A pensar male si commette peccato ma s’indovina, è stato autorevolmente sostenuto.- In ogni caso non sia mai che un Esarca non mantenga una promessa!- Gregorio tagliò veramente la barba ai due disgraziati giovani defunti. Secondo una male intesa opinione che tollera ogni delitto ma sanziona le reazioni, non doveva succedere nulla. Invece no. I Longobardi si erano seccati per quell’imboscata e usarono la mano pesante con Oderzo. E’ il caso di ricordare che la popolazione fu certamente estranea ai fatti ma, come sempre, ne subì le conseguenze. Nel 665, dopo la distruzione della città voluta da Grimoaldo, la Diocesi di Oderzo ebbe come centro Ceneda, allora sede del Ducato Longobardo. Il Papa Vitaliano si adeguò. Egli era infatti preoccupato in quel tempo per il possibile trasferimento in Italia della capitale bizantina sostenuto dall’Imperatore Costante, ma avversato dai Longobardi. Il Pontefice si sentiva dunque come uno che si trova tra un cane e un tronco d’albero. A quel periodo risale d’altronde anche la divisione del regno Longobardo in “Austria” (l’attuale Nord-Est) e “Neustria” (il Nord-Ovest).- Per il fatto compiuto la Diocesi di Oderzo diventò in definitiva di Ceneda e così si chiamò per ben dodici secoli. Si pensi quanti spunti storici avrebbe avuto Oderzo per le proprie iniziative estive, anziché limitarsi alla recente autopsia psicologica di vestirsi da improbabili antichi romani! Nell’autunno del 1866 il Veneto venne annesso all’Italia. Alcuni volonterosi nazionalisti – noiosi zii bisognosi di aggiornamento – si accorsero della scarsa italianità del toponimo “Ceneda”, il Quale richiamava piuttosto la non peninsulare tribù gallica dei Cenomani. Non sia mai! Dall’unificazione di ceneda con Serravalle conseguì Vittorio Veneto. Con l’Impero asburgico ciò non sarebbe avvenuto. Si ricordi che anche la precedente proposta fusione di Ceneda con Treviso non fu consentita per motivi storico-culturali. Parliamoci chiaro: tale innovazione toponomastica fu il risultato della subalternità per il nuovo Re Vittorio Emanuele II. A questo punto sia concessa una malignità derivante da scarsa educazione coloniale. Se si volevano veramente rispettare la storia e le “quote rosa”, qualche località limitrofa avrebbe dovuto chiamarsi “Virginia”. Questo era infatti il nome della bellissima Contessa di Castiglione, vera protagonista dell’annessione del Veneto al neonato Regno d’Italia. Siffatta noncuranza smentisce invece il proverbio: “El tìra de pì un cavèl de fèmena che un pèr de bò”. Come poteva andare a finire con la Diocesi di Ceneda?- Semplice. Si sarebbe chiamata Diocesi di Vittorio Veneto dal 13 maggio 1939. Il Pontefice Pio XII si adeguò. Il “quartese” non avrebbe comunque subito variazioni. E la gente? Che conta mai la gente nei regimi monarchici o in quelli repubblicani? Se qualcuno vuole proprio uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. In caso contrario si dovrà perfino credere che sarà ridotto il numero delle auto ministeriali. Si è parlato sopra di subalternità. Non si tratta di una condizione del passato. Tutt’altro.- Lo dimostra la biografia del famoso Vescovo Eugenio Beccegato presente in Internet. Il cognome del prelato figura italianizzato in “Beccegatto”. Nulla rileva l’assonanza con i felini. Egli era figlio di Giovanni Beccegato ma, essendo nato a Fossalta nel 1862, era suddito austriaco. Un restauro onomastico post mortem si imponeva perbacco. Per abituale subalternità appunto. Comprendiamo. (IL PIAVE, Conegliano Veneto, Giugno 2007).

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NEL NOME DEL PADRE, DEL FISCO E DELLO SPIRITO SANTO.

“Rendete a Cesare le cose di Cesare, ma a Dio le cose di Dio” (Marco, 12 – 17) .Il Vangelo è chiaro. Da tale evidenza deriva che l’uomo non debba allo stato e alla divinità più di quanto loro spetti. Ma quanto è veramente dovuto ai due ricevitori? Nel 1944 fu pubblicato sull’argomento un libro di Martin Crowe. L’autore, sebbene fosse un teologo, espresse la sua visione in modo imparziale. Quando la pressione fiscale esercitata dallo Stato supera il 33% del prodotto interno lordo, diventa arduo per i credenti destinare a Dio il dovuto. Destinare significa rivestire di destino. L’aliquota crowiana è sostenuta da numerose motivazioni socioeconomiche. Meno giustificata appare la disinvoltura con cui lo Stato riduce, con gabelle palesi e occulte, la residua disponibilità di risorse in favore della divinità determinando in tal modo un effetto “piano inclinato”. Non si tratta soltanto di obblighi economici. Spesso l’insaziabilità della tassazione statale induce nel contribuente preoccupazioni, che lo distraggono dagli orientamenti di ordine religioso. Il cittadino diventa in tal modo l’unica vittima. Le religioni riescono infatti ad ottenere prima o poi dal potere politico qualche altra compensazione., poiché le fedi di un certo peso sono grandi potenze, mentre le altre sono piccoli stati-satellite. Rimane solo il cittadino ad indossare il pesante saio fiscale. Se la sola I.V.A. è già al 20%, con le altre imposte e maggiorazioni si arriva chissà dove. La soglia fisiologica del 33% rimane un paradosso. Spesso oltre al danno ci sono anche le beffe, cioè le mille ipocrisie per spendere male i denari incassati dallo Stato con le imposte. Se, per esempio, viene istituita una folta e costosa commissione per studiare la proposta di dare una dentiera a ciascun anziano che ne abbia bisogno, l’eventualità potrebbe anche sembrare accettabile. Ma se dopo un certo numero di anni non si è concluso nulla, il Governo proponente è nel frattempo cambiato e i programmi non prevedono più la dentiera, allora i costi per la commissione non sarebbero più giustificati. Se, naturalmente sempre per esempio, si spendesse denaro pubblico per l’equilibrio idrico di un lago, la motivazione sembrerebbe valida. Ma se poi, per caso e dopo lungo tempo, si scopre che non c’era alcun lago cui provvedere (Corriere dell Sera del 29 aprile 2007), il contribuente potrebbe anche esprimere un invito con complemento di moto a luogo o sperare in un improbabile intervento della patrona dei sudditi: Santa Pazienza! I più sinceri potrebbero auspicare inoltre una tanto incostituzionale quanto salutare punizione corporale per i responsabili (anche l’inferno è incostituzionale: non prevede la rieducazione del reo!). Il finanziamento degli eccessi fiscali in favore di Cesare, e conseguentemente a danno di Dio, non è tuttavia uniforme. Sembra piuttosto affidato a una mappa scritta nelle stelle. Come è noto, la costellazione del Grande Carro è composta da sette stelle, che gli antichi paragonarono ad altrettanti buoi al lavoro e che i Latini denominarono “Septem triones”, cioè “Settentrione”. Poiché si parla di lavoro, il denaro poverebbe dall’antipodo del luogo in cui sorgeva l’antica Sibari, i cui abitanti ai tempi della Magna Grecia non solo non produssero mai nulla, ma, come la storia tramanda, si infastidivano perfino a sentir parlare di lavoro. Se la sottrazione di cose da rendersi a Dio è contraria all’insegnamento evangelico, i credenti dovrebbero per coerenza almeno rivedere il proprio orientamento nei confronti del potere che ha operato tale squilibrio..- Nell’Atene di Socrate “Parrhesia” significava il diritto-dovere di esprimere la propria opinione. Questo valore diventa abbastanza raro in pubblico, ma nella cabina elettorale funziona ancora. Il Piave, Conegliano Veneto, agosto 2007) ………………………………………………………………….

NAZIONALITA’   TRA  POLITICA  E  IDEOLOGIA.

Un esame del DNA fornirebbe informazioni che l’interessato non si sognerebbe nemmeno. Diventerebbero note caratteristiche insospettate. Precedenti convinzioni o supposizioni troverebbero autorevoli smentite. Ciò che certamente non comparirebbe sarebbe la nazionalità. Si tratta forse di un carattere accessorio di nessuna rilevanza per un’indagine che si ritiene tra le più progredite e affidabili? Può essere una variante sfuggevole al momento della prova e quindi per nulla determinante o significante nelle dimensioni umane? La nazionalità è forse suscitata da circostanze socio-storiche, vale a dire da un senso di appartenenza artificialmente indotto, corrispondente ad uno stato d’animo provvisorio allargatosi per osmosi, oppure imposto a un determinato tessuto popolare con tendenza alla suggestionabilità e alla subalternità? Guardandosi un po’ intorno si potrebbe argomentare parecchio sulla infondatezza e ingiustificabilità di certe asserite nazionalità, tanto ostentate quanto inconsistenti. Si nota anche il fenomeno opposto. In regioni che avrebbero motivo di professare la loro vera nazionalità per ragioni storico-culturali, l’orgoglio nazionale risulta alquanto sopito per lasciare spazio alla componente locale. Quei cittadini sono quindi consci della vacuità nazionale, ma lieti che altrove la presunzione altrui arrechi loro dei vantaggi. In tutto è sorretto da un’equivoca e indefinita idea di patria confezionata per le intelligenze più suggestionabili. Suvvia, non facciamo i finti tonti! Nel Libro sta scritto che Dio creò l’uomo dalla terra (Genesi, 2-7). Esatto. Ma solo da quella terra dove l’uomo nacque e non da un’altra, non è vero? Il quadro mondiale offre numerosi esempi di infondatezza circa le basi della nazionalità. Nei territori già egemonizzati dall’Impero Britannico non pochi popoli, naturalmente agli antipodi della cultura europea, giuravano in tutta coscienza sul loro sentimento nazionale inglese. Contemporaneamente, spesso per motivi religiosi e di mentalità universalistica, si constatano neutralità e svincoli nella appartenenza al principio di nazionalità. In Africa orientale subentrò nelle popolazioni di colore la convinzione di appartenere alle nazioni francese e italiana dopo la conquista coloniale. Lo stesso si può dire per regioni occupate dall’Olanda, dal Belgio, dal Portogallo, che erano completamente estranee all’ambiente europeo, ma dominati da Paesi più o meno assistiti da Dio nelle loro vittoriose imprese, come è stato ripetutamente dichiarato. I dubbi sono legittimi in ogni senso. Non esiste soltanto il colonialismo politico. C’è anche il colonialismo ideologico e i suoi condizionamenti nel caso di specie non sono diversi. Gli aderenti a partiti, sostenuti e controllati da taluni regimi, si sentono visceralmente parte di quelle realtà statali nonostante le evidenti differenze e distanze. Nel XX secolo ciò accadde ripetute volte. I cittadini divisi da programmi politico-militari assunsero con relativa facilità la nazionalità dei due artificiali tronconi statali venutisi a formare. Cessata poi l’influenza del programma divisorio, il territorio si riunificò e le popolazioni riassunsero la nazionalità in precedenza dimessa per aderire alle imposte influenze. Un esempio è fornito dalla recente storia tedesca. Dopo la seconda guerra mondiale la Germania venne divisa in Repubblica Federale e in Repubblica Democratica. Furono scritte innumerevoli pagine per motivare l’esistenza delle due contrapposte nazionalità. Cambiata la scena politica,, tutto è tornato come prima. L’unica evidenza rimasta è quella dell’elasticità del concetto di nazionalità. Sembra quindi razionale che l’esame del DNA non evidenzi alcuna nazionalità. (Il Piave, Conegliano Veneto, settembre 2007) ,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,

L’ O B L I O   D I   U N’ E P O C A.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso terminò la cosiddetta guerra fredda. Quasi tutte le strutture tenute precedentemente in vita di qua del Muro di Berlino in funzione di supporto psicologico nella contrapposizione tra i due blocchi, furono gradualmente smantellate. Toccò per prima alla letteratura tedesca, che fino allora era stata tenuta nella massima considerazione. Nessuno si è accorto che le opere di Karl Marx, per tutto il XX secolo proposte, studiate, prese a quasi unico modello di cultura e soprattutto vendute, sono assenti dalle librerie?- Nessuno ha fatto caso che i drammi di Bertholt Brecht, per mezzo secolo celebratissimi e onnipresenti nei teatri, non vengono più rappresentati?- La lista potrebbe continuare senza che si adottino contromisure e nella totale assenza di coscienza. È arrivato un contrordine. La cultura tedesca deve essere decaffeinata. La letteratura soprattutto!- Si sa che per letteratura non s’intende l’arte dello scrivere, bensì un modo di essere. Altrettanto chiaro è che fare letteratura è ben diverso da produrre spilli per infilzare le mosche, come sostenne Louis Ferdinand Céline. Le altre culture finora indenni non si facciano illusioni: l’unico effetto della loro indifferenza sarà quello di essere eliminate più tardi. Uno degli autori rimossi dalla pulizia letteraria per fare spazio ad altre correnti di pensiero, è Joseph Roth. Si, proprio il poeta della Cripta dei Cappuccini, della Leggenda del Santo Bevitore e della Marcia di Radetzky, che ebbero anche importanti riscontri cinematografici. Era noto che Roth , lo scrittore del mito asburgico convinto che fosse preferibile sentirsi suddito di una realtà in cui l’Imperatore si credeva lo Stato, piuttosto che cittadino di uno Stato che si crede il Re, era spesso ubriaco.- Otto d’Asburgo, figlio dell’ultimo Imperatore della Casa d’Austria ora dichiarato Beato, lo convocò per raccomandargli di smettere di bere. Quel vizio avrebbe potuto spegnere la sua arte e privare l’umanità di un grande ingegno letterario. La villa nella quale risiede dal 1954 Otto d’Asburgo era stata fatta costruire a Pöcking da un cantante d’opera australiano nel 1870. Per questo motivo l’edificio si chiamò in un primo tempo Villa Australia. Ora il nome è dimezzato e si chiama “Villa Austria”. L’incontro del monarca senza corona e senza Impero con il grande scrittore non avvenne tuttavia a Villa Austria, bensì a Parigi Il medico curante di Roth aveva fatto sapere a Otto d’Asburgo che soltanto un suo ordine avrebbe potuto salvare l’alcolizzato dall’ormai avanzata devastazione dell’etilismo.- Joseph Roth si presentò alla udienza. Il colloquio fu cordiale, ma perentorio. Lo scrittore fu fedele a se stesso e rispose:”Si, Maestà”. L’organismo del poeta non resse alla crisi da astinenza e sopraggiunse la morte.- “Era troppo tardi”, esclamò l’erede dell’Impero asburgico. Quasi sempre è troppo tardi nella vita, poiché il tempo trascorso dai viventi sulla terra è certamente poca cosa nei confronti dell’eternità. (Il Piave, ottobre 2007). 

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IL GAZZETTINO Domenica 6 gennaio 2008 Cultura e spettacoli pag. 14:

DA CAPORETTO ALL’ARMISTIZIO: COME GLI AUSTRIACI CI AIUTARONO A VINCERE LA GUERRA.

Da Caporetto all’Armistizio, novant’anni dopo. Fra le iniziative in programma quest’anno, è in arrivo il volume dello storico e germanista trevigiano Nerio De Carlo, “Dialettica dell’Armistizio 1918” (edizioni Comitato Imprenditori Veneti Piave 2000), dedicato ad uno dei momenti della storia del nostro Paese in cui esso fu più vicino al baratro e a compromettere il proprio futuro. Nell’autunno del 1917 non aleggiava infatti solo lo spettro della sconfitta militare, ma anche quello di una rivoluzione in tutto simile a quella russa, genesi del regime comunista durato 70 anni. Paradossalmente chi salvò l’Italia fu il suo nemico, ovvero l’Imperatore Carlo I d’Asburgo, che prima bloccò l’arrivo dei rivoluzionari e poi, inaspettatamente e segretamente, ordinò di sospendere i combattimenti sul fronte del Grappa. Mentre i tedeschi sostennero con decisione la Rivoluzione d’Ottobre in Russia. “Lo Stato Maggiore tedesco – spiega lo studioso trevigiano – aveva escogitato un piano geniale: rimpatriare nei Paesi avversari numerosi sobillatori e rivoluzionari in esilio, che avrebbero agito da scintilla per estese rivolte alle spalle degli eserciti combattenti. Ne sarebbe conseguita la caduta dei fronti sia per mancanza di rifornimenti, sia per le idee rivoluzionarie che avrebbero determinato diserzioni e ammutinamenti. Il primo convoglio giunse in Russia nell’autunno del 1917, il 7 novembre scoppiò la rivoluzione (detta d’ottobre a causa del diverso calendario), e come previsto, il fronte russo cedette subito e appena due mesi dopo ci fu l’armistizio di Brest-Litovsk”. E per quanto riguarda la situazione italiana? “I treni in partenza da Zurigo con il loro carico di agitatori, erano due. Il primo, come detto, raggiunse la Russia, il secondo invece era diretto in Italia. Le conseguenze possono essere facilmente immaginabili, considerato che c’erano già state violente agitazioni specialmente in Romagna, Marche e Piemonte , con 60 morti e 200 feriti. Ma per raggiungere l’Italia il treno doveva attraversare il territorio controllato dalle truppe austro-ungariche, poiché dalla Francia e dalla neutrale Svizzera logicamente non si passava. L’Imperatore Carlo I però impedì il transito, e così la rivoluzione non ebbe luogo. A differenza di quanto accaduto in Russia, il fronte del Piave tenne seppur a fatica, e nonostante gli errori dei comandanti, come si evince dall’ultimo libro di Lorenzo del Boca”. Perché lo fece? Visti gli eventi in Russia e la disfatta di Caporetto, quel treno avrebbe dato il colpo di grazia all’Italia… C’era Papa Benedetto XV che aveva un grande ascendente sull’Imperatore, e la Santa Sede aveva l’impellente necessità di raggiungere un Concordato con il Regno d’Italia. Era chiaro che una rivoluzione nella penisola avrebbe comportato sia la fine della monarchia, sia la costituzione di una repubblica marxista. In tale prospettiva risultava naturalmente impensabile qualsiasi Concordato La rivoluzione avrebbe danneggiato la Chiesa, da sempre sostenuta dagli Asburgo. Così si spiega l’orientamento di Carlo I”. Veniamo a dicembre 1917. I combattimenti sul fronte del Grappa e del Tomba vedono, come ha detto Lei, una sostanziale tenuta degli alleati agli attacchi degli austro-ungarici. Poi ad un certo punto questi vengono sospesi. “A dire il vero gli austro-ungarici non solo attaccavano, ma avevano successo. Il 22 novembre 1917 avevano infatti conquistato il Monte Tomba e c’erano grandi combattimenti sul Grappa. Poi l’Imperatore Carlo ordinò la sospensione dell’offensiva, come informa Martin Gilbert nella sua “Storia della Grande Guerra”. Si parlò di epidemie, che nella zona di Asiago avrebbero causato la perdita di 7000 combattenti e momentanee difficoltà per altre avanzate. In realtà per un esercito di quella portata, che aveva conquistato ben 12.000 chilometri quadrati di territorio, non sarebbe stato un problema rimpiazzare le lacune provocate. L’orientamento dell’Imperatore sarebbe piuttosto da interpretare quale rinuncia a conquiste territoriali. Egli aveva in pratica deciso di disarmare la guerra”. Così per la seconda volta il “nemico” Carlo aiuta di fatto l’Italia… “L’Imperatore voleva far finire quanto prima la guerra. Ad ogni costo. Egli non aveva voluto, ma solo ereditato quella guerra. Purtroppo non si parla mai dei suoi tentativi di far finire il conflitto. Eppure basta leggere gli atti del processo di beatificazione – perché Carlo I è stato proclamato Beato – per capire come egli la pensasse sulle ostilità e sulle loro conseguenze”. (Davide Nordio).

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 MILANO AI TEMPI DEL PETRARCA .

La storia della Chiesa informa che tra il 217 d.C. e il 1449 ci furono ben 41 casi, in cui l’autorità pontificia fu esercitata contemporaneamente da più persone. Durante il soggiorno milanese di Francesco Petrarca (1353 – 1368) ciò non si verificò. Ci furono invece a Milano due Arcivescovi nello stesso periodo: Guglielmo II Posterla e Giovanni Visconti. Il primo discendeva da una casata d’origine longobarda ostile ai Visconti. Ne parla Cesare Cantù nel romanzo “Margherita Pusterla”. Il secondo era il signore di Milano L’Arcivescovo Guglielmo esercitava l’autorità religiosa. L’Arcivescovo Giovanni il potere politico. Quest’ultimo voleva ampliare i territori milanesi, integrandoli con Bologna. La città apparteneva però al Regno della Chiesa. Sorsero contese con la S. Sede e si giunse alla scomunica. Furono necessari 100.000 fiorini, pagabili a rate, per annullare l’interdetto. Giovanni Visconti celebrò una sola Messa. Essendogli caduta l’ostia consacrata, egli la sostituì con un’altra, sostenendo che l’una valesse l’altra. Nel 1363 il Petrarca scrisse che Milano era una “torbida città”. L’espressione si trova nei “Seniles”, Ep. Libro III, n. 1.- Il sudiciume era certamente attribuibile al fatto che circolassero in città migliaia di equini per i trasporti di ogni genere, con tutte le conseguenze del caso. In realtà il poeta si riferiva al turbamento indotto dalle milizie mercenarie. Fu necessario l’intervento del Papa Urbano V per ottenerne il ritiro nel 1466. Chi non lasciava la città, veniva scomunicato. La vita economica milanese era mossa da tre monete: il grosso d’argento, il fiorino d’oro e il sesimo d’argento.- L’attività produttiva era rappresentata principalmente dagli “Armorari”, o armaioli, e dagli “Orefici”. Le loro produzioni erano ambite e procuravano “valuta pregiata”. Non mancavano le turbolenze a Milano. Gian Galeazzo Visconti aveva, per esempio, catturato lo zio Bernabò, rinchiudendolo nel Castello di Trezzo d’Adda. Anche a Milano non si era mai cauti abbastanza nella scelta dei propri contemporanei. Per il popolo le cose erano più sbrigative. I sospettati di eresia finivano sul rogo. Per quanta poca esperienza ognuno di noi abbia in fatto di roghi pubblici, si riuscirà a comprendere che si trattava di spettacoli orribili che sarebbe antistorico dimenticare. Quelle vampate volevano essere un anticipo delle ben più ustionanti fiamme, che i condannati avrebbero sperimentato all’Inferno fino al 28 luglio 1999, quando papa Giovanni Paolo II dichiarò che l’Inferno esiste, ma senza fiamme eterne, come si è appreso dal TG delle ore 20. Per la precisione il supplizio dei popolani aveva luogo vicino a Piazza Vetra. I nobili e i borghesi venivano bruciati invece in Piazza Mercanti, ma non è noto quanta consolazione questa differenza abbia recato. Esistevano a Milano quelli che ora si chiamerebbero interventi di “valorizzazione urbanistica”. Nel 1349 l’Arcivescovo Giovanni fece erigere la Certosa di Garegnano Marcido, consacrata nel 1367. Il Petrarca vi soggiornò presumibilmente nei mesi invernali. Durante l’estate egli si sarebbe trasferito alla Cascina Linterno, che allora costituiva una località di campagna. Qui il pota avrebbe composto l’opera “De remedis utriasquae fortunae”. Il toponimo “Marcido” derivava dalle circostanti marcite che appartenevano alla Certosa. Il monastero fu definito dal Petrarca “opera nova sed nobilis”, cioè “nobile per quanto nuova”. La nuova istituzione corrispose allora ad una qualificazione della zona, non meno di quanto significherebbe oggi in un quartiere l’apertura di un nuovo centro commerciale. A titolo di esempio si può citare anche l’intenzione innovativa, rappresentata dalla collocazione sul campanile sopra la chiesa di S. Gottardo al Palazzo reale, di un orologio in grado di battere le ore. L’opera fu realizzata da Azzone Visconti poco prima che Petrarca arrivasse a Milano. La toponomastica ne fa ancora oggi menzione. Le cascine erano centri di produzione e di socialità. Per certi versi la loro quiete e laboriosità richiamavano quelle del virgiliano “Titiro” nella prima Ecloga:”Deus nobis haec otia fecit, nacque erit ille mihi sempre deus”, cioè “Un dio mi ha concesso questa quiete, per questo egli sarà sempre una divinità per me”. Tale gratitudine deriva forse dalla sensibilità di Menandro, che afferma:”Deus est homini iuvare hominum”, vale a dire “il divino significa per l’uomo soccorrere l’uomo”.  Sia infine concessa una proiezione dovuta alla mia scarsa educazione coloniale. L’interesse per la Cascina Linterno emerse parecchi anni fa, quando Milano aveva maggiori disponibilità economiche. Anche il decaffeinamento del Petrarca da parte di Francesco De Sanctis per non essere stato utile al Risorgimento, non sembrava aver avuto effetti. Si propose allora il recupero della costruzione tanto rilevante per la città,seppur tra qualche resistenza. È stato però subito constatato che talune dimensioni burocratiche erano prive di interesse per la storia e la cultura milanesi. Absit iniuria verbis, ma qualche categoria sarebbe sembrata piuttosto più incline a salire sul cavallo, o sul cammello, del vincitore. Per estrazione ed istruzione, qualche ambiente sarebbe stato forse più sensibile, se si fosse trattato di un recupero che richiamasse la romanità, non il Medio Evo. L’iniziativa di recupero sarebbe allora risultata almeno più facile. Sarebbe bastato partire astutamente dal presupposto che le migrazioni dei popoli, solitamente note come “invasioni barbariche”, hanno costruito ex novo molto poco. Si avrebbe piuttosto preferito riassettare l’esistente, adattandolo alle nuove esigenze. Un accenno del genere sarebbe stato fatto dal Vicesindaco di Milano qualche mese fa. Bastava dunque definire Cascina Linterno quale vestigia inizialmente romana e non medievale! Ne sarebbe conseguita una più favorevole atmosfera e non l’attuale attesa che qualcosa crolli, per decretarne la demolizione per ordine pubblico. Termino con una citazione da Marcel Proust: “La vera terra dei Barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli, né conservarli”. (Petrarca a Milano, La vita, I luoghi, Le opere.- – Fondazione “Carlo Perini” – Associazione “Amici Cascina Linterno” – Cooperativa “G. Donati” – Certosa di Garegnano, con il patrocinio di: Provincia di Milano, Comune di Milano Settore Cultura, Fondazione Cariplo. – Dicembre 2007).

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B  A  R  A  B  B  A

Un destino, un enigma, un equivoco Se la Chiesa recuperasse la figura di Barabba, recupererebbe gran parte di noi. E’ infatti consuetudine trovarsi nel dubbio, nell’equivoco, nel malinteso. Spesso una parte di noi si ribella a certa attualità mentre un’altra parte, quella razionale, prende atto sia dei nostri limiti, sia di quelli imposto dalle circostanze. Anche a ciascuno di noi tocca infine di trovarsi tra un cane e un tronco d’albero, per così dire. Barabba compare soltanto nei Vangeli. Matteo (27,16) informa che “a quel tempo era in prigione un certo Barabba, un carcerato famoso”.- Giovanni (18,19) dice che “questo Barabba era un bandito”. Il nome “Barabba” dovette essere molto diffuso e significava “Figlio del Padre” e, per estensione “Figlio di Dio”. Anche Gesù Cristo usò questo appellativo.- Certi patronimici possono tuttavia generare assurdità. Si pensi, per esempio, a qualcuno che si chiami Strada. Sarebbe poco gentile denominare sua moglie “Donna di Strada”. Si consideri, sempre per esempio, un giovane di famiglia agiata per il quale il lavoro non sia una priorità. Ai tempi in cui la parlata milanese non era ancora decaffeinata, lo si sarebbe indicato come un “Barabba”, un figlio di papà appunto.- Si pensi infine ai nomi di politici attuali. C’è un longevo e arguto senatore Andreotti e c’era un ministro Andreatta. C’erano un presidente americano Reagan e un ministro Regan. Fra duemila anni qualche problema onomastico potrebbe presentarsi quando si parla del nostro tempo. Allora non sarà necessario contraddire: basterà approfondire. Nel nostro caso è probabile che entrambi gli arrestati si chiamassero Gesù Barabba, come antichi manoscritti siriaci alludono. Gesù significa “Egli viene a salvarvi”, come aveva profetizzato Isaia (35,4). Non vi sono 4 Marie, 2 Giuda, 2 Simone…nei Vangeli? I nomi aramaici sono pochi e ripetitivi. Lo stesso vale per la connotazione criminale del prigioniero famoso. Per quanto poco ognuno di voi sia esperto di processi politici, sa bene che gli oppositori di molti regimi furono considerati “briganti”. Il termine fu derivati da “Bregenz” (Brigantium in latino), città sul lago di Costanza restia a sottomettersi a Roma e pertanto distrutta in nome della libertà e del diritto.- Si vuole che Barabba avesse partecipato a una rivolta durante la quale, in concorso con altri, sarebbe stato ucciso un uomo, un soldato romano forse. L’episodio è accennato da Luca (23,19). Il testo greco di Giovanni descrive il prigioniero “lϊstϊs”, che non significa assassino, ma ladro. Di certo egli non si distingueva per buona educazione coloniale. Barabba diventa un simbolo quando viene preferito al Cristo. Giovanni (18, 39-40) fa dire a Ponzio Pilato:”Voi però avete l’abitudine che a Pasqua si metta in libertà un condannato. Volete che io vi liberi il Re dei Giudei? Ma quelli si misero di nuovo a gridare: No, non lui, vogliamo Barabba!”- La trattativa si era svolta in greco e i presenti sarebbero stati meno di 300, calcolando sia gli spazi disponibili, sia i presenti con la misura di scarpe 45.- Pochissimi comprendevano il greco. La consuetudine accennata da Pilato non era romana, ma giudea. Appare insolito che un Prefetto come Pilato, noto per la violenta colonizzazione della regione, onorasse una ricorrenza non capitolina.- Marco informa però che era stata esercitata pressione per la liberazione di Barabba (15,11) e che la scelta fosse stata già decisa “per non scontentare la folla” (15,15). Non sarebbe stata l’unica volta che il potere subisce il peso delle masse, ma un Prefetto romano difficilmente si sarebbe piegato al volere della gente nelle province. Si noti che la parziale amnistia pasquale non ricorre nel Vangelo di Luca. Barabba è libero, ma scompare dalla narrazione. Durante la sua vita residua egli si sarà certamente chiesto perché mai Pilato si sia risolto in favore di un ribelle piuttosto che per un mite profeta.- Si può pensare che il Prefetto avesse intuito che l’insegnamento di Cristo fosse più rivoluzionario della lotta armata?- Proprio così. Le legioni romane avrebbero certamente vinto contro le sommosse locali. La predicazione evangelica si sarebbe dimostrata invece un pericolo per il potere imperiale. Pilato dovrebbe essere studiato più profondamente. Egli fu Prefetto della Giudea dal 26 al 36 della nostra era e dovette essere stato uomo di scarse virtù e di nessuno scrupolo secondo la tradizione e Flavio Giuseppe. Se non esagerata, la menzione del suo nome nel Credo è almeno immeritata.- Le date darebbero adito ad alcune congetture. Se Gesù Cristo fosse nato 9 anni prima di quella cruna senz’ago creata dal monaco Dionigi il Piccolo nel 523 per fissare la data del Natale nell’anno 753 dopo la fondazione di Roma, il Messia avrebbe avuto “circa trent’anni” verso l’anno 22 prima della cosiddetta era cristiana. Come è noto, quella convenzione non ha fondamento. I dati del famoso censimento universale erano stati infatti resi noti nel 745 e non nel 753 (spiegando che la popolazione dell’Impero risultava di 4.233.000 individui). Come se ciò non bastasse, era stato inoltre omesso l’anno “zero”, svista che fu poi corretta nel secolo XIII.- Se la vita pubblica di Gesù durò tre anni, come citato nei Vangeli, si giungerebbe al 25 e non al 26. Pilato non era stato ancora nominato! Il primo compito del Prefetto era l’imposizione dell’autorità imperiale romana. Circolava una voce che ci fosse un Re dei Giudei e che questi fosse anche figlio di Dio. In entrambi i casi erano necessarie rispettivamente l’approvazione imperiale e la pronuncia del Senato. A quest’ultimo competevano le attribuzioni della divinità. In caso contrario ricorrevano gli estremi di gravi reati. Il fatto non deve stupire. Ancora nell’anno 325, ai tempi del Concilio di Nicea voluto da Costantino, era necessaria l’iniziativa imperiale per il riconoscimento della divinità dello stesso Cristo. La relativa dichiarazione fu ottenuta 218 voti favorevoli e 2 contrari! Pilato si informa:”Sei tu il Re dei Giudei? (Giovanni, 18,33)”. La risposta, già passibile della pena di morte secondo la Lex Giuliana, è integrata dalla precisazione che, in ogni caso, il regno non fa parte di questo mondo (Giovanni, 18,36). Meno male. La preoccupazione del Prefetto si attenua, ma è normale accusare un certo scompiglio. Urge “lavarsi le mani” sia in senso metaforico che in senso reale, se si ipotizza che l’alto funzionario avesse una malattia cutanea. È infatti noto che i Romani, quando non si recavano alle terme, non si lavavano ma si limitavano ad ungersi il corpo con olio. In questi giorni primaverili fervono i preparativi per le sacre rappresentazioni pasquali in una delle poche località, ove questa tradizione sopravvive ancora. Tra gli attori c’è anche colui che regge senza parlare il catino affinché Pilato si lavi le mani. Un ruolo marginale all’apparenza, ma non è detto che sia proprio così. L’altro giorno il personaggio mi disse: “Sono parecchi anni che recito sempre questa parte e, si creda, non è una cosa facile”. In questo contesto di omonimie, di scontri con le autorità romana, sinedriale ed erodiana, di agguati alle forze di occupazione e di incipiente apostolato cristiano, c’è spazio per una ulteriore ipotesi. I Vangeli non presentano praticamente alla folla i due Gesù Barabba, tra i quali deve cadere la scelta della liberazione dal carcere e la condanna alla croce.- E se si fosse trattao di un unico personaggio fisico? In altre parole Pilato avrebbe cercato di sapere se il “Messia armato” fosse più gradito alla gente che il “Messia non violento”?- Da una risposta poteva giungere una interessante indicazione per il futuro comportamento politico del Prefetto per meglio sapersi regolare. La carriera di Pilato non dovette comunque essere stata particolarmente brillante. Sei anni dopo la cessazione del suo mandato in Galilea il personaggio avrebbe seguito le legioni di Druso prima in Gallia e poi in Germania, dove sarebbe morto suicida. La chiesa etiope lo avrebbe dichiarato Santo per il suo desiderio di conoscere la verità, sorvolando sul fatto che la verità è solo probabile e mai sicura. Ben poco è certo e il resto è solamente più o meno improbabile. Una serie di congetture numerologiche ruota intorno al significato del termine “Barabba” אבא בד “bar = figlio” ”abbà = padre” ב ד א ב א 1 2 1 200 2 = 206 Le lettere che compongono il nome in aramaico sono: BET = 2 RESH = 200 ALEF = 1 206 = il numero delle ossa dello scheletro umano. Il nome “Barabba” ha anche un significato astrologico. L’inizio del ciclo processioanle del segno dell’Ariete coincide con l’Avvento del Figlio di Dio, del “Bar abba”, dell’agnello di Dio.- I Re Magi lo sapevano e portarono doni invece che pretendere compensi e risarcimenti come è costume di altre dinastie. In greco, lingua usata per redigere i Vangeli, Ariete significa κριος . KRIOS 20 100 10 70 6. In greco, come in aramaico, le lettere dell’alfabeto hanno valori numerici e nel nostro caso la somma fa sempre 206. La verità nell’etimo greco significa “la cosa che non può stare nascosta”. Inoltre essa ha, per definizione, le gambe lunghe e la lingua pure. Con tutta modestia si è cercato in questo incontro di dare un contributo per la ricerca della verità, che non è un medicinale da assumere per via esclusiva. (Conferenza dell’11 marzo 2008.- Milano, Foro Bonaparte n. 26).

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90° ANNIVERSARIO DELLA FINE DELLA GRANDE GUERRA .

Il Comune di Vittorio Veneto ha recentemente pubblicato in lingua italiana il libro di Camillo De Carlo “The fling spy” (La spia volante). L’edizione intende onorare la memoria dell’autore, che tanto ha dato alla città. Nella pur esauriente presentazione del personaggio, c’è tuttavia una imprecisione certamente involontaria. La croce al merito di II° grado dell’Ordine dell’Aquila Tedesca è indicata con l’integrazione “con fronde di quercia”. L’attribuzione esatta è invece “con spade”. La suddetta decorazione fu assegnata a 148 combattenti italiani distintisi in combattimento in sostituzione della “croce di ferro”, che non risultava disponibile. Un’informativa ministeriale germanica (prot. B.2678 IX 310) tratta in copia il 27 giugno 1941, chiarisce la questione. La particolarità delle “fronde di quercia” era riservata esclusivamente alla croce di ferro e non anche all’Ordine dell’Aquila Tedesca, come conferma il relativo regolamento. La precisazione  “Mit Schwertern” si traduce quindi “con spade”.- Lo scostamento è stato segnalato a chi di dovere. Quanto sopra per la precisione dei fatti. ……………………………………………………………………………………………………..

IL  CONTRIBUTO  DELLA  CASATA  PORCIA  AGLI  ALTI  RANGHI  DELLA  CHIESA.

La meteora del Cardinale Pileo II da Prata si era spenta maggio del 1400. Il prelato era noto come “il Cardinale dei tre cappelli”, poiché era riuscito a giurare rocambolescamente fedeltà ai Papi Urbano VI, Clemente VII e Benedetto XIII (da non confondersi con l’Antipapa quattrocentesco). Ciò dimostra che la nobiltà dello spirito, rispetto a quella tradizionale, ha il vantaggio che uno se la può attribuire da solo, come sostenne Robert Musil.- I residui componenti della casata Da Prata sarebbero presto andati in esilio. La famiglia non si sarebbe tuttavia estinta, ma continuerebbe in Ungheria con il nome di Pallfy. La famiglia Porcia-Brugnera si accingeva intanto a scalare la gerarchia ecclesiastica. L’ambizione non sembri eccessiva. Le origini della “Gens Porcia” risalirebbero nientemeno che al 260 a.C., secondo una prezzolata e inattendibile genealogia redatta nel 1716 da Adam Matteo de Sukovitz. In realtà è più probabile una collocazione nel 223 d.C., quando si cominciarono ad edificare i castelli di Porcia, Prata e Brugnera. Il secondogenito di Fulvio di Porcia, Leandro, era nato nel 1673. Egli era diventato monaco benedettino, ma l’abbazia di Montecassino dovette sembrargli troppo stretta. Divenne in seguito consultore del S. Ufficio, esaminatore dei Vescovi, teologo di Benedetto XIII e del predecessore Innocenzo XIII. Nel 1714 gli venne concessa l’investitura dell’abbazia di Rosazzo e dal 1728 al 1730 fu anche Vescovo di Bergamo. Nel 1740 si tenne a Roma il Conclave nel quale il 17 agosto fu eletto Papa Benedetto XIV. Il Cardinale Leandro vi partecipò, ma non poté vederne la conclusione. Egli infatti morì il 20 giugno, appena 40 giorni prima della fine del Conclave dal quale sarebbe potuto uscire Pontefice e Re. La suddetta possibilità non è una congettura o una semplice supposizione. Anche se così fosse, la circostanza sarebbe fondata. L’opinione è infatti una matematica alternativa, ma pur sempre matematica. Nel libro “Viaggio in Italia” di Charles de Brosses (ed. Parenti) si legge infatti a pagina 523 che durante il Conclave era apparso un libello denigratorio anonimo “pieno di ingiurie” contro Leandro. Un invidioso modo come un altro per rovinare la reputazione degli avversari, di cui non sarebbero stati immuni nemmeno gli ambienti frequentati dallo Spirito Santo. I tempi non furono mai migliori, se si pensa a Giobbe. Anche il clima non dovette essere gran che, se si pensa a Noè.- Da sempre l’umanità si è chiesta a che serva la malignità, se non la si pubblica.- Dopo tre giorni il Cardinale, che non aveva più sogni da perdere, morì di crepacuore pur nella convinzione di non essere nel torto!- Si può aggiungere, come scrisse Ezra Pound, che se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o queste non valgono nulla, oppure non vale niente lui stesso. A pagina 511 dell’opera citata si legge:”I Cardinali benedettini, cioè quelli nominati da Benedetto XIII, sono molto numerosi: possono essere considerati come neutrali. Non hanno un capo: fra di loro vi sono buoni elementi, per esempio Porzia”.- A pagina 522 sta scritto:”Finalmente entra in ballo Porzia, ed è su questo nome, credo, che la partita si ingaggia sul serio. Porzia è l’elemento adatto: la sua età è nella quale si diventa papi: fa parte degli indifferenti, perché è di quelli nominati da Benedetto XIII. Ha nobiltà, valore, grande reputazione di capacità. È severo ed ha tutte le caratteristiche necessarie per ristabilire il buon ordine in uno Stato che ne ha tanto bisogno; saprà regnare e sarà, in piccolo, un Sisto V; perciò il popolino lo paventa assai, ma si confida che, nonostante i desideri della plebe, , l’intrigo tessuto in suo favore giungerà ad effetto. In verità egli non è né romano, né suddito dello Stato della Chiesa, ma dei veneziani. È stato monaco dell’Ordine di San Benedetto; siccome dei monaci non si fa gran conto, ciò potrebbe recargli pregiudizio, ma non tanto quanto se provenisse da un ordine mendicante o se fosse stato gesuita. Fra questi ultimi non vedrete mai uscire un papa, per il timore che poi essi non si precipitino a riempire il Sacro Collegio di gente della loro razza. Per esempio ho sentito sempre parlar bene di Tolomei, ma non l’ho mai udito nominare tra gli elementi papabili…- Mi fanno sapere che Porzia è sostenuto dagli zekanti (sic) e dalla fazione Corsini, ed accanitamente osteggiato da Annibale Albani, che lo teme in modo particolare”. (Il Piave, mensile, Conegliano Veneto, settembre 2008).

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 L O   ZECCHINO   DI   PORCIA 

Il denaro è una forza, ma vale meno dell’intelligenza” – Qoèlet (Ecclesiaste, 7,12) –

Annibale Alfonso Emanuele fu il V° Principe di Porcia e Brugnera. Era nato nel 1679 e in gioventù si era distinto per l’ impegno negli studi. Nel 1704 diventò ambasciatore di Vienna presso Pietro il Grande a Mosca. L’anno seguente acquistò per 40.000 fiorini il Generalato di Karlstadt (Karlovac), la cui fortezza era stata eretta dal Granduca Carlo utilizzando 9000 teschi di Turchi caduti in battaglia. Si può pensare che il trasferimento in una zona tanto remota fosse stato un espediente per liberarsi da tre difficoltà: la Contessa Juliana Konstantia Lodron (cui aveva promesso il matrimonio senza onorare l’impegno); la Contessa Dorothee Daun (che aveva invece sposato per aderire al desiderio dell’Imperatore Giuseppe); i debiti che ammontavano a 130.000 fiorini.- Presto il Principe riconobbe però di non essere adatto a comandare una guarnigione di confine come quella di Karlstadt, cioè a vivere nella luce dell’ombra. Gli subentrò nel 1709 il Conte di Gorizia Giuseppe Rabatta, il quale gli pagò un prezzo uguale a quello di acquisto. Annibale Alfonso fu un buon governatore della Carinzia, nonostante la sua labile personalità, sempre oscillante tra gli eccessi di ogni genere e la fedeltà al suo Imperatore. A lui si deve, unitamente al Principe Eugenio di Savoia, una politica marittima in funzione mitteleuropea nell’Adriatico, che era stato a lungo esclusivo monopolio di Venezia. Le miniere e le manifatture carinziane, dove la terra gradualmente s’inslavia, conobbero un notevole sviluppo. I ragguardevoli introiti non riuscirono, tuttavia, a ridurre i debiti. Questi erano dovuti alle enormi spese di rappresentanza, ai viaggi a Bruxelles, Vienna e Monaco e al mantenimento della propria corte. La concessione della Signoria e la Dignità principesca costavano rispettivamente 30.000 e 15.000 fiorini. Il Principe pensava evidentemente che non si potesse rimanere un mondo chiuso in un altro mondo.- La lunga controversia con la Contessa Juliana Lodron, giunta perfino all’esame della Congregazione del Santo Ufficio, aveva inoltre comportato un esborso di 60.000 fiorini, tanto è vero che il Conte e successivo Principe Johann Joseph Khevenhüller-Metsch traformò nel suo diario il nome della donna da Lodron in “Ladron”. A ciò si aggiunga che il Palazzo Porcia di Vienna era stato nel frattempo svuotato di ogni arredo e il suo ripristino esigeva non meno di 10.000 fiorini. Altrimenti ne sarebbe derivato un grave danno d’immagine.- Un’ispezione governativa accertò, infine, un ammanco di 328.272 fiorini e 51 centesimi nell’Amministrazione carinziana di Annibale Alfonso. La situazione era aggravata dal fatto che, com’è usuale, i creditori avevano una memoria più lunga di quella dei debitori. Si giunse al sequestro di quasi tutti i beni. L’unica risorsa rimasta era il bosco di Senosetsch, il cui legname era ambito per le costruzioni navali. La Serenissima voleva comperare 20.000 tronchi di abete rosso al prezzo di 10 fiorini ciascuno. Sarebbe stata una bella boccata di ossigeno, ma le trattative non andarono a buon fine per cause politiche. Lo storico Günther Probszt-Ohstorf dedica ad Annibale Alfonso, morto a 67 anni nel 1742, ben 17 pagine nella sua opera “I Porcia”. Una interessante e poco nota dimensione riguarda lo “Zecchino di Porcia”. Nel 1704, quindi agli esordi del suo Principato, Annibale Alfonso Emanuele di Porcia si era ricordato di un dettaglio storico. Il diploma imperiale, con il quale il suo antenato Giovanni Ferdinando di Porcia, primo Principe della casata, era stato investito della dignità principesca, attribuiva anche il diritto di battere moneta. La formula è chiara e indiscutibile: “…Per dimostrare la Nostra grande benevolenza e il benigno affetto verso il Principe di Porcia, abbiamo concesso questo particolare privilegio e facoltà a lui e ai suoi eredi e discendenti col consenso e l’approvazione Nostra e dei Principi del Sacro Regno. Potrà essere realizzata una zecca per il conio di monete sia d’oro che d’argento, avvalendosi di valenti incisori. Potranno essere monete grandi o piccole similmente alle Nostre o a quelle dei Nostri predecessori secondo l’editto del Sacro Regno. Potranno esservi impresse scritte, immagini, stemmi su entrambe le facce. La preparazione dovrà rispettare i precedenti modelli per quanto riguarda titolo, metallo, grano, contenuto, valore e peso…Qualora da parte Nostra o dei Nostri successori dovessero intervenire variazioni dell’ordinamento monetario, il Principe di Porcia e i suoi eredi e successori dovranno adeguarsi a quest’ultime.” Il privilegio di battere moneta era stato concesso nel tempo anche ad altri Principi, come quello di Liechtenstein, (che continua tuttora ad esercitarlo), di Eggenberg e di Wallenstein, nonché ai Conti di Dietrichstein e soprattutto al Conte di Montfort. In non pochi casi tale prerogativa si è trasformata in lucrosa e sfacciata speculazione.- Ciò non si può tuttavia dire dei Porcia – Brugnera. Lo zecchino di Porcia era una moneta da ostentazione. Essa aveva cioè funzione di rappresentanza e di conferma dell’ alta nobiltà e dignità della famiglia. Bisogna infatti tenere presente che l’appartenenza ad un rango principesco non significava affatto l’automatica autorizzazione a battere moneta. Questa doveva essere concessa in rari casi particolari mediante espressa indicazione nel diploma imperiale, come fu appunto il caso di Giovanni Ferdinando. Ma costui, il figlio Giovanni Carlo, suo nipote Francesco Antonio e Gerolamo non ne fecero uso. La moneta fu coniata nel 1704 presso la zecca imperiale di St. Veit an der Glan (Carinzia). L’incisore fu Michael Miller, che operava in Stiria e Carinzia, ma aveva l’officina a Graz. Il numismatico italiano Solone Ambrosoli la classifica “quasi a far pompa dell’arme sormontata dal berretto principesco, e dal titolo di Principe del Sacro Romano Impero”. Il dritto dello zecchino evidenzia il ritratto di Annibale Alfonso con corazza e una vistosa parrucca; il rovescio mette in rilievo uno scudo con gli stemmi di Porcia, Ortenburg e Mitterburg. Non è noto quanti pezzi di questa rara moneta siano stati prodotti. Lo zecchino non era infatti destinato alla circolazione monetaria, ma a doni di particolare rilievo. Non doveva diventare un mezzo per comprare e vendere, bensì costituire un simbolo che non si compra e non si vende. Ne esisterebbero soltanto tre esemplari, uno dei quali sarebbe nella grande collezione del Re Vittorio Emanuele III di Savoia.

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RIPASSO   DELLA   STORIA

La storiografia romana è certamente prodiga di notizie sulla vita dell’epoca. Si tratta comunque di uno storicismo invertebrato. Se si desidera piuttosto conoscere in dettaglio quanto avveniva nella capitale o nelle province, bisogna invece ricorrere a qualche oratore o cronista guastafeste. Tra questi bene informati figura Plinio il Vecchio. Si viene così a sapere che Giulio Cesare aveva provocato con la sua ambizione un milione di morti, compreso il genocidio dei Veneti residenti nella Gallia Transalpina. La cifra assume particolare rilievo se si pensa che a quel tempo, considerando anche la concessione della cittadinanza ai provinciali dopo le guerre civili, la popolazione dell’Impero era di soli 4.023.000 cives.- Secondo Euripide il personaggio aveva inoltre sostenuto l’inaccettabile principio:”Se occorre violare il diritto per regnare, lo si faccia; in tutti gli altri casi si rispetti la giustizia”. Non sembra proprio il caso di prendere in considerazione Giulio Cesare per eventuali celebrazioni. Un’altra fonte è Marco Tullio Cicerone. Egli scrive la Seconda Filippica subito dopo le Idi di Marzo, quando Giulio Cesare venne assassinato in Senato. Veniamo in tal modo a sapere che Marco Antonio era il braccio destro di Cesare. Egli era attorniato da una miriade di gente poco per bene. “Comites nequissimi” li qualifica Cicerone, cioè “cattive compagnie” da non confrontarsi con quelle delle nostre gioventù, la cui frequentazione costituiva peccato da confessare. La Sesta Filippica è ancora più chiara. Marco Antonio aveva un grande seguito quando viaggiava. C’erano allora i littori, che oggi si chiamerebbero la scorta. E fino a qui nulla di straordinario, data la carica che il personaggio rivestiva. Poi seguivano parecchi grandi carri coperti ed equipaggiati per rendere più agevoli le lunghe trasferte. I passeggeri erano prostitute, lenoni e parassiti. Le popolazioni dei Municipi, invece che includere nell’accoglienza una risata torrenziale, dovevano rendere omaggio a quegli ospiti, si fa per dire, e sostenere le rilevanti spese per il mantenimento, il soggiorno e le regalie. Non importava se ciò corrispondeva ad un impoverimento della comunità. Cicerone non precisa nulla che riguardi Oderzo. Ma a noi sembra lecito chiedere se, per caso, Oderzo non fosse Municipio Romano tra il 49 e il 42 a.C. e precisamente amministrato da quattro magistrati, di cui si conosce solo il nome di M. Laetorius Paterchianus , tanto per dare un riferimento temporale e onomastico ragguagliabile con la storia.- In caso affermativo Oderzo sarebbe stata certamente coinvolto nei costosi festeggiamenti cui Cicerone faceva riferimento. Qualora ciò costituisse motivo di vanto, regime condiviso e orgoglio, piuttosto che di fastidio, sdegno o disonore, sarebbe giustificata la celebrazione estiva del mito impolverato con tanto di travestimenti.- L’evento dovrebbe invece essere rimosso dalla memoria, qualora la partecipazione fosse stata forzata o mal sopportata dalla gente, come si suppone. La storia ricorda, inoltre, che l’Imperatore Commodo, figlio di Marco Aurelio, spese verso la fine del II secolo d.C. somme molto elevate di denaro pubblico. Il motivo?- Combattimenti tra gladiatori. Egli stesso vi partecipava coraggiosamente, dopo essersi accertato che gli avversari fossero armati di semplici spade di legno. Non si sa mai.- Ecco, anche rievocazioni del genere sarebbero da evitare, specialmente se finanziate da risorse pubbliche in tempo di crisi finanziaria. Per comprendere qualcosa di più non rimane altro che attendere la prossima estate. Nel frattempo si deve, comunque, prendere atto che Marco Antonio non era rilevante nemmeno esteticamente. In una moneta d’argento risalente al 32 a.C. egli è infatti raffigurato con gli occhi sporgenti, il naso aquilino e il collo taurino. Proprio tutto il contrario di come appare nel famoso film di L. Mankiewics del 1963. Se ne tenga conto per un’eventuale immedesimazione.

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                                                                         “C E T E R I = G L I   A L T R I”

Non sembri esagerato accorgersi che il monumento alla cosiddetta vittoria di Bolzano, fatte le debite proporzioni, assomiglia a un moderno trancio di torta nuziale. Estraneo ai tempi appare invece la scritta che si legge: HIC PATRIAE FINES SISTE SIGNA/ HINC CETEROS EXCOLVIMUS LINGUA LEGIBUS ARTIBUS. Se le reminiscenze scolastiche resistono, dopo la prima parola dovrebbe essere sottinteso un “sunt”. Il significato sarebbe quindi: QUI SONO I CONFINI DELLA PATRIA. PIANTA LE INSEGNE. DA QUI ISTRUIMMO GLI ALTRI CON LA LINGUA, LE LEGGI, LE ARTI. Sembra in primo luogo impossibile che i disegnatori di tali “confini” ignorassero l’indicazione di Eubulide, creatore del paradosso, il quale già nella Grecia del IV secolo a.C. sostenne l’inconsistenza di veri confini in natura. In effetti è impossibile stabilire perfino dove termina il monte e incomincia la valle.- Risalta poi subito che il concetto di “patria” nel messaggio, non coincide affatto con l’omologo sentimento dei destinatari. Esso esula infatti dai significati classici e linguistici consolidati. IL Vocabolario della Lingua Italiana, edito dall’Istituto dell’Encilcopedia Italiana, definisce la patria come “Territorio abitato da un popolo, al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura”.- Tale eventualità non ricorreva in Sudtirolo ai tempi dell’erezione di quel monumento, e non ricorre ancora, a meno che per patria non si intenda un’entità dilatabile, o restringibile, a seconda delle circostanze: un territorio su ruote che le guerre possono spostare. Il termine scolpito in lettere latine, che non ricorre nella Costituzione, alluderebbe piuttosto a sovranità statale, oppure a una patria elettorale dove si pagano le tasse. Esso deriva da una convinzione di Pacuvio, citato da Cicerone (Tusc. 5,37. 108) e ripetuto da Seneca:”Patria est ubicumque est bene = La patria è dove si sta bene”. Anche Aristofane non esitò a sostenere:”La patria è dove ci si arricchisce”. Ai fini di potere l’Impero Romano integrò l’idea nell’anno 2 a.C., inventando l’attributo “Padre della Patria”, trasmesso poi a tutti gli Imperatori, tranne Tiberio.- Bisognerà attendere il Rinascimento per l’eccezionale ripristino del titolo, che fu concesso a Cosimo dei Medici. L’ultimo evento risale al XIX secolo con Vittorio Emanuele II. Le altre idee di patria sono opposte. Il mistico medievale Ugo da San Vitale sostenne che chi trovava dolce un simile concetto era solo “un povero dilettante”.- Virgilio definì le origini dei suoi genitori “mantovani per patria entrambi”.-“Fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria”, chiese il manzoniano oste della “Luna piena” a Renzo Tramaglino.- “Patria del Friûl” era infine chiamata la regione friulana governata da un Luogotenente Generale nominato dalla Serenissima dopo il 1420. Si ha ragione di ritenere che l’iscrizione sul monumento di cui trattasi, risalente al 1928, intendesse rivolgersi alla popolazione di lingua tedesca, poiché non ve n’erano ancora praticamente altre nella regione. Qui emerge la differenza. La “Heimat” come terra e non come entità politica, non coincide con la patria generalizzata e paracadutata, spiegata dalla scuola e collocata in lontane latitudini, dove non poteva esistere una Heimat alpina. Jakob Grimm intendeva per Heimat il suo paese, la terra della quale egli conosceva i sentieri per averli percorsi da bambino. Gregor von Rezzori sosteneva a sua volta che questa parola trovasse i suoi veri confini nel cuore e nell’anima delle sue creature. Non per nulla Rainer Maria Rilke scrisse che l’unica patria di un uomo libero è l’infanzia, il proprio ricordo (montanaro nel caso di specie) e non quello di altri (peninsulare o insulare).- Korolenk, amico di Cechov, si spinse a dire:”La mia patria è la letteratura”.- È impossibile argomentare che per i Tirolesi si trattasse della letteratura italiana. Piacerebbe aggiungere che la vera patria è quella in cui si incontra il maggior numero di persone che ci assomigliano, come assicurava Stendhal. É certo che un sudtirolese autentico troverebbe maggior numero di persone che gli assomigliano tra i monti e nei contigui territori dove si parla ancora la sua lingua e dove le parole sono più aderenti a quello che egli vuol dire.-“L’italiano è la lingua altra, nel senso che sono altri che l’hanno creata, organizzata e la parlano. Per usarla devo impararla e adeguarmi ad altre regole, e l’attenzione è applicata a non sbagliare, non a creare…mancano anche i muscoli facciali per parlare l’italiano”, sostenne l’attore veneziano Lino Toffolo (Il Gazzettino, 1 luglio 2008, pag. 11). Veniamo all’ultima parte del messaggio. Gli “altri”avrebbero appreso la cultura da una fonte estranea, investita di tale missione civilizzatrice. A parte il fatto che le statistiche evidenziavano dopo la Grande Guerra un diffuso analfabetismo in Italia, mentre nel Tirolo l’istruzione obbligatoria era supportata da ben otto anni di scuola, il termine “cultus” significa “terreno dissodato, radura”. Non si direbbe che i portatori di cultura si siano distinti nella faticosa agricoltura di montagna!- Più in generale si scorgono poche dimensioni di cultura in giro: solo tagli alla spesa. Tuttavia, volendo considerare la cultura quale identità e qualità che unisce e innalza tramite la lingua, le leggi, le arti, non possono essere tralasciate alcune riflessioni.- Finché importanti esponenti della vita pubblica e della scuola continuano a sbagliare i congiuntivi, è meglio lasciar perdere la lingua. Quando in certa scuola dove si dovrebbe apprendere la lingua, non in tutti gli istituti per fortuna, si scalano le graduatorie per l’insegnamento pagando tangenti da 100 a 300 Euro (Il Giornale, 21 ottobre 2008, pag. 3), è meglio lasciar perdere. Un Ministro ha detto che “questa cultura è attualmente un pannolone un pò indecente con il quale si coprono rendite personali…(Corriere della Sera, 12 ottobre 2008, pag. 37). Finché le procedure colpiscono duramente azioni minori e si riscontra praticamente l’immunità per gravi reati, sarebbe meglio non nominare le leggi. Per quanto riguarda le arti, poiché il termine vuol dire anche “astuzia e artifizio”, l’insegnamento sarà stato anche esplicato con metodo, ma gli “altri” non l’hanno assimilato, a differenza dei furbi che altrove abusano di ogni circostanza (Corriere della Sera, 12 ottobre 2008, pag.21). Se per “arte” si intendono invece scienza, lavoro e qualità, come è giusto che sia, allora il giudizio sembrerebbe finalmente meritevole di aggiornameto. Il monumento di Bolzano, sebbene non in sintonia stilistica con il circondario, non dovrebbe essere tuttavia abbattuto. Uno dei massimi architetti moderni ha detto che ogni monumento ha un’anima. Dovrebbero dunque averla anche le opere che sono considerate come falsificazione della storia. Il problema è che, secondo la Chiesa, le anime cattive non meritano il paradiso.

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    LA   GRANDE   GUERRA  TRA   STORIA   E   MEMORIA

“Storia e memoria non sono sinonimi.- La memoria è la vita portata da gruppi viventi e quindi in permanente evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia. La storia è invece la ricostruzione problematica e incompleta di quello che non è più. La storia esige analisi e discorso critico. Ci sono tante memorie quanti gruppi e fazioni. Per principio la storia appartiene a tutti e a nessuno. La storia sospetta sempre della memoria. La memoria è una tappa obbligata che deve essere superata come un valico alpino, se si vuole andare da una valle all’altra. E’ faticoso lasciarsela alle spalle. Il passaggio dalla memoria alla storia richiede tempo e intelligenza” (Bernardo Valli, La Repubblica 16 gennaio 2007) Certe guerre non finiscono mai. Continuano nelle domande dei giovani e nei silenzi dei “grandi”. Questo è un incontro diverso dalle 43 iniziative programmate per celebrare la fine della Grande Guerra e finanziate con denaro pubblico, ma che in realtà riguardano altro. L’evento n. 13 è per esempio intitolato “Giornate nazionali del mandolino e della musica a plettro”! La “battaglia del solstizio” aveva registrato un iniziale successo austro-ungarico, ma poi nel luglio 1918 le situazione militare si era nuovamente stabilizzata sulle rive della Piave. Entrambe le retrovie erano, invece, esposte a decisive variabili. La coscrizione della classe 1899 significava che la riserva italiana di uomini era esaurita. Gli orientamenti dell’Imperatore Carlo I evidenziavano la rinunzia a ulteriori offensive. Nel settore italiano lievitavano rancori, sospetti, abusi, delusioni, repressioni. Una breve rassegna di notizie ne riassume le dimensioni. Si legge nel libro “Memorie di un maresciallo dei carabinieri” curato da Mario Borsoi:”Il Generale (Andrea Graziani) si portò a Treviso con pieni poteri…Nei giorni che seguirono, al mattino, venivano recapitati in caserma, perché fossero esposti e darne così notizia alla popolazione, gli elenchi nominativi dei fucilati del giorno prima: in media dai 20 ai 25 al giorno.- I primi giorni le esecuzioni venivano effettuate nel parco di Villa Margherita a S. Artemio, ed in seguito in un campo a Santa Bona. Le esecuzioni venivano eseguite da un plotone di soldati con fucile; alle loro spalle altrettanti carabinieri a colpi di pistola finivano, poi, coloro che davano segni di vita”.- Lorenzo Del Boca scrive in “Grande Guerra, piccoli generali”: Luigi Cadorna, un pignolo aggrappato a regole e regolette che si comportava come un dittatore e faceva fucilare chi appariva titubante nel correre a farsi ammazzare”.- Curzio Malaparte testimonia che “Chi avesse osato lamentarsi finiva davanti al Tribunale Militare, dove trionfavano disumana insensibilità, servilismo, stupida bestiale ferocia”. E inoltre:”I colpevoli di disfattismo venivano, di notte, prelevati in trincea, ammanettati, trascinati davanti ai Tribunali Militari, che puntualmente ne decretavano la fucilazione”. Non meno significativo è il racconto della Medaglia d’oro Camillo De Carlo nelle sue “Memorie”, che conclude retoricamente:”Mio Dio, perdona, perdona ai nostri eroi, come essi ci perdonano”. Da queste parole si comprende come la storia della Grande Guerra sia un grande obitorio, dove ciascuno viene a cercare i propri morti. Non dovrebbe destare meraviglia che in un tale clima saturo di perplessità, stanchezza e ostilità contro la guerra, la Rivoluzione d’Ottobre sovietica sembrasse un rimedio e un esempio da imitare per cambiare finalmente l’insopportabile stato di cose. La popolazione civile non era estranea a siffatta prospettiva.- Non si dimentichi che la rivoluzione, indotta dallo Stato Maggiore germanico, aveva fatto crollare il fronte russo e concludere l’armistizio di Brest-Litowsk!- Vi sono ben due importanti interviste giornalistiche al riguardo: IL GIORNALE del 14.08.2004 e IL GAZZETTINO del 6 gennaio 2008. Nel settore austro-ungarico la crisi non era militare, ma politica. Non si dimentichi che l’esercito occupava ancora oltre 12.000 km² di territorio avversario!- L’Imperatore Carlo I aveva tuttavia deciso di porre termine ad ogni costo alla guerra che egli non aveva voluto, bensì ereditato. Nelle sue “Memorie” pubblicate da Erich Feigl si legge:”Se gli Imperatori non fanno subito la pace, saranno i popoli a farla, scavalcandoli”. Quale fosse la sua saggia visuale si deduce dalla affermazione:”Se pur in presenza di una nostra grande vittoria, noi non concludessimo subito la pace senza annessioni e danni di guerra, anzi perfino con piccoli sacrifici da parte nostra, finiremmo in una situazione militare non favorevole per cercare la pace, e ciò sarebbe una catastrofe”.- La “grande vittoria”, di cui parlava l’Imperatore, avrebbe potuto essere raggiunta mediante la “battaglia del solstizio”. La prospettiva sarebbe stata tutt’altro che impossibile, qualora avessero avuto luogo fermenti rivoluzionari nelle retrovie italiane, come era accaduto in Russia alcuni mesi prima, appunto. Le premesse non mancavano. Il proletariato internazionale era stato invitato a trasformare la guerra imperialista in guerra civile. A Torino e nelle Marche c’erano stati tumulti con numerosi morti e feriti. Un Generale del Regio Esercito aveva dovuto consegnare la sciabola agli insorti. Non pochi intellettuali aumentavano lo sdegno popolare denominando i cadaveri dei caduti come “buon concime plebeo”, come aveva fatto Giovanni Papini. Il Consiglio Comunale di Milano, presieduto da Filippo Turati, aveva inviato il suo plauso al governo ormai sovietico di Pietrogrado. “Vi sono argomenti che non ammettono la minima confutazione, ma che non suscitano la minima convinzione”, aveva sostenuto David Hume.- Un’indagine della situazione in Italia è pertanto doveroso a questo punto. In tale satura miscela esplosiva mancava in Italia solo l’arrivo di un treno carico di rivoluzionari.- In realtà un convoglio del genere esisteva veramente!- Faceva parte del piano del Colonnello tedesco Wilhelm Nicolai, programmatore della riuscita impresa del viaggio a Pietrogrado, e la destinazione era proprio l’Italia, dove era atteso.- Circolava infatti già dal 1915 una canzone dal ritmo “allegro ma non troppo” comune a un altro inno, che diceva:”Neutrali d’Italia/ l’Italia s’arresta,/ e l’elmo di Scipio/ si leva di testa”.- E poi:”Apriamo le porte/ all’Austria più forte:/avvenga che può” Rileggere i giornali dell’epoca, compreso il Corriere della Sera, per credere.- È il caso di riflettere sulle conseguenza di una rivoluzione in Italia nel 1918.- Il fronte della Piave sarebbe caduto e sarebbe giunta la fine della guerra. Secondo lo stile degli Vienna non si sarebbe tuttavia nemmeno pensato a una vittoria e allo sfruttamento della situazione!-Forse sarebbe giunto piuttosto un aiuto per fronteggiare la sollevazione. Anche l’assetto istituzionale italiano sarebbe infatti profondamente mutato. La monarchia non avrebbe resistito con una politica marxista. La Chiesa avrebbe avuto necessariamente gravi difficoltà in un regime ateo. Un Imperatore e Re apostolico come Carlo I non avrebbe potuto tollerare un simile fatto. La sua esitazione fu fatale al suo Impero. Non fu l’unica volta nella storia. Tito Livio scrive che “l’esitazione di un giorno”, da parte di Annibale dopo la vittoria di Canne, fu la salvezza per Roma. Gli Asburgo erano da sempre convinti sostenitori della Chiesa. Lo stesso Gorge Clemenceau aveva dichiarato che l’Imperatore d’Asburgo era come un papa nella Mitteleuropa. Si tenga inoltre presente che il giovane e inesperto sovrano provava una specie di subordinazione nei confronti del Papa, il quale era a sua volta in difficoltà con lo Stato italiano da oltre 50 anni.- Sarebbe stato pensabile un Concordato della S. Sede con una Repubblica sovietica? L’Imperatore impedì la partenza del secondo treno già pronto alla stazione di Zurigo! Il passaggio attraverso i territori controllati dall’Austria era infatti obbligato per giungere in Italia: le frontiere franco-svizzera e italo-elvetica non sarebbero state infatti superabili.- La circostanza non è stata mai accennata in precedenza, ma essa è degna di attenzione. Si tratta, infatti, di una questione documentata negli Atti del processo di Beatificazione di Carlo I (Summarium del processo canonico pp. 221-222 e Positio super virtutibus et fama sanctitatis, vol. I, pag.255). Dall’orientamento di Carlo I sarebbero derivati non pochi vantaggi. Prima di tutto l’Italia avrebbe evitato una rivoluzione in tempo di guerra. Ne dà atto “Il Giornale” del 14 agosto 2004 con il saggio di Andrea Tornelli “Il Re nemico che salvò l’Italia dal Comunismo”. Poi i Savoia sarebbero rimasti sul trono. L’Intesa avrebbe inoltre potuto spostare dal fronte italiano importanti contingenti militari verso il fronte occidentale, dove c’era ancora una situazione molto critica. Più di tutti ne avrebbe guadagnato la Santa Sede. Poiché “la rivoluzione fu impedita ufficialmente per non danneggiare la Chiesa”, come si legge negli Atti della Beatificazione, si trattava di una carta buona da giocare per giungere al Concordato con l’Italia, a sua volta agevolata dalla positiva fine della guerra.- L’unico svantaggio fu riservato all’Austria già scossa da fermenti rivoluzionari, e ciò fu motivo di biasimo per Carlo I.- Come si sa, quando le cose vanno bene, molti si attribuiscono il merito. Quando le cose vanno male, la colpa è di uno solo. La richiesta di armistizio fu avanzata da un’Austria abbandonata da tutti, ma non sconfitta. Non un metro quadrato di territorio austriaco era stato finora invaso dalle truppe avversarie. La capacità operativa dell’esercito austriaco era intatta. Ne è prova l’annotazione nelle “Memorie” dell’Imperatore Carlo I:”Ho spiegato all’Imperatore Guglielmo (di Germania) che, qualora il nemico ponesse condizioni intese a usare il nostro territorio per assalire i Tedeschi alle spalle, le rifiuterei e mi opporrei a un’avanzata italiana alla guida della sola Austria, poiché non si può più contare sulle altre nazioni”.- Si sa bene: “Quando il vecchio cane muore, le fedeli pulci si avventano sui suoi cuccioli”, aveva sostenuto Willam Shakespeare.- “Non bisogna attribuire ai sismografi la colpa dei terremoti”, si potrebbe aggiungere da parte nostra. La disposizione ufficiale di cessare le residue ostilità fu divulgata dal Comando Austriaco alle ore 7,30 del 3 novembre 1918, ma il ritiro unilaterale delle truppe dalla riva sinistra della Piave e la effettiva cessazione dei combattimenti da parte austriaca erano già cominciati nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 1918.- Tale tregua unilaterale era stata anticipata dalla liberazione di prigionieri di guerra italiani, come risulta dalle informazioni di mons. Giuseppe Lozer, parroco di Torre, e dall’Archivio di Stato udinese. Si converrà che fu una prassi insolita durante un conflitto. Questa era apparsa l’unica modalità per disarmare effettivamente la guerra.- L’Imperatore non brillava per prudenza. Non aveva nemmeno pensato per la sua famiglia. Non aveva imparato nulla da Hans Christian Andersen. Il grande favolista danese era infatti solito portare con sé un gomitolo di robusto filo di canapa per calarsi dalla finestra in caso d’incendio. Non è possibile intuire se, nel convulso mutare degli avvenimenti, fosse allora emersa nei responsabili la prospettiva che la fine dell’Impero Asburgico avrebbe potuto anche significare il via libera all’islamizzazione dell’Europa. L’attualità consiglia tuttavia che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è bene controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse. Il testo dell’armistizio era stato trasmesso al generale Diaz già in data 31 ottobre 1918. Era chiaro che i Servizi austriaci ne avevano avuto notizia, essendo parte in causa. Poiché erano quindi in corso trattative per l’armistizio (le cui condizioni peraltro erano state rese note parzialmente a Vienna soltanto il 2 novembre, in quanto il differimento dell’entrata in vigore al 4 novembre fu unilaterale e pretestuosamente successivo), era veramente inutile e assurdo continuare a far morire soldati di entrambi gli schieramenti.-“In questa situazione tutto era meglio piuttosto che combattere. Ritengo che i parenti di quei soldati, che furono fatti prigionieri invece che essere uccisi inutilmente, approvino oggi la decisione del Comando Supremo dell’Armata, che tramite l’armistizio ha mantenuto in vita i loro cari”, si legge infine nelle “Memorie” di Carlo I.- Altro che ninne nanne suonate con un trombone, “Canzone del Piave” inclusa, la quale è meno originale di quanto si ritenga!-Il giovane ufficiale ungherese Antal Lehar aveva infatti composto nel febbraio 1918 una “Marcia del Piave” per il suo 106° Reggimento operativo nella zona di Oderzo. Non sentendosi in grado di scrivere le note, egli ricorse al proprio fratello: Franz Lehar, il compositore della “Vedova allegra”!- La “Canzone del Piave” italiana risale al giugno 1918. Se si vuole parlare di sconfitta, allora si sappia che l’Austria si è sconfitta da sola e per la pace, mentre Gabriele D’Annunzio scopriva il “fetore della pace”!- Se si vuole parlare di vittoria italiana a Vittorio Veneto, allora si tenga conto che chi vince senza pericolo, trionfa senza gloria, come aveva sostenuto Pierre Corneille.- La città fu raggiunta dalle truppe italiane il 30 ottobre 1918, quando i contingenti austro-ungarici si erano già ritirati. Sul portone di Palazzo De Carlo era ancora affisso il cartello che tutti gli oggetti d’arte e di valore erano stati inventariati e posti sotto la vigilanza del Comando Tappa. L’inventario di cui trattasi era stato lasciato in vista sul tavolo del salone, in modo che chiunque potesse constatare che nulla mancasse. Successivamente l’inventario sparì…- Dove sta quindi la “vittoria”?- Lo spiegò Giuseppe Prezzolini a pagina 34-35 della sua opera “Vittorio Veneto”:”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani devono lasciarsi dire”.- Giuseppe Prezzolini fu il fondatore della famosa “Congregazione degli Apoti”, cioè di quelli che non la devono facilmente.- Era loro convinzione che l’intelligenza non potesse essere confusa con la furberia. Qualora ciò non bastasse, ci sarebbe la constatazione che il 4 novembre non viene festeggiato nelle altre nazioni, che pure hanno avuto numerose perdite sul fronte italiano, ma che per coerenza festeggiano l’11 novembre, data della vera fine della Grande Guerra..- Tutto ciò vale naturalmente se la storia è considerata un tempo provvisto di senso, come è giusto che sia.- Non vale invece in un’ottica perversa, secondo la quale “in guerra c’è chi marcia e chi ci marcia”. – Bisogna essere prudenti quando si parla di vittorie. Nel luglio del 1945, mentre due bombe atomiche destinate a Hiroshima e Nagasaki venivano caricate sugli aerei alleati, il Governo italiano presieduto da Ferruccio Parri dichiarò eroicamente guerra al Giappone. Anche in questo caso sarebbe stata riportata una vittoria. Esistono individui che ne sono orgogliosi. Il Pontefice Benedetto XV era coinvolto al pari dell’Imperatore nella volontà di pace. Egli potrebbe quindi aver privilegiato la sorte personale del monarca austriaco certamente in considerazione della sua profonda situazione di fede, ma anche per avere in definitiva reso possibile sia la pace, sia gli auspicati orientamenti italiani in caso di un successo militare in tal modo conseguito.- In altre parole, e mi si perdoni il peccato di memoria, il Papa potrebbe avergli promesso in cambio la beatificazione. Sarebbe stato un impegno tale da non lasciare indifferente un uomo come Carlo I, specialmente se integrato dalla prospettiva, con comodo, di un uguale trattamento per l’amata consorte. Sono congetture, naturalmente, ma se esse avessero un minimo di fondamento e coincidenza, la prima parte della promessa sarebbe stata mantenuta il 3 ottobre 2004. Per la seconda parte c’è ancora tempo. A questo punto si potrebbe obiettare che il nesso tra causa ed effetto nel paradigma “fine agevolata della Grande Guerra e Concordato con la S. Sede”, non regge. Tra l’inizio di novembre 1918 e l’11 febbraio 1929 ci sono infatti quasi dieci anni e mezzo. Un tempo decisamente troppo lungo. È vero. Ma un primo incontro tra il Cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, e Benito Mussolini, allora deputato, ebbe luogo nel gennaio 1923. Lo rende noto un articolo di Benny Lai su “Repubblica” del 25.2.2007. Il tempo trascorso sarebbe allora di quattro anni e tre mesi. Se si trattasse di un accordo definitivo, come fu poi la Conciliazione, il periodo potrebbe anche essere accettato nel rapporto causa-effetto in prospettiva di interrogazione del possibile, ma esso appare decisamente troppo lungo per un semplice preliminare. In realtà il regime liberale italiano aveva tentato un accordo col Vaticano già nel 1919. Vittorio Emanuele III non concordò, sebbene avesse avuto validi motivi per farlo. Lo afferma Francesco Margiotta Broglio, storico e presidente della Commissione di attuazione del Concordato. Un’informativa più ampia sull’argomento è reperibile in “La conciliazione con la Chiesa Cattolica” (V° DVD di “La storia del Fascismo”, in vendita con il Corriere della Sera dal 12.5.2008 a Euro 9,90).- La relazione tra causa ed effetto nel caso di specie quindi sussiste, e come!- Essa dovrebbe essere anzi pubblicizzata, se si vuole togliere qualcosa alla storia grassa, per dare alla storia sacrificata. Il filosofo Massimo Cacciari, Sindaco di quella Venezia ridotta da capitale a prefettura, mette in guardia dalla storia politicizzata:”Il fine che l’azione politica persegue può non essere in alcun modo misurabile in termini di utilità; può esprimersi in rituali (e sacrifici) perfettamente inutili”. Dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di quanti sono degni della verità. All’intelligenza di quest’ultimi non sembri esagerato il concetto di vittoria proposto da Ernest Hemingway, che pure aveva partecipato alla Grande Guerra. Lo scrittore racconta nella sua opera “Il vecchio e il mare”, che un vecchio pescatore non catturava più pesci da 84 giorni. All’improvviso un pesce spada enorme abboccò alla sua esca. Seguirono tre giorni di lotta per tirarlo nella barca. Alla fine una sconfitta apparve nella vittoria: fu recuperato soltanto un grande scheletro, poiché la preda era stata divorata dagli squali. In conclusione assume autorevole significato l’avallo delle sopra citate tesi l’articolo pubblicato a pag. 34 del ”Sole – 24 Ore” in data 7 settembre 2008 con il titolo emblematico:”4 novembre: fu vera vittoria?”. È forse giunto il tempo per le persone ragionevoli, di inserire nel pensiero un nuovo principio: “Non sempre i vinti hanno torto”. Termino con le forti parole di Claudio Magris, pubblicate nel Corriere della Sera del 25 settembre u.s.: “Chi crede di aver vinto non spera, perché si illude di avere già ottenuto ciò che voleva. Ma chi crede di aver vinto definitivamente, di avere stretto con la vittoria un matrimonio indissolubile, diventa facilmente – scrive Manès Sperber – un ridicolo “cornuto della vittoria”.

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Barone Rosso

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           LEZIONI   DI   STORIA

La nostra città lacustre aveva alcuni tra i più rinomati istituti scolastici della regione, ma la cittadinanza non dimostrava particolare propensione per la cultura in generale e per la storia in particolare. I giovani poi non erano coscienti delle fatiche sostenute dagli insegnanti per la loro istruzione. Eppure sarebbe stato sufficiente pensare alla pazienza di quest’ultimi di fronte a tanta ignoranza per provare riconoscenza! Un professore, rigorosamente scapolo, attirava tuttavia la simpatia degli studenti. Essi potevano frequentare di pomeriggio la sua casa dove le sorelle del docente, rigorosamente nubili, tenevano in serbo biscotti, castagne secche e carrube perfino. C’era inoltre la possibilità di imparare qualche nozione eventualmente sfuggita durante le ore di lezione. Un giorno il professore disse:”Poiché questo è l’anno santo, se qualcuno va a Roma, cerchi di procurare alcune fotografie dei fori e dei templi antichi. Da un pò di tempo si insiste tanto sul fatto che noi siamo romani e, nonostante le prove in contrario le quali ammettono soltanto una lontanissima, sparuta presenza fiscale e militare di emanazione romana, non è ammessa alcuna contraddizione. Strano è che tutti qui ci abbiano creduto. Non mi voglio mettere contro il potere e quindi vorrei realizzare alcuni grandi cartoni con immagini di come poteva essere la nostra città un paio di millenni fa, se non fosse stata come era in realtà. Per questo mi serve un’ ispirazione”.- Nel frattempo, per far risaltare supposte dimensioni capitoline, la scuola e la stampa avevano accuratamente decaffeinato ogni riferimento alla storia locale. Eppure in un paio di millenni doveva essere pure accaduto qualcosa anche da noi. Nulla da fare. Neppure l’idea poteva affiorare, che un popolo d’acqua dolce non potesse appartenere a una penisola bagnata in tre lati dall’acqua salata del mare. Di fronte allo scetticismo dei ragazzi, il professore disse che la gente di solito crede a tutto. Poi raccontò:”Il Pontefice Adriano I° era in contrasto con Desiderio, Re dei Longobardi, e chiese aiuto a Re Carlo. Questi aveva sposato la figlia di Desiderio, la mitica Ermengarda, e non aveva giustificati motivi per intervenire. Il Papa Adriano per convincerlo gli inviò allora alcuni doni, il più gradito dei quali fu un uovo dello Spirito Santo…- Proprio così. Poiché lo Spirito Santo era apparso in un certo giorno di Pentecoste come una colomba, al Re era stato donato un uovo di piccione come segno della più alta devozione. Il futuro Imperatore e tutto il suo seguito ne furono lusingati e il 2 aprile dell’anno 774 entrarono a Roma come protettori della Chiesa. Non sembri così difficile far credere cose improponibili, come un uovo dello Spirito Santo”. Le cartoline furono acquistate a Roma presso un tabaccaio e servirono veramente per alcune gigantografie riproducenti vestigia, contrabbandate come antichità locali. Per uniformarsi al nuovo clima autoreferenziante, il Comune fece allestire nei giardini pubblici due abitacoli ben visibili: uno per la lupa capitolina e uno per l’aquila imperiale. Il recinto per le Oche del Campidoglio era invece in riva al lago, non lontano dall’ufficio dei Vigili, opportunamente denominati Pretoriani. Alcune signore incominciavano a chiedere agli istituti di bellezza uno speciale trucco denominato “pelle d’oca”. Qualche esponente municipale si affrettò perfino ad adeguare il proprio operato alle abitudini abbastanza consuete nelle Amministrazioni romane d’altri tempi, s’intende. Queste, così si diceva, non ascoltavano infatti mai le suppliche dei sudditi, come allora erano denominate.- A tale proposito, per la verità, un bel po’ di colpa era attribuibile alla stampa. I giornali presentavano infatti le Amministrazioni dei Paesi nordici come molto attente alle richieste dei cittadini. Per differenziarsi da tali abitudini consolidate tra i “barbari” bisognava quindi e per logica fare il contrario. Alcuni studenti, poco preparati in fatto di storia romana, non vedevano una similitudine tra le consuetudini dell’antichità e certi comportamenti moderni. Fu quindi necessario un chiarimento dell’insegnante, il quale spiegò:”Dopo la morte del saggio Imperatore Carlo Aurelio, gli successe sul trono di Roma il figlio Comodo, nato nell’anno 161 d.C.- La storia lo descrive come l’opposto del padre, visto che già a dodici anni fece arrostire nel forno uno schiavo che gli aveva preparato un bagno troppo caldo. Egli si teneva inoltre cari i peggiori soggetti e quando gli furono allontanati, si ammalò. Durante il suo governo mandava inoltre i suoi complici a comandare nelle Province. Ciò non gli impedì di farsi divinizzare nelle monete nel 188 – 189 a spese dei sudditi ignari. Tra le peggiori dimensioni della sua pessima amministrazione vengono ricordati molti casi di peculato e malversazione. Commodo sperperava infatti il denaro pubblico per allestire combattimenti di gladiatori sia nell’arena che nei parchi pubblici”. I giovani si chiesero se, qualora fossero state imitate le inclinazioni di Commodo in fatto di spettacoli gladiatori, ne sarebbe conseguita una bella immagine amministrativa per le Istituzioni. (Il Piave, Conegliano Veneto, febbraio 2009) .

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                                                           S T R A D E

“Jakob Grimm intendeva per ‘patria’ la terra della quale egli conosceva tutte le strade e tutti i sentieri per averli percorsi da bambino”. Un proverbio dice:”Tutte le strade conducono a Roma”. In realtà esistono anche percorsi che portano lontano da Roma.Nel Veneto ricorrono denominazioni viarie come “Ongaresca”, “Schiavonesca”, “Pagana, “Pelosa”, “Cal Trevisana”, “Furlana”, “Postumia”, “Cal Alta” “Napoleonica”…e infine “Strada Statale n. 13” (Pontebbana). Il riferimento alla topografia, alla storia e soprattutto alle genti che hanno percorso questi tragitti è evidente. Altrettanto eloquenti sono i frequenti cognomi e toponimi. La spiegazione di questa geografia umana è evitata con cura. Lo impone il culto di Santa Ignoranza, patrona degli stupidi. La scuola rimuove argomenti che potrebbero alludere a una eterogeneità socio-storica del Veneto in generale e della Sinistra Piave in particolare. Siffatta informativa sarebbe infatti sospetta di leso centripetismo e accusata, non sia mai, di aver eclissato opere come la via Claudia Augusta o la Julia Augusta. Per la verità non è sempre stato così: L’Olivieri, il Filiasi, il Vital (Conegliano), il Settià (Torino), il Bosio (Padova) ed altri hanno lasciato pagine fondamentali sull’argomento, ma quelli erano tempi in cui la cultura mitteleuropea aveva ancora la dimensione che le spettava e non esisteva ancora l’omologazione non disinteressata. La Cal Ongaresca (via ungarica) merita particolare considerazione. Come è noto, all’alba dell’anno 1001 l’umanità si era svegliata con una grande sorpresa: non c’era stata la tanto predicata e temuta fine del mondo. Si poteva quindi ricominciare a vivere e a muoversi. I pellegrinaggi verso Gerusalemme, Roma e la Galizia costituirono un ininterrotto turismo religioso. Anche la componente economica dei viaggi dovette essere stata notevole, generando non pochi pericoli di furto. Bisognava provvedere. Mentre le città avevano i loro xenodochi funzionanti (centri di accoglienza e assistenza per i transeunti) esistevano tuttavia interdistanze enormi e a rischio. Per sicurezza bisognava ridurre tali distanze. I Benedettini istituirono presso il guado del Piave a Lovadina, con l’appoggio dei Collalto, dei Colfosco e di altri principi franco-longobardi, un punto di ristoro e (perché no?) di difesa per i pellegrini. Molti di questi, forse per malattia, non proseguirono il viaggio verso Roma o Gerusalemme. Si fermarono e furono chiamati Pellegrin, Pellegrinon, Pellegrinet, Turcato, Barbaresco, Schiavon Romier, Forest, Spagnol, Rivaben, Tubiana, Rommel, Carantan, Samogin, Varaschin, Troian, Bordon, Compostella. Altri ritornarono dalla Terra Santa recando qualche palma raccolta nei luoghi sacri e furono chiamati Palmieri, Palmarin, Rusalen, Pasquali. L’istituzione dovette essere molto importante se il Vescovo Robert di Ceneda (così si chiamava l’attuale Vittorio Veneto, poi ribattezzata per spirito di subalternità), dispose nel 1124 che il traghetto del Piave dovesse essere gratuito per gente in transito, uomini d’affari e commercio, longobardi nonché provenienti da Ungheria (Pannonia), Slavonia, Carinzia e Germania, come si legge nel decreto. Diversi dovettero, tuttavia, essere stati i motivi che originarono il nome di “ongaresca”. Non sarebbero bastati i viaggi verso i luoghi santi. Il Re Berengario aveva nominato una strada ongaresca già nell’anno 888. È probabile che la definizione sia da porsi in relazione con le dodici invasioni partite dalla zona tra il Volga e gli Urali, allora impropriamente ritenuta ungarica. Certo è che oltre il Danubio di Buda ed Esztergom (Strigonia) c’era soltanto un nulla misterioso. Le devastazioni furono tanto disastrose da integrare particolari litanie rogatorie per esorcizzare quegli eventi. Residuo di quelle incursioni potrebbero essere i cognomi Ongaro, Dall’Ongaro, Ongarato. Anche la via Postumia, che collegava Verona con Aquileia mediante il rettifilo Brenta – Piave, viene solitamente vista soltanto quale via consolare. In parte è giusto…..- Bisogna tuttavia aggiungere che la denominazione attuale non ha la sola genesi del Console Spurius Postumius Albinus, che nel 148 a.C. destinò la via a scopi militari. Non si può infatti escludere che i Veneti Antichi avessero un precedente collegamento tra le loro città. Il vero nome del Console potrebbe essere stato in realtà “Postumus”, cioè “successivo”. Il significato di Postioma è invece quello di “sosta”. È certo che il toponimo preromano “Postioma (Postojma?)”, vicino a Treviso, con le varianti “Postoi” presso Venezia, e “Postojna/Postumia” in Slovenia, coincidono soltanto casualmente con il nome del Console. Non sembri inoltre esagerato pensare che altre strade siano state genericamente chiamate con l’aggettivo sostantivato “Postumia” in quanto tali, benché lontane dalla via consolare vera e propria. La Codroipo – Udine – Cividale è per esempio tra queste. La circostanza significherebbe che si usava il termine Ongaresca-Postumia per indicare una strada di grande comunicazione, come la Menarè, Camino Real degli ispanici. La via Ongaresca classica ha il seguente itinerario: Lovadina, Pordenone, Codroipo, Gradisca, Mainiza, Bukoviça, Val Vipava, Aidussina, Monti dell’Ocra, Kalce, Castellier di Lubiana, Passo Adrana/Troiane, Zeleja, Poetovio, Kasztely (capo-lago occidentale del Balaton).- Nel territorio cenedese ci sono poi tratti minori, come quello che congiunge il cimitero di Pianzano con quello di Orsago, o quello che attraversa San Fior e s’inoltra verso il Campardo di Pianzano, dove i tramonti sembrano avvicinarsi sempre, ma non arrivano mai. Una “ongaresca granda” partiva da San Giovanni del Tempio, toccava Pordenone, attraversava Sclavons-Cordenons e giungeva a Codroipo facendo vado a Valvason. Oggi è nota come Strada Maestra e la terra attraversata sia sotto il ventissimo della Bora che nel sinistro candore della neve, fa pure parte del pavimento del mondo. Tratti ongareschi mediani e inferiori erano invece rispettivamente la strada “San Polo di Piave – Fontanelle – Codogné – Gaiarine – Brugnera – Tamai – Palse – Porcia – Pordenone” e la strada “Oderzo – Mansuè – Portobuffolè – Prata – Pordenone”.- In conclusione è il caso di usare il plurale quando si parla di via ongaresca, specialmente per l’area sopra le risorgive del Travisano, Cenedese e Pordenonese. Lo stesso viale Ungheria in Udine non sarebbe che un tratto di una “ongaresca” a suo tempo percorsa dai Longobardi per giungere nella Terra Promessa friulana.- Se a Moniego di Noale (Venezia) resiste il vecchio toponimo viario Strada degli Ungheri, significa che anche la Treviso-Padova era ritenuta una “ongaresca” vera e propria. A ponente del Piave si snoda la via Schiavonesca, detta “Marostegana”, che raccoglie tutte le confluenze viarie da Schio-Thiene. Anche questa si innesta nell’Ongaresca, come risulta dagli Statuti di Bassano risalenti al 1259, giungendo dal Vicentino fino a Nervosa e quivi definita Via dei Franchi e dei pellegrini, come ricordato dal Vital.. Un’altra schiavonesca si irradiava tra Postioma e Ponte della Priula. Un’altra ancora collegava Tezze sul Brenta con Selva del Montello scavalcando corsi d’acqua che, nonostante le recenti industrializzazioni, continuano a svolgere il loro ruolo di polmoni del pianeta e di corridoi biologici tra i monti e il mare. (Dialogo Veneto on line, febbraio 2009) (Il Dialogo, Oderzo, marzo 2009).

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LA  GRANDE  GUERRA  TRA  STORIA  E  MEMORIA.

“Storia e memoria non sono sinonimi”.- La memoria è la vita portata da gruppi viventi e quindi in permanente evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia. La storia è invece la ricostruzione problematica e incompleta di quello che non è più. La storia esige analisi e discorso critico. Ci sono tante memorie quanti gruppi e fazioni. Per principio la storia appartiene a tutti e a nessuno. La storia sospetta sempre della memoria. La memoria è una tappa obbligata che deve essere superata come un valico alpino, se si vuole andare da una valle all’altra. E’ faticoso lasciarsela alle spalle. Il passaggio dalla memoria alla storia richiede tempo e intelligenza” (Bernardo Valli, La Repubblica 16 gennaio 2007) Certe guerre non finiscono mai. Continuano nelle domande dei giovani e nei silenzi dei “grandi”. Questa è una voce diversa dalle 43 iniziative programmate nel 2008 per celebrare la fine della Grande Guerra e finanziate con denaro pubblico, ma che in realtà riguardano ben altro. L’evento n. 13 è infatti, per esempio, intitolato “Giornate nazionali del mandolino e della musica a plettro”.-Eppure “Occorre diffidare delle solarità mediterranee quando appaiono in uno splendore eccessivo”, aveva avvertito in anticipo Giuseppe Jannaccone nel GIORNALE del 27 luglio 2007! La “battaglia del solstizio” aveva registrato un iniziale successo austro-ungarico, ma poi nel luglio 1918 le situazione militare si era nuovamente stabilizzata sulle rive della Piave. Entrambe le retrovie erano, invece, esposte a decisive variabili. La coscrizione della classe 1899 significava che la riserva italiana di uomini era esaurita. Gli orientamenti dell’Imperatore Carlo I evidenziavano la rinunzia a ulteriori offensive. Egli riteneva la guerra nient’altro che un’impresa di demolizioni. Nel settore italiano lievitavano rancori, sospetti, abusi, delusioni, repressioni. Una breve rassegna di notizie ne riassume le dimensioni. Si legge nel libro “Memorie di un maresciallo dei carabinieri” curato da Mario Borsoi:”Il Generale (Andrea Graziani) si portò a Treviso con pieni poteri…Nei giorni che seguirono, al mattino, venivano recapitati in caserma, perché fossero esposti e darne così notizia alla popolazione, gli elenchi nominativi dei fucilati del giorno prima: in media dai 20 ai 25 al giorno.- I primi giorni le esecuzioni venivano eseguite nel parco di Villa Margherita a S. Artemio, ed in seguito in un campo a Santa Bona. Le esecuzioni venivano eseguite da un plotone di soldati con fucile; alle loro spalle altrettanti carabinieri a colpi di pistola finivano, poi, coloro che davano segni di vita”.- Lorenzo Del Boca scrive in “Grande Guerra, piccoli generali”: Luigi Cadorna, un pignolo aggrappato a regole e regolette che si comportava come un dittatore e faceva fucilare chi appariva titubante nel correre a farsi ammazzare”.- Curzio Malaparte testimonia che “Chi avesse osato lamentarsi finiva davanti al Tribunale Militare, dove trionfavano disumana insensibilità, servilismo, stupida bestiale ferocia”. E inoltre:”I colpevoli di disfattismo venivano, di notte, prelevati in trincea, ammanettati, trascinati davanti ai Tribunali Militari, che puntualmente ne decretavano la fucilazione”. Non meno significativo è il racconto della Medaglia d’oro Camillo De Carlo nelle sue “Memorie”, che conclude retoricamente:”Mio Dio, perdona, perdona ai nostri eroi, come essi ci perdonano”. Da queste parole si comprende come la storia della Grande Guerra sia un grande obitorio, dove ciascuno viene a cercare i propri morti. Non dovrebbe destare meraviglia che in un tale clima saturo di perplessità, stanchezza e ostilità contro la guerra, la Rivoluzione d’Ottobre sovietica sembrasse un rimedio e un esempio da imitare per cambiare finalmente l’insopportabile stato di cose. La popolazione civile non era estranea a siffatta prospettiva.- Non si dimentichi che la rivoluzione, indotta dallo Stato Maggiore germanico, aveva fatto crollare il fronte russo e concludere l’armistizio di Brest-Litowsk!- Vi sono ben due importanti interviste giornalistiche al riguardo: IL GIORNALE del 14.08.2004 e IL GAZZETTINO del 6 gennaio 2008. Nel settore austro-ungarico la crisi non era militare, ma politica. Non si dimentichi che l’esercito occupava ancora oltre 12.000 km² di territorio avversario!- L’Imperatore Carlo I, sovrano certamente non nato per fare la guerra, aveva deciso di porre termine ad ogni costo alla guerra che egli non aveva voluto, bensì ereditato. Nelle sue “Memorie” pubblicate dal compianto Erich Feigl si legge:”Se gli Imperatori non fanno subito la pace, saranno i popoli a farla, scavalcandoli”. Quale fosse la sua saggia visuale si deduce dalla affermazione:”Se pur in presenza di una nostra grande vittoria, noi non concludessimo subito la pace senza annessioni e danni di guerra, anzi perfino con piccoli sacrifici da parte nostra, finiremmo in una situazione militare non favorevole per cercare la pace, e ciò sarebbe una catastrofe”.- La “grande vittoria”, di cui parlava l’Imperatore, avrebbe potuto essere raggiunta mediante la “battaglia del solstizio”. La prospettiva sarebbe stata tutt’altro che impossibile, qualora avessero avuto luogo fermenti rivoluzionari nelle retrovie italiane, come era accaduto in Russia alcuni mesi prima, appunto. Le premesse non mancavano. Il proletariato internazionale era stato invitato a trasformare la guerra imperialista in guerra civile. A Torino e nelle Marche c’erano stati tumulti con numerosi morti e feriti. Un Generale del Regio Esercito aveva dovuto consegnare la sciabola agli insorti. Non pochi intellettuali aumentavano lo sdegno popolare denominando i cadaveri dei caduti come “buon concime plebeo”, come aveva fatto Giovanni Papini. Il Consiglio Comunale di Milano, presieduto da Filippo Turati, aveva inviato il suo plauso al governo ormai sovietico di Pietrogrado. “Vi sono argomenti che non ammettono la minima confutazione, ma che non suscitano la minima convinzione”, aveva sostenuto David Hume.- Un’indagine della situazione in Italia è pertanto doveroso a questo punto. In tale satura miscela esplosiva mancava in Italia solo l’arrivo di un treno carico di rivoluzionari.- In realtà un convoglio del genere esisteva veramente!- Faceva parte del piano del Colonnello tedesco Wilhelm Nicolai, programmatore della riuscita impresa del viaggio a Pietrogrado, e la destinazione era proprio l’Italia, dove era atteso.- Circolava infatti già dal 1915 una canzone dal ritmo “allegro ma non troppo” comune a un altro inno, che diceva:”Neutrali d’Italia/ l’Italia s’arresta,/ e l’elmo di Scipio/ si leva di testa”.- E poi:”Apriamo le porte/ all’Austria più forte:/avvenga che può” Rileggere i giornali dell’epoca, compreso il Corriere della Sera, per credere.- È il caso di riflettere sulle conseguenza di una rivoluzione in Italia nel 1918.- Il fronte della Piave sarebbe caduto e sarebbe giunta la fine della guerra. Secondo lo stile degli Vienna non si sarebbe tuttavia nemmeno pensato a una vittoria e allo sfruttamento della situazione!-Forse sarebbe giunto piuttosto un aiuto per fronteggiare la sollevazione. Anche l’assetto istituzionale italiano sarebbe infatti profondamente mutato. La monarchia non avrebbe resistito con una politica marxista. La Chiesa avrebbe avuto necessariamente gravi difficoltà in un regime ateo. Un Imperatore e Re apostolico come Carlo I non avrebbe potuto tollerare un simile fatto. La sua esitazione fu fatale al suo Impero. Non fu l’unica volta nella storia. Tito Livio scrive che “l’esitazione di un giorno”, da parte di Annibale dopo la vittoria di Canne, fu la salvezza per Roma. Gli Asburgo erano da sempre convinti sostenitori della Chiesa. Lo stesso Gorge Clemenceau aveva dichiarato che l’Imperatore d’Asburgo era come un papa nella Mitteleuropa. Si tenga inoltre presente che il giovane e inesperto sovrano provava una specie di subordinazione nei confronti del Papa, il quale era a sua volta in difficoltà con lo Stato italiano da oltre 50 anni.- Sarebbe stato pensabile un Concordato della S. Sede con una Repubblica sovietica? L’Imperatore impedì la partenza del secondo treno già pronto alla stazione di Zurigo! Il passaggio attraverso i territori controllati dall’Austria era infatti obbligato per giungere in Italia: le frontiere franco-svizzera e italo-elvetica non sarebbero state infatti superabili.- La circostanza non è stata mai accennata in precedenza, ma essa è degna di attenzione. Si tratta, infatti, di una questione documentata negli Atti del processo di Beatificazione di Carlo I (Summarium del processo canonico pp. 221-222 e Positio super virtutibus et fama sanctitatis, vol. I, pag.255). Dall’orientamento di Carlo I sarebbero derivati non pochi vantaggi. Prima di tutto l’Italia avrebbe evitato una rivoluzione in tempo di guerra. Ne dà atto “Il Giornale” del 14 agosto 2004 con il saggio di Andrea Tornielli “Il Re nemico che salvò l’Italia dal Comunismo”. Poi i Savoia sarebbero rimasti sul trono. L’Intesa avrebbe inoltre potuto spostare dal fronte italiano importanti contingenti militari verso il fronte occidentale, dove c’era ancora una situazione molto critica. Più di tutti ne avrebbe guadagnato la Santa Sede. Poiché “la rivoluzione fu impedita ufficialmente per non danneggiare la Chiesa”, come si legge negli Atti della Beatificazione, si trattava di una carta buona da giocare per giungere al Concordato con l’Italia, a sua volta agevolata dalla positiva fine della guerra.- L’unico svantaggio fu riservato all’Austria già scossa da fermenti rivoluzionari, e ciò fu motivo di biasimo per Carlo I.- Come si sa, quando le cose vanno bene, molti si attribuiscono il merito. Quando le cose vanno male, la colpa è di uno solo. La richiesta di armistizio fu avanzata da un’Austria abbandonata da tutti, ma non sconfitta. Anche il Comando supremo dell’esercito germanico aveva fatto altrettanto tramite il Cancelliere Max von Baden. Si trattava di cessazione delle ostilità, non di una capitolazione come quella che sarebbe intervenuta invece l’8 settembre 1943 per quanto riguarda l’Italia!-Per la precisione, secondo il programma americano, doveva realizzarsi una “pace senza vittoria”. Soltanto più tardi le trattative armistiziali furono stravolte con l’ultimatum del 18 gennaio 1919 (Spiegel, 6.07.2009, pag. 47). Non senza motivo lo storico inglese A.J.P. Taylor avrebbe quindi successivamente scritto nella sua “Storia dell’Inghilterra 1914 – 1945) che “I Tedeschi furono ingannati quasi del tutto”. Non un metro quadrato di territorio austriaco era stato finora invaso dalle truppe avversarie. La capacità operativa dell’esercito austriaco era intatta. Ne è prova l’annotazione nelle “Memorie” dell’Imperatore Carlo I:”Ho spiegato all’Imperatore Guglielmo (di Germania) che, qualora il nemico ponesse condizioni intese a usare il nostro territorio per assalire i Tedeschi alle spalle, le rifiuterei e mi opporrei a un’avanzata italiana alla guida della sola Austria, poiché non si può più contare sulle altre nazioni”.- Si sa bene: “Quando il vecchio cane muore, le fedeli pulci si avventano sui suoi cuccioli”, aveva sostenuto Willam Shakespeare.- “Non bisogna attribuire ai sismografi la colpa dei terremoti”, si potrebbe aggiungere da parte nostra. La disposizione ufficiale di cessare le residue ostilità fu divulgata dal Comando Austriaco alle ore 7,30 del 3 novembre 1918, ma il ritiro unilaterale delle truppe dalla riva sinistra della Piave e la effettiva cessazione dei combattimenti da parte austriaca erano già cominciati nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 1918.- Tale tregua unilaterale era stata anticipata dalla liberazione di prigionieri di guerra italiani, come risulta dalle informazioni di mons. Giuseppe Lozer, parroco di Torre, e dall’Archivio di Stato udinese. Si converrà che fu una prassi insolita durante un conflitto. Questa era apparsa l’unica modalità per disarmare effettivamente la guerra.- L’Imperatore non brillava per prudenza. Non aveva nemmeno pensato per la sua famiglia. Non aveva imparato nulla da Hans Christian Andersen. Il grande favolista danese era infatti solito portare con sé un gomitolo di robusto filo di canapa per calarsi dalla finestra in caso d’incendio. Non è possibile intuire se, nel convulso mutare degli avvenimenti, fosse allora emersa nei responsabili la prospettiva che la fine dell’Impero Asburgico avrebbe potuto anche significare il via libera all’islamizzazione dell’Europa. L’attualità consiglia tuttavia che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è bene controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse. Il testo dell’armistizio era stato trasmesso al generale Diaz già in data 31 ottobre 1918. Era chiaro che i Servizi austriaci ne avevano avuto notizia, essendo parte in causa. Poiché erano quindi in corso trattative per l’armistizio (le cui condizioni peraltro erano state rese note parzialmente a Vienna soltanto il 2 novembre, in quanto il differimento dell’entrata in vigore al 4 novembre fu unilaterale e pretestuosamente successivo), era veramente inutile e assurdo continuare a far morire soldati di entrambi gli schieramenti.-“In questa situazione tutto era meglio piuttosto che combattere. Ritengo che i parenti di quei soldati, che furono fatti prigionieri invece che essere uccisi inutilmente, approvino oggi la decisione del Comando Supremo dell’Armata, che tramite l’armistizio ha mantenuto in vita i loro cari”, si legge infine nelle “Memorie” di Carlo I.- Altro che ninne nanne suonate con un trombone, “Canzone del Piave” inclusa, la quale è meno originale di quanto si ritenga!-Il giovane ufficiale ungherese Antal Lehar aveva infatti composto nel febbraio 1918 una “Marcia del Piave” per il suo 106° Reggimento operativo nella zona di Oderzo. Non sentendosi in grado di scrivere le note, egli ricorse al proprio fratello: Franz lehar, il compositore della “Vedova allegra”!- La “Canzone del Piave” italiana risale al giugno 1918. Se si vuole parlare di sconfitta, allora si sappia che l’Austria si è sconfitta da sola e per la pace, mentre Gabriele D’Annunzio scopriva il “fetore della pace”!- Se si vuole parlare di vittoria italiana a Vittorio Veneto, allora si tenga conto che chi vince senza pericolo, trionfa senza gloria, come aveva sostenuto Pierre Corneille.- La città fu raggiunta dalle truppe italiane il 30 ottobre 1918, quando i contingenti austro-ungarici si erano già ritirati. Sul portone di Palazzo De Carlo era ancora affisso il cartello che tutti gli oggetti d’arte e di valore erano stati inventariati e posti sotto la vigilanza del Comando Tappa. L’inventario di cui trattasi era stato lasciato in vista sul tavolo del salone, in modo che chiunque potesse constatare che nulla mancasse. Successivamente l’inventario sparì…- Dove sta quindi la “vittoria”?- Lo spiegò Giuseppe Prezzolini a pagina 34-35 della sua opera “Vittorio Veneto”:”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani devono lasciarsi dire”.- Giuseppe Prezzolini fu il fondatore della famosa “Congregazione degli Apoti”, cioè di quelli che non la devono facilmente.- Era loro convinzione che l’intelligenza non potesse essere confusa con la furberia. Qualora ciò non bastasse, ci sarebbe la constatazione che il 4 novembre non viene festeggiato nelle altre nazioni, che pure hanno avuto numerose perdite sul fronte italiano, ma che per coerenza festeggiano l’11 novembre, data della vera fine della Grande Guerra..- Tutto ciò vale naturalmente se la storia è considerata un tempo provvisto di senso, come è giusto che sia.- Non vale invece in un’ottica perversa, secondo la quale “in guerra c’è chi marcia e chi ci marcia”. – Bisogna essere prudenti quando si parla di vittorie. Nel luglio del 1945, mentre due bombe atomiche destinate a Hiroshima e Nagasaki venivano caricate sugli aerei alleati, il Governo italiano presieduto da Ferruccio Parri dichiarò eroicamente guerra al Giappone. Anche in questo caso sarebbe stata riportata una vittoria. Esistono individui che ne sono orgogliosi. Il Pontefice Benedetto XV era coinvolto al pari dell’Imperatore nella volontà di pace. Egli potrebbe quindi aver privilegiato la sorte personale del monarca austriaco certamente in considerazione della sua profonda situazione di fede, ma anche per avere in definitiva reso possibile sia la pace, sia gli auspicati orientamenti italiani in caso di un successo militare in tal modo conseguito.- In altre parole, e mi si perdoni il peccato di memoria, il Papa potrebbe avergli promesso in cambio la beatificazione. Sarebbe stato un impegno tale da non lasciare indifferente un uomo come Carlo I, specialmente se integrato dalla prospettiva, con comodo, di un uguale trattamento per l’amata consorte. Sono congetture, naturalmente, ma se esse avessero un minimo di fondamento e coincidenza, la prima parte della promessa sarebbe stata mantenuta il 3 ottobre 2004. Per la seconda parte c’è ancora tempo. Specularmene, o contestualmente, lo Stato della Città del Vaticano sembrerebbe un’invenzione italiana intesa ad esprimere la gratitudine per la “vittoria” nella Grande Guerra. A questo punto si potrebbe non senza ragione obiettare che il nesso tra causa ed effetto nel paradigma “fine agevolata della Grande Guerra e Concordato con la S. Sede”, non regge. Tra l’inizio di novembre 1918 e l’11 febbraio 1929 ci sono infatti quasi dieci anni e mezzo. Un tempo decisamente troppo lungo. È vero. Ma un primo incontro tra il Cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, e Benito Mussolini, allora deputato, ebbe luogo nel gennaio 1923. Lo rende noto un articolo di Benny Lai su “Repubblica” del 25.2.2007. Il tempo trascorso sarebbe allora di quattro anni e tre mesi. Se si trattasse di un accordo definitivo, come fu poi la Conciliazione, il periodo potrebbe anche essere accettato nel rapporto causa-effetto in prospettiva di interrogazione del possibile, ma esso appare nuovamente ancora troppo lungo per un semplice preliminare. In realtà il regime liberale italiano aveva tentato un accordo col Vaticano già nel 1919. Vittorio Emanuele III non concordò, sebbene avesse avuto validi motivi per farlo. Lo afferma Francesco Margiotta Broglio, storico e presidente della Commissione di attuazione del Concordato. Un’informativa più ampia sull’argomento è reperibile in “La conciliazione con la Chiesa Cattolica” (V° DVD di “La storia del Fascismo”, in vendita con il Corriere della Sera dal 12.5.2008 a Euro 9,90).- La relazione tra causa ed effetto nel caso di specie quindi sussiste, e come!- Essa dovrebbe essere anzi pubblicizzata, se si vuole togliere qualcosa alla storia grassa, per dare alla storia sacrificata. Il filosofo Massimo Cacciari, Sindaco di quella Venezia ridotta da capitale a prefettura, mette in guardia dalla storia politicizzata:”Il fine che l’azione politica persegue può non essere in alcun modo misurabile in termini di utilità; può esprimersi in rituali (e sacrifici) perfettamente inutili”. Dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di quanti sono degni della verità. Alla intelligenza di quest’ultimi non sembri esagerato il concetto di vittoria proposto da Ernest Hemingway, che pure aveva partecipato alla Grande Guerra. Lo scrittore racconta nella sua opera “Il vecchio e il mare”, che un vecchio pescatore non catturava più pesci da 84 giorni. All’improvviso un pesce spada enorme abboccò alla sua esca. Seguirono tre giorni di lotta per tirarlo nella barca. Alla fine una sconfitta apparve nella vittoria: fu recuperato soltanto un grande scheletro, poiché la preda era stata divorata dagli squali. In conclusione assume autorevole significato l’avallo delle sopra citate tesi l’articolo pubblicato a pag. 34 del ”Sole – 24 Ore” in data 7 settembre 2008 con il titolo emblematico:”4 novembre: fu vera vittoria?”. È forse giunto il tempo per le persone ragionevoli, di inserire nel pensiero un nuovo principio: “Non sempre i vinti hanno torto”. Termino con le forti parole di Claudio Magris, pubblicate nel Corriere della Sera del 25 settembre u.s.: “Chi crede di aver vinto non spera, perché si illude di avere già ottenuto ciò che voleva. Ma chi crede di aver vinto definitivamente, di avere stretto con la vittoria un matrimonio indissolubile, diventa facilmente – scrive Manès Sperber – un ridicolo “cornuto della vittoria”.

M A R C O   D’ A V I A N O   E  L A   S A L V E Z Z A   D’ E U R O P A

Non ci si pensa mai. Tuttavia, se la seconda guerra mondiale fosse terminata in maniera diversa, taluni protagonisti sarebbero stati fatti probabilmente beati e santi.- Una situazione del genere potrebbe essersi verificata 262 anni prima, vale a dire all’epoca del secondo assedio turco di Vienna. Il 1 aprile 1683 si mosse la spedizione militare osmana contro Vienna. La comandava il Sultano Maometto IV. I contingenti erano giunti da tutta la Turchia, dall’Alta Mesopotamia, dal Delta del Nilo, dai Balcani e perfino dal sud-ovest della Russia. Le truppe dell’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo, benché prive di artiglieria, erano state allertate. I comandanti erano tuttavia discordi e gelosi. La Francia parteggiava per gli Osmani. Il Papa esprimeva la propria preoccupazione, ma tollerava che il cardinale di curia Aleramo Cibo tramasse con gli avversari. I Principi cristiani e Venezia stessa erano titubanti. L’Imperatore Leopoldo chiese allora consiglio a Padre Marco d’Aviano. Il frate incontrò il regnante il 1 settembre 1683 a Linz. La prospettiva appariva praticamente disperata per il Sacro Romano Impero. Vienna era assediata dagli Osmani e funestata da fame, paura, epidemie. La capitale sarebbe caduta entro breve tempo. Contro ogni previsione Padre Marco riuscì a portare la concordia tra i condottieri cristiani, aggiungendo nuovi contingenti polacchi guidati dal Re Jan Sobieskj. L’esercito imperiale poteva contare su 70.000 combattenti e la battaglia per la liberazione di Vienna poteva cominciare. Del frate friulano si può a ragione dire che “seguì la croce senza vantarsi di averla portata”, come si legge nella targa stradale della via a lui dedicata a Conegliano Veneto. Si cerca di far passare la notizia sotto silenzio, ma in quella circostanza c’era, oltre a Padre Marco, un altro religioso sotto le mura di Vienna: Islam Ahmet Bey. Il nome non deve trarre in inganno. Si trattava infatti di un frate cappuccino coetaneo di P. Marco, appartenente alla stessa Provincia Veneta e probabilmente con pronuncia dei voti contemporanea a quella dell’avianese. Egli non aveva tuttavia seguito la via della predicazione, come aveva fatto il collega. Convertitosi all’Islam, era diventato esperto in esplosivi e si sarebbe anche recato furtivamente nella città per studiarne le difese e meglio progettare l’attacco. Non si tratta di un personaggio di incerto profilo. La stessa rivista dei Cappuccini “Collectanea Francescana” gli dedicò nel numero 64 (1° quadrimestre 1994) un saggio di ben quindici pagine. Il 12 settembre 1683 infuriò il combattimento. L’esercito cristiano vinse e gli Osmani subirono una grande sconfitta. Grande merito nella liberazione di Vienna fu giustamente attribuito a Marco d’Aviano. Il ricordo di Islam Ahmet Bey svanì immediatamente e anche gli archivi dell’Ordine Cappuccino non conservano tracce. Non sembri quindi malizioso porsi la domanda:”Se gli Osmani avessero vinto, di chi sarebbe stato il merito?”- “Di Islam Ahmet Bey, naturalmente”, sarebbe la risposta. Come è noto, qualsiasi collocazione tra Dio e Cesare comporta qualche prudenza, non fosse altro che per l’inevitabile duplice pagamento. Anche in questa occasione a pensar male si commette quindi peccato ma si indovina, come è stato autorevolmente sostenuto. A questo punto sembrerebbe giustificato un dubbio. Un Cappuccino sarebbe stato assegnato all’esercito imperiale quale esperto ed abile coordinatore; un suo confratello avrebbe potuto invece facilitare la conquista di Vienna, facendone saltare le mura con gli esplosivi. Comunque fossero andate le cose, il Papa si sarebbe comunque trovato dalla parte del vincitore! Vinsero gli Europei e P. Marco fu proclamato Beato nel 2003. Piacerebbe poter affermare che il miracolo, indispensabile per ottenere l’elevazione alla gloria degli altari, avrebbe potuto consistere nell’opera di convinzione del religioso propedeutica alla vittoria stessa. Si pensò, invece, a una prodigiosa guarigione avvenuta nel 1941 per sua intercessione e certificata da eminenti studiosi nonché dal Dott. Ennio Ensoli, il quale espresse, tra l’altro, anche il giudizio conclusivo su un altro prodigio riguardante la miracolata Suor Sergia de Carlo. Più complicata sarebbero, invece, apparse la procedura di beatificazione per Islam Ahmet Bey e la contestuale scomparsa di Marco d’Aviano dagli archivi dei conventi, qualora avesse vinto Maometto IV. Forse non si sarebbe giunti proprio alla beatificazione, ma la sua opera sarebbe stata comunque sfruttata per altre credenziali presso i vincitori in considerazione della sua appartenenza alle istituzioni religiose. (Il Piave on line, Conegliano Veneto, 11 agosto 2009).

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IL  LAVORO  MINORILE  NELLA  GRANDE  GUERRA.

“L’opinione pubblica, priva di scrupoloso esame dei fatti, non è nemmeno un’opinione, è semplicemente un atteggiamento; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto” (Mark Twain).

Gli eserciti combattenti abbisognavano di grandi rifornimenti nel quinquennio 1914 – 1918. Il fronte si trovava spesso in zone impervie prive di vie di comunicazione. Retrovie e fortificazioni dovevano essere adeguate alle esigenze. Il Segretariato Generale organizzò quindi l’assunzione di manodopera civile tramite le prefetture e i comuni. Poiché era stata sospesa la possibilità di emigrare all’estero, il reclutamento ebbe successo. Poter mangiare tutti i giorni e percepire un compenso in denaro erano motivi di attrazione. Non si dimentichi che le famiglie dei richiamati alle armi perdevano il diritto al sussidio appena un figlio compiva dodici anni. Ogni gruppo era composto da trenta lavoratori coordinati da un caposquadra. Il contratto prevedeva un periodo di tre mesi, un orario dalle 6 alle 12 ore giornaliere, una retribuzione tra le 3 e le 8 lire l’ora oltre a vitto e alloggio. Dalla estate del 1915 furono impiegati anche ragazzi dai 15 ai 17 anni. L’età fu successivamente ridotta di ulteriori due anni. Non mancavano ragazzi di 10 e 12 anni. La paga oscillava tra i 10 e i 20 centesimi l’ora e le condizioni di lavoro erano severissime: si trattava di un vero e proprio altro esercito impiegato nella preparazione di trincee, strade, servizi logistici, campi di aviazione, trasporti di viveri e materiali, rimozione della neve dalle strade dirette al fronte, taglio di legname. Ogni insubordinazione veniva punita duramente. Bastava il sospetto di fraternizzazione con elementi socialisteggianti per dare adito a bastonature, pestaggi, legature e carcerazione preventiva, nonché per la denuncia a tribunali militari. Comparve allora l’accusa di rivoluzione passiva, termine peraltro già introdotto da Vincenzo Cuoco.- Molti adolescenti furono impiegati nei lavori di canalizzazione ai fini di consentire il rifornimento via acqua le truppe schierate sul Piave e la popolazione della provincia di Venezia. Nelle zone montane si fece ricorso anche al lavoro di bambine e ragazze. La loro retribuzione giornaliera poteva raggiungere anche le tre lire per dieci ore di lavoro in condizioni estreme. Trattandosi di maestranze locali, non sussisteva tuttavia il diritto al vitto gratuito. L’età minima di assunzione era di 13 anni, ma non mancarono bambine di appena 11 anni. In tale contesto si inquadra il caso delle “portatrici carniche”. In certe “zone di guerra” il trasporto (30 – 50 chili di viveri, reticolato, vestiti, pagliericci…) poteva essere effettuato soltanto a spalla. Si può dire che non pochi rifornimenti alle truppe furono assicurati da maestranze femminili. Le “portarici” divennero un’immagine retorica di patriottismo, peraltro decaffeinata dal maschilismo fascista. I riconoscimenti per il supposto esempio di buona educazione coloniale giunsero soltanto nel 1978, dopo l’accertamento che le superstiti erano pochissime e che quindi si poteva concedere loro il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto” con la relativa, simbolica indennità. Si parlò di spontanea dedizione a una patria lontana di cui esse non avevano la minima idea, ma la realtà fu diversa. A nessuno piace rischiare la vita lavorando in zone di guerra. Suvvia: c’erano sia il comprensibile bisogno di guadagnare qualcosa, sia la precettazione forzata italiana specialmente in Cadore!- Lo dimostra il fatto che, dopo la disfatta di Caporetto nel 1917, le stesse portatrici prestarono spesso e volentieri servizio per l’armata austro-ungarica in condizioni difficilissime, conseguenti anche alle devastazioni operate dalle truppe italiane in ritirata. Non si potrebbe, infatti, spiegare con lavori forzati l’esecuzione di talune opere stradali, come il tratto Trichiana – Tovena attraverso il Passo di San Boldo.- Per altre categorie vigeva invece un’altra forma di reclutamento più dirigistico, che riguardò 72.000 lavoratori per 129 giornate ciascuno. Le nuove condizioni di lavoro non furono tuttavia migliori del trattamento precedentemente offerto dall’esercito italiano. L’Austria-Ungheria era in gravi difficoltà alimentari e il vitto era diventato precario. La retribuzione perdeva, inoltre, potere d’acquisto a causa della svalutazione. La “Reale Commissione di inchiesta sulla violazione al diritto delle genti commesse dal nemico”, disposta dal Governo italiano, non mancò di evidenziare le carenze. Tra le irregolarità riscontrate figurarono proprio la punizione di ogni atto di insubordinazione e l’utilizzo di civili in zona di guerra, eventualità proibita dalla Convenzione dell’Aja. Gli ispettori erano esperti in tale settore, avendo essi stessi per primi sistematicamente contravvenuto alle norme internazionali e alle consuetudini comuni durante ogni conflitto. Il proverbio dice che il potere perde il lupo ma non il vizio, o qualcosa di simile. Si sa:”Con i nemici le leggi si applicano; con gli amici le leggi si interpretano”, aveva sostenuto Giolitti.

                                                                                                STATO  E  NAZIONE

Il 17 marzo 2011 sarà celebrata la nascita dello Stato Italiano, cioè di un fatto politico ed istituzionale e pertanto soggetto alle mutazioni politiche ed istituzionali che la storia produce. Non è la prima volta che si festeggia. Nel 1966 ci fu il 100° anniversario dell’annessione del Veneto. Le date sono esatte: 1896 – 1866, un secolo. Fu allora emesso un francobollo commemorativo da £. 40.- Se la seconda guerra fosse terminata in un modo diverso da come avvenne, sarebbero senz’altro, per esempio, coinvolte nei festeggiamenti del 2011 anche Somalia, Libia, Etiopia, Istria, isole greche…, per le quali i 150 anni non risultano in alcun modo (1870, 1898, 1911, 1935…: aggiungendo a queste date 150, risulterebbero 2020, 2048, 2061, 2085…, ma mai 2011).- La storia ha invece disposto diversamente e il problema per le ex colonie non si pone. Diverso è il caso del Veneto, del Lazio e del Trentino/Südtirol. I 150 anni dalla annessione all’Italia cadrebbero rispettivamente nel 2016, 2020 e 2069. Nel 2011 non ci dovrebbe quindi essere alcun coinvolgimento, se la matematica non è un’opinione. Se nel 2011 si festeggia i 150 anni trascorsi dalla data di un avvenimento, questo fatto deve essere accaduto per forza nel 1861. L’appartenenza propedeutica delle attuali regioni al contesto politico italiano è insostenibile sia geograficamente sia storicamente. Alcuni territori non appartengono alla penisola, ma sono continentali a tutti gli effetti: i popoli di acqua dolce non appartengono a una penisola!- Da sempre alcune regioni furono inoltre monarchie dinastiche (Regno delle Due Sicilie, Regno di Sardegna, Ducati e Granducati) o elettive (Regno della Chiesa), mentre la Serenissima fu sempre una repubblica. Il Veneto appartenne poi al Regno Lombardo – Veneto, ma si trattava di una realtà asburgica come quella di Vienna, Cracovia e Budapest, non italiana. Poiché l’ipotesi statale non regge, si tenta di supplire con l’affermazione che l’Italia esisteva molto tempo prima come Nazione, cioè come fatto di cultura. Si pesca nei secoli XII e XIII, e anche prima, per fissare una unitaria realtà di coscienza e di lingua nella letteratura. Sia chiaro: il principio dovrebbe riguardare soltanto l’unità d’Italia, ignorando altre simili situazioni (Alsaziani, Lorenesi, Catalani, territori contigui a Belgio, Olanda e Danimarca, Sudtirolesi, Sloveni del Friuli…- La lingua sarebbe il cemento della nazione italiana. L’indicazione dei critici italiani sembrerebbe a prima vista incontestabile, ma così non è. San Francesco, il misterioso Cielo (Ciullo) d’Alcamo, il Dolce Stil Novo… sono segmenti degni del massimo rispetto, ma non evidenziavano coesione e convergenza di pensiero in tutto lo Stato. I contemporanei Poeti provenzali, provenienti dalla regione tra la Durenza, il Rodano, le Alpi e il mare, erano altrettanto determinanti nonché pionieri della lirica in volgare. Il loro fu un successo europeo. Lo prova l’antologia provenzale-veneta raccolta per Alberico da Romano da Uc de Sain-Circ, contenente 1045 poesie trovadoriche. Sordello da Goito, pure contiguo ai da Romano, realizzò pregevoli composizioni in lingua provenzale. Importanti furono Percivalle Doria, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo, Rambertino Buvatelli, Bartolomeo Zorzi. La Scuola siciliana contava su Jacopo da Lentini, Stefano Protonotaro, Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Ronaldo d’Aquino, Giacomo Pugliese. La scuola non li nomina mai, vero?- Forse perché non scrissero in toscano, ma in vernacolo. Verna era infatti lo schiavo nato da una schiava nella casa del padrone.- Qualora fossero inoltre pervenuti documenti sui trovatori Obizzo Bigolino e Ferrarino Trogni, rispettivamente trevigiano e ferrarese, disporremmo forse di importanti elementi su quella che era chiamata “Ars nova”, sviluppatasi poi a Firenze soltanto nella seconda metà del 1300. Gaia (1270 – 1311) e Beatrice da Camino promossero la poesia provenzale nelle corti caminesi. Cangrande della Scala (1291 – 1329) fece altrettanto presso la corte scaligera. E si potrebbe continuare. L’inclusione della poesia provenzale nella letteratura italiana, magari considerandola quale catalizzatore della nazione italiana, equivarrebbe a sostenere che quella arte fu contemporaneamente comune a due diverse nazionalità: francese e italiana. Una contraddizione in termini. Un poco più a nord si sviluppava la grande produzione poetica di Walther von der Vogelweide (1168 – 1228) e Oswald von Wolkenstein (1377 – 1445), destinata a espandersi fino ad Aquileia e in Germania. Ma entrambi scrissero soltanto in medio alto tedesco!- Ancora un poco verso oriente troviamo in Friuli Tommasino dei Cerchiari (1216 – 1238), ma anche questo poeta scrisse esclusivamente in medio alto tedesco. Si noti come sia stato possibile includere successivamente le rispettive regioni nello Stato, ma queste rimarrebbero comunque escluse dalla configurazione nazionale italiana. Una bella confusione. Una lingua comune, veicolo della letteratura, fu in realtà inesistente. Le parole sono infatti contenitori di cultura che sommano quasi tutte le loro origini. L’anima consiste nelle parole e nel come esse vengono pronunciate, nel loro suono e voce. La lingua parlata non è una funzione, ma un organo dell’essere umano. Oltre alle parlate neoromanze soffuse di longobardismi e attualmente confinate nella oralità, erano floridi nel Medioevo l’occitano, il ladino dolomitico e orientale friulano (che non hanno ancora esaurito la loro vitalità), le parlate walser, mochene, cimbre…- Se ora qualcuna di queste lingue si scrive nuovamente, si tratta di una neo-lingua, cioè di una letteratura non menzognera. La lingua toscana si è poi imposta in tempi recenti, ma essa non era altro che il dialetto di Firenze (cui appena possibile non fu risparmiato il destino di passare da Capitale a semplice Prefettura), come in Francia il francese era il dialetto di Parigi (conservata come Capitale). Nel 1860, fuori di Toscana, meno del 6% parlava italiano (Tullio De Mauro). Le differenze linguistiche in Italia esistono ancora. Si passa con disinvoltura dalle incomprensibili “convergenze parallele”, agli ineffabili cartelli sulle porte di alcune presidenze scolastiche o di ristoranti durante la pausa di mezzogiorno:“Il Preside è fuori posto” e “Chiuso per pranzo”, a seconda dei casi. Non si spiegherebbe altrimenti come i film “Gomorra” e “Bagheria” siano stati provvisti di sottotitoli. Notevole risultato di unità interna operata dalla lingua costituisce intanto anche l’affermazione pubblica della vincitrice di un importante concorso nazionale di bellezza:” Ho fatto un zogno”. Pazienza. Il proverbio dice che val più la natica che la grammatica, o qualcosa del genere. La ricerca di origini nazionali basate sulla lingua fin dal 1200, magari integrata da una innaturale prospettiva di omogeneizzazione delle corde vocali, appare pertanto colma di incertezze. In ogni caso i popoli non avevano alcuna coscienza della categoria culturale, cui i loro linguaggi, magari intrisi di espressioni adenoidi, appartenevano. Tanto varrebbe addurre il pretesto di una religione comune per estendere a estranei i tratti di uguaglianza che non posseggono, ma che potrebbero diventare politicamente utili a qualcuno. I sostenitori di certe crune senza ago sembrerebbero vecchi zii bisognosi di aggiornamento. Platone sostiene infatti, nella parte finale del “Fedro”, che il vero mezzo di comunicazione non è lo scritto, bensì l’oralità. La scrittura può ospitare l’la comunicazione orale. Non sembri esagerato pensare che, se “il linguaggio è una finestra per analizzare idee che hanno radici più profonde del linguaggio stesso”, cioè precedenti perfino alle proclamazioni degli Stati, una finestra rappresenta spesso anche la migliore via di fuga per uscire da situazioni di disagio. Le celebrazioni del 2011 possono avere luogo, se esistono i finanziamenti, ma sarebbe necessario che anche la scuola, come parte della stampa ha fatto, si mobilitasse per chiarire alla gioventù alcuni aspetti: – La proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861 fu effettuata in lingua francese e il pretesto di una base linguistica comune viene pertanto a cadere; – Vittorio Emanuele II entrò a Milano nel 1859 con a fianco l’Imperatore Napoleone III e con alle spalle l’esercito francese in assetto di guerra; – Giuseppe Garibaldi conquistò il Regno Borbonico e dichiarò già nel 1860 Salemi prima capitale d’Italia con il sostegno delle navi inglesi, con il denaro della Massoneria internazionale e grazie alla corruzione dei comandanti avversari: tutti ingredienti non italiani; – Il Veneto fu dato come regalo dai Francesi all’Italia nel 1866. In cambio l’Italia si sarebbe impegnata a non richiedere la restituzione delle opere d’arte e dei valori razziati ovunquda Napoleone I.- L’Austria rispettava gli accordi internazionali intercorsi, ma rifiutava la cessione diretta della regione agli sconfitti. Le truppe imperiali avevano infatti battuto le truppe italiane (che soltanto dal 1879 si sarebbero poi chiamate “Regio Esercito”) sia a Custoza sia a Lissa. Il comportamento austriaco fu quindi corretto. – Se la Francia non fosse stata costretta dalla minaccia prussiana a ritirare le truppe destinate alla difesa di Roma nel 1870, la breccia di Porta Pia non ci sarebbe stata. Alla età di 150 anni un Paese dovrebbe essere abbastanza adulto per sapere come sia nato. (Pubblicato da IL PIAVE ON LINE, ConeglianoV., 22 settembre 2009) ……………………………………………………..

S A N   G I R O L A M O   D E G L I   I L L I R I C I

“Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l’unocontro l’altro. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell’Ars poetica dà questi stessi precetti al traduttore colto:”Non ti curerai di rendere parola per parola, come un traduttore fedele”. (Epistulae, 57,5). Quando un personaggio diventa famoso, parecchie località proclamano la loro contiguità con la sua vita, a cominciare dalla nascita. È così anche per S. Girolamo. Potrebbero essere prese in considerazione perfino la città di Esztergom/Strigònia-Gran (a metà strada tra Komaròm e Budapest) e il paese di Grahovo (Bosnia). Esztergom ha una cattedrale che compete con San Pietro a Roma, è sede del Primate d’Ungheria e fu pesantemente coinvolta nella guerra contro i Turchi del 1683, nella quale fu protagonista Marco d’Aviano. Anche l’architetto cenedese Marco Casagrande (1804 – 1880) vi si prodigò al meglio con la sua arte. Sue erano infatti le statue dei santi alte sei metri presso la basilica primaziale di Esztergom, attualmente non più visibili poiché costruite con una pietra inadatta. La sua consorte ungherese divenne poi valida e stimata maestra dei bambini di Miane in provincia di Treviso. Le strade Ongaresche e Schiavonesche erano veramente elementi di unione tra le Venezie e l’Est europeo anche se la scuola paracadutata nelle nostre contrade lo ignora. Per esclusione due sarebbero tuttavia i luoghi di nascita del Santo: Stridò e Stridone. Il primo paese si chiama in sloveno “Stročja Ves”; il secondo è “Žrenj” in croato. Una breve precisazione topografica. Stročja Ves si trova nella Slovenia orientale nei pressi di Ljutomer e nelle vicinanze c’è la località di Strigova.- Žrenj è invece un piccolo paese dell’Istria interna a poca distanza da Buzel (Pinguente). Si tratta di territori oggetto in passato di vari appetiti. Ogni nuovo padrone diventava padrino (non nel senso mafioso, bensì in quello di battezzatore) e imponeva pertanto la toponomastica che gli era gradita. I notari romani e imperiali, scarsi in grafia e fonetica ma forti di vanitosa presunzione, interpretavano a modo loro la dizione delle popolazioni locali. Anche in tempi più moderni si pensi a Ceneda (diventata Vittorio Veneto) o alla sistematica riconversione della toponomastica sudtirolese, che talvolta include anche le eterne montagne con risultati veramente incredibili. Eppure la cartografia conta come la cronologia. Lo spazio conta almeno quanto il tempo. San Girolamo nacque a Stridone verso il 340 d.C.- Egli era quindi appartenente alla nazione illirica o un “barbaro”, come erano chiamati allora gli abitanti dei territori che non disponevano di città eterne e dove non vivevano romani e cristiani, ma soltanto romanizzati e cristianizzati. Dovette appartenere a una famiglia piuttosto benestante, se poté recarsi a Trier (Germania) per imparare il latino presso quel convento. Tale circostanza giustifica il desiderio di sapere quale lingua egli parlasse. Si sa bene come funzionano certi studi all’estero. Se un giovane va, per esempio, a Londra o a Berlino per imparare l’inglese o il tedesco in una pizzeria, apprenderà una lingua vesuviana, ma non quella di Shakespeare o di Goethe. Così andò con il latino di S. Girolamo. Il giovane venne quindi mandato a Roma, dove conobbe e censurò la corrotta esistenza della città. A circa 20 anni fu battezzato. Se si era convertito, significa che egli non era cristiano, ma pagano. Erano tempi di aspre contese tra l’Imperatore Costanzo, sostenitore dell’Arianesimo, e il Papa Liberio, difensore dell’ortodossia proclamata nel Concilio di Nicea. Era anche l’epoca successiva a una nuova fase della storia imperiale romana. Nel III secolo si erano infatti succeduti parecchi Imperatori illirici, imposti talvolta con mezzi spregiudicati dai propri soldati: Decio (249-251 d.C.), Aureliano (270-275d.C.), Aurelio Probo (276-282 d.C.), Diocleziano (284 d.C.).- Proprio ai tempi di S. Girolamo ci fu un notevole episodio che evidenziò il protagonismo degli Illirici. A Rimini doveva essere ricostruito un ponte. Dalla isola illirica di Rab (Arbe) giunsero allora alcuni esperti tagliapietre. Tra questi c’era il pagano Marino, che si convertì e venne poi ordinato diacono presso Urbino. Egli si ritirò, insieme ai suoi compagni, sul monte Titano dove visse da eremita. La sua fama e i suoi prodigi attirarono nella zona una gran massa di pellegrini, i quali formarono gradualmente una significativa comunità di gente industriosa e pacifica, concretatasi col tempo nella Repubblica di San Marino. L’irrequieto S. Girolamo frequentò assiduamente Aquileia ma successivamente, dopo essere stato ordinato sacerdote in Antiochia nel 374, condusse una vita da eremita nel deserto della Siria e dedicò il suo tempo allo studio delle Sacre Scritture. Ci fu un ritorno a Roma, dove fu segretario di Papa Damaso, ma alla morte del Pontefice egli ritornò in Oriente. La morte lo colse nel 419 (o nel 420) a Betlemme in età considerata molto avanzata per quei tempi. Le capacità intellettuali di S. Girolamo furono eccezionali. Egli tradusse in latino la Bibbia nella configurazione che poi sarebbe stata denominata Vulgata e che soltanto nel XX secolo fu sostituita da altre traduzioni. Papa Damaso gli affidò poi, nel 390, la revisione dei testi dei Vangeli. Numerosi furono i trattati scritti da S. Girolamo, tra i quali il “De viribus illustribus” e “Adversus Iovinianum”. Il Santo appartenente alla stirpe illirica e intransigente oppositore del consumo di carni, dovette essere di temperamento piuttosto forte. Di lui rimane infatti la frase irascibile: “Parce mihi domine, quia dalmata sum”.- Bisogna chiarire che cosa si debba intendere per Illiria. Tra le varie definizioni consolidate fin dal V secolo a.C. sembra più verosimile quella risalente al periodo augusteo. Con il termine Illyrioi si designavano numerose popolazioni residenti tra l’Adriatico e le Alpi, dalle foci del Timavo fino al fiume Drin. Il Regno Illirico fu diviso soltanto nell’anno 8 d.C. tra la Pannonia e la Dalmazia. Ricomparve nell’antica dizione di Regno Illirico nel periodo asburgico, cioè nel 1816. La sua configurazione sarebbe stata: Carinzia occidentale,Carniola, Istria, Croazia sino a Zagabria e Sisak, Dalmazia sino alle Bocche di Cattaro. Il termine Illiria ebbe anche rilevanza religiosa: il Vescovo di Gorizia fu nominato “Metropolita d’Illiria nel 1830). Gli Illiri furono gli antenati degli Slavi meridionali e matrice dei Veneti Antichi (Mitja Guštin, Università di Koper/Capodistria). Ciò può contribuire a superare alcune eventuali confusioni. Una conferma che Žreni/Stridone (in dialetto “Sdegna”, situata nel triangolo Aquileia, Lubiana, Quarnero) sia stato il paese natale di S. Girolamo, proviene dal fatto che il personaggio fu spesso a Aquileia, Concordia e Altino. Le indicazioni che egli fosse di origine dalmata o quasi ungherese non sono perciò fondate. Non è certo che cosa nell’antichità si intendesse per Dalmazia e Pannonia. La cartografia era piuttosto un “sentito dire” oppure una copiatura di errori precedenti.- Secondo A.H.M. Jones la Dalmazia confinava con l’Istria interna (Gli Illiri e l’Italia, Fondazione Cassamarca, pag. 61).- Ancora meno attendibile è l’insinuazione che Stridone appartenesse al lembo orientale d’Italia proteso verso la Pannonia e la Dalmazia, come sostenuto da taluni nazionalisti che sembrano vecchi zii bisognosi di aggiornamento. Oltre sedici secoli fa non si poteva parlare di Italia. Suvvia!-Allo stesso modo si potrebbe allora sostenere che Stridone appartenesse all’Impero Asburgico, ma anche tale realtà storico-politica non esisteva ancora. Due sono le iconografie principali di S. Girolamo. Nella prima egli compare nell’abito cardinalizio e con il libro della Bibbia. Nella seconda il Santo è nel deserto, senza abiti lussuosi e con il cappello cardinalizio gettato per terra. Sono anche spesso presenti un leone (cui S. Girolamo avrebbe estratto una spina dalla zampa), un teschio e un crocifisso. I resti mortali di S. Girolamo sono conservati nella chiesa romana di Santa Maria Maggiore. Egli è il patrono degli archeologi, dei bibliotecari, dei traduttori e degli studiosi in genere. La sua festa ricorre il 30 settembre. A Žrenj/Stridone si parla un linguaggio croato di remota origine con infiltrazioni slovene e italiane. La località è attualmente poco sviluppata, ma nei secoli precedenti dovette avere avuto una certa rilevanza grazie alla attività di agricoltori, tessitori, falegnami, fabbri. Fin dal medio evo esisteva, tra l’altro, un’importante statua lignea di S. Girolamo nella chiesa omonima. È probabile che l’immagine sacra sia stata trasferita successivamente in un capitello situato a Vertazza, da dove sparì misteriosamente e definitivamente in occasione della nota partenza di intere famiglie dopo la seconda guerra mondiale. Poiché anche preziosi e antichi paramenti, argenteria di un certo valore e oggetti d’oro di varia foggia e dimensione sono contemporaneamente, e altrettanto enigmaticamente, scomparsi da non poche chiese, non sembri esagerato pensare anche a una variante nella definizione di quelle stesse partenze. (Il Dialogo, Oderzo, ottobre 2009) ………………………………………………………………………………….  ……………….

MARCO   D’AVIANO   E   LA SALVEZZA   D’  EUROPA.

Non ci si pensa mai. Tuttavia, se la seconda guerra mondiale fosse terminata in maniera diversa, taluni protagonisti sarebbero stati fatti probabilmente beati e santi.- Una situazione del genere potrebbe essersi verificata 262 anni prima, vale a dire all’epoca del secondo assedio turco di Vienna. Il 1 aprile 1683 si mosse la spedizione militare osmana contro Vienna. La comandava il Sultano Maometto IV. I contingenti erano giunti da tutta la Turchia, dall’Alta Mesopotamia, dal Delta del Nilo, dai Balcani e perfino dal sud-ovest della Russia. Le truppe dell’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo, benché prive di artiglieria, erano state allertate. I comandanti erano tuttavia discordi e gelosi. La Francia parteggiava per gli Osmani. Il Papa esprimeva la propria preoccupazione, ma tollerava che il cardinale di curia Aleramo Cibo tramasse con gli avversari. I Principi cristiani e Venezia stessa erano titubanti. L’Imperatore Leopoldo chiese allora consiglio a Padre Marco d’Aviano. Il frate incontrò il regnante il 1 settembre 1683 a Linz. La prospettiva appariva praticamente disperata per il Sacro Romano Impero. Vienna era assediata dagli Osmani e funestata da fame, paura, epidemie. La capitale sarebbe caduta entro breve tempo. Contro ogni previsione Padre Marco riuscì a portare la concordia tra i condottieri cristiani, aggiungendo nuovi contingenti polacchi guidati dal Re Jan Sobieskj. L’esercito imperiale poteva contare su 70.000 combattenti e la battaglia per la liberazione di Vienna poteva cominciare. Del frate friulano si può a ragione dire che “seguì la croce senza vantarsi di averla portata”, come si legge nella targa stradale della via a lui dedicata a Conegliano Veneto. Si cerca di far passare la notizia sotto silenzio, ma in quella circostanza c’era, oltre a Padre Marco, un altro religioso sotto le mura di Vienna: Islam Ahmet Bey. Il nome non deve trarre in inganno. Si trattava infatti di un frate cappuccino coetaneo di P. Marco, appartenente alla stessa Provincia Veneta e probabilmente con pronuncia dei voti contemporanea a quella dell’avianese. Egli non aveva tuttavia seguito la via della predicazione, come aveva fatto il collega. Convertitosi all’Islam, era diventato esperto in esplosivi e si sarebbe anche recato furtivamente nella città per studiarne le difese e meglio progettare l’attacco. Non si tratta di un personaggio di incerto profilo. La stessa rivista dei Cappuccini “Collectanea Francescana” gli dedicò nel numero 64 (1° quadrimestre 1994) un saggio di ben quindici pagine. Il 12 settembre 1683 infuriò il combattimento. L’esercito cristiano vinse e gli Osmani subirono una grande sconfitta. Grande merito nella liberazione di Vienna fu giustamente attribuito a Marco d’Aviano. Il ricordo di Islam Ahmet Bey svanì immediatamente e anche gli archivi dell’Ordine Cappuccino non conservano tracce. Non sembri quindi malizioso porsi la domanda:”Se gli Osmani avessero vinto, di chi sarebbe stato il merito?”- “Di Islam Ahmet Bey, naturalmente”, sarebbe la risposta. Come è noto, qualsiasi collocazione tra Dio e Cesare comporta qualche prudenza, non fosse altro che per l’inevitabile duplice pagamento. Anche in questa occasione a pensar male si commette quindi peccato ma si indovina, come è stato autorevolmente sostenuto. A questo punto sembrerebbe giustificato un dubbio. Un Cappuccino sarebbe stato assegnato all’esercito imperiale quale esperto ed abile coordinatore; un suo confratello avrebbe potuto invece facilitare la conquista di Vienna, facendone saltare le mura con gli esplosivi. Comunque fossero andate le cose, il Papa si sarebbe comunque trovato dalla parte del vincitore! Vinsero gli Europei e P. Marco fu proclamato Beato nel 2003. Piacerebbe poter affermare che il miracolo, indispensabile per ottenere l’elevazione alla gloria degli altari, avrebbe potuto consistere nell’opera di convinzione del religioso propedeutica alla vittoria stessa. Si pensò, invece, a una prodigiosa guarigione avvenuta nel 1941 per sua intercessione e certificata da eminenti studiosi nonché dal Dott. Ennio Ensoli, il quale espresse, tra l’altro, anche il giudizio conclusivo su un altro prodigio riguardante la miracolata Suor Sergia de Carlo. Più complicata sarebbero, invece, apparse la procedura di beatificazione per Islam Ahmet Bey e la contestuale scomparsa di Marco d’Aviano dagli archivi dei conventi, qualora avesse vinto Maometto IV. Forse non si sarebbe giunti proprio alla beatificazione, ma la sua opera sarebbe stata comunque sfruttata per altre credenziali presso i vincitori in considerazione della sua appartenenza alle istituzioni religiose. (Pubblicato da “Piave” in data Domenica, 09 Agosto 2009).

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LE NAZIONI SONO TUTTE, STORICAMENTE, COMUNITÀ INVENTATE. ESISTONO O NON ESISTONO A SECONDA DI QUANTI CREDONO, O NON CREDONO, ALLA LORO ESISTENZA. (ANGELO PANEBIANCO, CORRIERE DELLA SERA 24 GIUGNO 2010, PAG. 1)

A quanto risulta l’Italia è l’unico Paese che si considera “risorto”. Il fenomeno è noto come “Risorgimento”. In considerazione delle millenarie tradizioni cristiane, sorprende tuttavia che non si parli di “Resurrezione”. Ma forse il brevetto del termine appartiene a tutt’altra realtà. La stampa e la scuola straripano di informazioni sul 2011 quale 150° anniversario dell’unità d’Italia. Tutto lascia prevedere un crescendo di precettistica e di egemonia sottoculturale. Se, come sembra, si prende come comune denominatore temporale il 17 marzo 1861, tale data maggiorata di 100 anni ci portò già al 1961. La benedizione del Pontefice attribuì allora l’evento nientemeno che a un disegno della Provvidenza.- Qualora, però, si considerino altri riferimenti, i conti non tornano. Come premessa si può intanto ricordare che l’Italia fu l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica), la cui unità nazionale sia avvenuta in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale.- L’unità non la vollero i Borboni, il Papa, l’Austria, Cavour e i popoli interessati (i plebisciti ottocenteschi non furono certamente vox populi!). L’unità piacque soltanto al Re di Sardegna. Dal punto di vista politico non bisognerebbe dimenticare gli Accordi di Plombiers (1858). Essi prevedevano un assetto territoriale in Italia tutt’altro che sfavorevole. Fu promessa una cosa e ne venne invece rifilata un’altra!- Per la verità dei fatti, gli Accordi di Plombiers erano destinati a rimanere segreti. L’Austria non era stata quindi informata e si giunse un anno dopo alla guerra del 1859, che sancì l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.- Le trattative continuarono epistolarmente e con buone prospettive tra gli Imperatori Francesco Giuseppe e Napoleone III. Il Veneto doveva diventare un Granducato indipendente come il Lussemburgo. Il Veneto, appunto!. Sia consentita una retrospettiva. Si tratta intanto di una terra morfologicamente singolare e sempre sul filo del rasoio: quando vincono i monti, diventa terra; quando vincono i fiumi, diventa mare. Qualcosa che insomma c’è e non c’è: un’utopia, un non luogo come le stazioni ferroviarie, i supermercati, gli aeroporti, le scuole, le chiese, i giardini pubblici…con tutte le caratteristiche che appartengono al “non luogo”. La Regione non ha città eterne. Nonostante l’ostinata osmosi essa non è, inoltre, ancora ostaggio della criminalità organizzata e delle gravità connesse. Qualora ciò sembri poco significante dal punto di vista dell’identità generalizzata, si aggiunga pure che il Veneto non appartiene nemmeno geograficamente alla penisola mediterranea, bensì all’Europa continentale. Affermare il contrario significherebbe pretendere che Slovenia, Croazia e Albania siano terre mediterranee. Il Censis ha effettuato una ricerca, dalla quale è risultato che la maggior parte degli abitanti del Veneto si sente più europea che mediterranea (Il Venerdì di Repubblica, 14 maggio 2010). Corretto sarebbe anche parlare più ampiamente di un Alto Adige e di un Basso Adige. Si fa tanto per accentuare la singolarità dei Mari Tirreno e Jonio ben differenti dal generalizzato Mediterraneo. Perché ciò non dovrebbe valere anche per la sommità del Mare Adriatico?- Per il semplice motivo che vi furono da sempre Due Sicilie ma un solo Veneto?- Non basta. È destino delle terre vicine ai confini sentirsi, specialmente in occasioni storiche favorevoli, più affini a contigue realtà prive di parassitismo, estorsione e corruzione, piuttosto che a lontani sistemi male amministrati e accentratori. La storia veneta affonda le proprie radici nella civiltà paleoveneta, cioè nella parte finale dell’epoca del bronzo. La popolazione era illirica. Non fu mai latina, ma soltanto latinizzata. Sarà un dispiacere per quanti non conoscono la storia e la linguistica, oppure appartengono al nazionalismo estremo, apprendere che i primi abitanti si chiamavano Sloveneti. Siccome nell’antichità si scriveva soltanto in latino, cui il gruppo “slo” era sconosciuto, il prefisso è caduto. La provocazione non deve suscitare incredulità. Anche l’etnico Vitalia ha perduto col tempo la “V” ed è rimasto Italia.- Numerosi toponimi (le realtà più difficili da dimenticare e cancellare!) testimoniano l’antico insediamento illirico: Livenza (da “livnica” = corso d’acqua), Lozzo (da “loče = prato in valle), Vas (= villaggio), Visnà (da “vicina” = luogo elevato), Calalzo (da “kalЪ” = fango terapeutico), Postioma (da “Postime” = luogo di sosta)…- I Romani non conquistarono mai il Veneto. La cultura latina vi penetrò per osmosi, come attualmente avviene con l’inglese. L’epigrafia lo conferma. Nelle numerose lapidi in latino rinvenute i personaggi hanno solitamente due nomi, quindi erano “barbari” . Se fossero stati romani ne avrebbero avuti tre. Il Veneto conobbe numerose migrazioni dai Paesi d’Oltralpe, specialmente al tempo di Re Berengario nell’VIII° secolo. Una miriade di toponimi lo testimonia. Nemmeno sotto il dominio di Venezia, quando prevaleva la “ragion di mercatura” sulla “ragion di stato”, la Regione fu soggetto, bensì oggetto, di politica. Al tempo delle “invasioni turchesche” si verificarono grandi devastazioni. Venezia stessa si sentì in pericolo. Il Senato commissionò allora nel 1532 una costosissima corona a forma di tiara tempestata di pietre rare e perle preziose, attualmente conservata nel Museo Metropolitano dell’arte di New York. Essa sarebbe servita ad accogliere Solimano il Magnifico e incoronarlo Imperatore!- Le ottocentesche possibilità insite nel Regno Lombardo-Veneto non furono colte. Allo stesso modo non vengono attualmente percepite le opportunità derivanti dalla collocazione del Veneto nella Unione Europea. Non desti meraviglia se non si riscontrano istanze autonome, ma piuttosto accettazione di proposte eterodirette, spirito di rinuncia, subordinazione e autocensura lungamente coltivato dai Poteri e non ancora superato. Anche le tradizioni, compresa quella culinaria, appaiono sbiadite: nelle trattorie veneziane è raro trovare il “brodetto” e il “baccalà alla vicentina” diventa meno frequente perfino nelle zone beriche.- Non risulti incomprensibile la vistosa assenza autoctona nelle pubbliche amministrazioni, nella istruzione, nella giustizia e in altri settori, considerata grave in un contesto di valida imprenditorialità. Una conversazione recentemente udita su un autobus in Provincia di Treviso tra una madre in visita al figlio da poco trasferitosi, lamentava:”Sono già sette mesi che sei qui e non sei ancora diventato né assessore comunale né comandante dei vigili urbani!- Ricordati che anche i cugini in paese aspettano da te una sistemazione nel Comune dove abiti!”- Il pretesto unitario non ha mai spiegato in che cosa consista il male, se bravi giovani del luogo sono in maniera più significativa maestri dei ragazzi del proprio paese, segretari dei propri Comuni, responsabili di reparti ospedalieri…- Risulterebbe invece che in altre Regioni ciò sia normale e che candidature esterne siano addirittura impensabili.- J.W. Goethe recensì il fenomeno nelle sue “Impressioni su Venezia”:”Fu puro caso che i Veneziani divenissero in seguito scaltri mentre tutto il mondo settentrionale era ancora nell’incoscienza”.- Gli fece eco in altra maniera il contemporaneo Enzo Bettiza nel Corriere della Sera del 2 aprile 2010:”Una cosa è essere europei di lingua italiana, piuttosto che italiani di lingua toscana”. Nel 1866 Francia, Italia e Prussia si accordarono per una guerra contro l’Austria: sarebbe bastato che uno dei tre avesse vinto una battaglia contro l’Austria e il Veneto sarebbe stato ceduto all’Italia.- Ci provò l’esercito italiano, ma il 24 giugno 1866 subì una pesante sconfitta a Custoza. Poi fu la volta della marina italiana, ma anche questa venne sbaragliata il 20 luglio dello stesso anno presso l’isola di Lissa. Su questo fronte non era dunque il caso di parlare di vittoria.- Diversa era invece la situazione nella attuale Repubblica ceca. Presso Sadowa (Königsgrätz) i Prussiani avevano vinto il 3 luglio 1866. Il 19 ottobre 1866 il Veneto passò quindi all’Italia. Tasto nero nel pianoforte della Storia e della sua logica.- L’autore e giornalista Indro Montanelli scrisse nella sua “Storia d’Italia” che l’annessione del Veneto, colpa di pigra inerzia e di pigra sorte, fu una cosa forzosa. Un poco come successe per Slovenia e Croazia, quando nel 1945 si trovarono a far parte della nuova Yugoslavia per intervenuti equilibri e impreviste forzature politiche. Viene ora spontaneo chiedersi che cosa c’entri il Veneto con il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Se l’aritmetica non è un’opinione, 1866 + 150 fa 2016. Le celebrazioni nel 2011 sarebbero una “cosa forzosa”, ripeterebbe Indro Montanelli. Lo stesso si può dire per Roma, che fu occupata dall’esercito italiano il 20 settembre 1870.- Si faccia pure la somma “1870 + 150”: risulterà 2020.- Ancora più evidente risulterebbe la “cosa forzosa” nei confronti delle terre trentino-sudtirolesi, occupate dal Regio Esercito alla fine del 1918, quando era già in atto l’armistizio. Qui si arriva nientemeno che al 2068!- Si ha quasi l’impressione che sulla data del 2011 qualcuno si sia portato un po’ avanti col lavoro, ecco.- Vengono di proposito tralasciate nella esposizione le terre istriane, che si sono però svincolate dalla italianità ad oltranza in grado di sconvolgere perfino le certezze matematiche. La contraddizione in termini per quanto riguarda le date è evidente. Ma ciò non dipende stranamente soltanto dalla gradualità con cui l’unità del Paese ha preso forma. Il primo Governo italiano anticipò l’Unità al 1848, quando fu proclamato lo Statuto albertino. Nel maggio 1861 una circolare del ministro Marco Minghetti comunicava a tutti i Comuni (esclusi naturalmente quelli veneti, romani e trentino-sudtirolesi) che il Re e il Parlamento avevano fissato alla prima domenica di giugno la “Festa dello Statuto e dell’Unità Nazionale”. Le feste dovevano prevedere una cerimonia religiosa con il canto dell’inno ambrosiano, che non si sa bene che cosa fosse. La mancata partecipazione delle autorità ecclesiastiche sarebbe stata deplorata dal Governo.. Il Sindaco avrebbe potuto sostituire i sacerdoti in chiese di patronato municipale. Le spese devono essere parsimoniose.- Secondo le disposizioni del primo Governo italiano, emanate nel 1861, il 150° anniversario dell’unità d’Italia avrebbe quindi dovuto essere celebrato con “spese parsimoniose” nel 1998 e non nel 2011.- Chiaro? Non è ancora tutto in fatto di “unità”.- Dopo la proclamazione del Regno d’Italia ci furono sempre due sovrani: i Savoia e il Papa. Al Pontefice competerono infatti ufficialmente gli “onori sovrani” anche dopo il 20 settembre 1870 in forza della Legge delle Guarentigie.- Il simbolo dinastico dell’unità d’Italia era infine la monarchia, rimossa nel 1946 quando essa si era già rimossa da sola. In altre parole l’unità d’Italia sembrerebbe più facile da raccontare che da digerire. Le celebrazioni del 2011, pur non avendo giustificazione alcuna, avranno ugualmente luogo in Veneto con denaro pubblico. Ciò non meraviglia affatto. Quando nel 2008 si trattò di commemorare il 90° anniversario della fine della Grande Guerra, furono inserite nei programmi le “Giornate nazionali del mandolino e della musica a plettro”. Proprio così. Con un poco di religione costituzionale organizzata e di buona educazione coloniale sarebbe stato quindi possibile inserire anche una trattazione sul “frinire della cicala e il disturbo della quiete pubblica”. – Nessuna ospitalità per la fine della prima guerra mondiale avrebbero, invece, trovato sia l’autorevole affermazione-sentenza del grande Giuseppe Prezzolini formalizzata nella comprensibilmente introvabile opera “Vittorio Veneto”, sia l’eloquente messaggio del Generale Giacomo Carboni a Vittorio Emanuele III: ”Maestà, se i Tedeschi si ritirano, sono pronto a inseguirli”.

I L    M O N U M E N T O     D E L    R E G I M E

Nerio de Carlo || Hartmuth Staffler Prima edizione: dicembre 2010. Editore: Süd-Tiroler Freiheit Nerio de Carlo: Il monumento del regime ISBN 9788897053026    –  © 2010 Süd-Tiroler Freiheit – Realizzazione: Effekt! srl, Neumarkt a.d. Etsch/Egna – Illustrazioni: Archivio Elmar Thaler (8, 11, 12, 17, 22, 29, 39, 40); Archivio Günther Obwegs- (41);Archivio Lorenz Puff (10); Archivio Roland Lang (3). Tutti i diritti riservati, compresi quelli di riproduzione a stampa o elettronica. Veduta su Bolzano dall’ingresso del Parco Talvera all’inizio del XX secolo.

Un misfatto non diventa opera meritoria soltanto perché per 80 anni lo si indica come tale. Il cosiddetto monumento alla vittoria di Bolzano è la materializzazione di una violazione culturale, che a tutt’oggi viene sostenuta, curata e protetta. Esso è una bugia scolpita nel marmo, un’offesa sia per la popolazione autoctona, sia per gli Italiani antifascisti che pensano democraticamente. Esso è l’immagine del torto fascista e della rapina culturale. Già la dedica “monumento alla vittoria” è una falsità. Una vittoria degli Italiani sui Tirolesi non c’è infatti mai stata. Le truppe combattenti italiane non hanno mai conquistato un solo metro di suolo tirolese.La cultura, le leggi e le belle arti non ci sono state certamente portate dai fascisti. Chi viaggia con gli occhi aperti attraverso il nostro Paese avverte subito che il Sudtirolo, come del resto l’intero Tirolo, è un antico e fiorente paesaggio culturale sicuramente non bisognevole di “beneficenze” fasciste. Ne sono testimonianza le chiese gotiche, gli altari a portelli, i capolavori barocchi e gli altri innumerevoli tesori d’arte. Quando gli Italiani antifascisti e democratici avranno finalmente il coraggio di svincolarsi da questa contiguità e dimostrare una volta per sempre che rinnegano la prepotenza e l’umiliazione fasciste?

Consiglieri regionali: dott.ssa Eva Klotz e  Sven Knoll Pag. 7

PREFAZIONE

Questo saggio pone in dubbio la giustificazione di un “Monumento alla vittoria” senza vittoria. Il lettore cercherebbe inutilmente in queste pagine chiacchiere e tentativi di legittimazione sia di una coscienza storica comune sia di un conformismo intellettuale. Il presente testo è ponderato e documentato, ma esso parteggia anche per coloro che combattono per la conservazione della propria identità e per la giustizia. L’imperatore Carlo V faceva celebrare ogni giorno quattro messe, di cui tre funebri. Una volta egli ordinò d inscenare nella chiesa il proprio funerale. Il presunto morto bisbigliò sul catafalco perfino alcune litanie a se stesso,mentre i presenti versavano lacrime apparentemente commosse. Dopo il finto funerale l’Imperatore si prese un’insolazione che lo portò alla morte vera in breve tempo. Anche i Regimi celebrano ostentatamente i propri riti, come se dovessero durare per sempre. Poi basta una insolazione e tutto tramonta. Si dice che il nostro pianeta si stia surriscaldando a causa di un’insolita attività solare. Questa novella “insolazione” potrebbe anche riguardare il cosiddetto “Monumento alla Vittoria”, che è un’opera del Regime. Max Weber sostenne che i dominatori vogliono sempre influire sulla volontà dei dominati. Il potere si fonda sul monopolio della forza, ma non può durare se non ottiene obbedienza attraverso la convinzione. Le mutazioni politiche, economiche e culturali indicano il monumento di Bolzano e le sue parole come inadeguati e non convincenti. La forza, come la bellezza, risulta infatti dalla armonia con l’umanità circostante, concordanza che in questo caso non risulta. (Nerio de Carlo)

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Stato dei lavori per la costruzione del monumento ai Kaiserjäger prima del 1926.-

L’opera avrebbe dovuto recare la scritta:”Il 2. Reggimento dei Kaiserjäger ai suoi eroi caduti in guerra”. Il progetto non fu ultimato. Al suo posto fu costruito, a pochi metri di distanza, il monumento italiano alla vittoria.

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Pag. 9 : IL MONUMENTO AI KAISERJAEGER.

Durante la Grande Guerra il 2° Reggimento Tirolese dei “Kaiserjäger” era di stanza nella città di Bolzano. Fu pertanto deciso di erigere un monumento ai caduti di quel contingente, morti nel conflitto in corso. Esso doveva sorgere in quella che allora si chiamava Piazza Talvera e più precisamente vicino alla parte del ponte rivolta verso Gries. L’architetto boemo-tedesco Karl Ernstberger, originario di Malowitz (distretto di Tachau, Boemia orientale) e discepolo di Otto Wagner, aveva ultimato i progetti edilizi già nell’estate del 1916. La costruzione iniziò nel 1917 e verso la fine della guerra essa era praticamente terminata. L’opera doveva esibire la seguente scritta: ”Il 2°Reggimento Tirolese dei ‘Kaiserjäger’ ai suoi eroi caduti in battaglia”.

Dopo la guerra il Comune di Bolzano cercò di completare il monumento ai caduti. Soltanto l’iscrizione avrebbe però dovuto essere: ”Eretto e costruito dal 2° Reggimento Tirolese dei Kaiserjäger dal… al…- Completamento effettuato dalla città di Bolzano”. Il progetto non poté tuttavia andare a buon fine perché la situazione politica si era nel frattempo acutizzata.- Il 24 aprile 1921 i Fascisti aggredirono i gruppi folcloristici in costume presenti alla apertura della Fiera di Bolzano. Oltre cinquanta Sudtirolesi furono feriti a colpi di pistola e con bombe a mano. Il maestro Franz Innerhofer fu ucciso. I Carabinieri e la Polizia non intervennero e i responsabili non furono perseguiti. Nelle settimane e nei mesi successivi i Fascisti distrussero sistematicamente lapidi e cartelli stradali che ricordavano in qualche modo l’Austria. Un completamento del monumento ai mitici Kaiserjäger non era più pensabile. Il 28 settembre 1922 il Governo italiano depose JULIUS PERATHONER, l’ultimo Sindaco di Bolzano liberamente eletto. Il 1° ottobre 1922 circa tremila Fascisti provenienti in gran parte dal Veneto e dall’Emilia-Romagna compirono una“marcia su Bolzano” e occuparono la scuola elementare tedesca “Elisabetta”. Il 2 ottobre iniziò l’insegnamento in lingua italiana e l’istituto cambiò nome in “Scuola Regina Elena”. Il parroco fascista don Paissani celebrò la messa di apertura ed esortò gli scolari a coltivare l’amore di Dio e dell’Italia. Nello stesso 2 ottobre i Fascisti occuparono il Municipio, cacciando gli impiegati. Il 3 ottobre il Consiglio Comunale di Bolzano decise alla unanimità il proprio scioglimento e con ciò subentrò il commissariamento da parte del Commissario civile Credaro. Con questo atto venne a cessare la democrazia a Bolzano e anche l’idea di ultimare il monumento ai valorosi “Kaiserjäger” risultò impraticabile.

La costruzione rimase inizialmente allo stato grezzo. Il 6 febbraio 1926 il dittatore Benito Mussolini annunciò nel suo discorso in Parlamento che sarebbe stato realizzato un monumento a Bolzano in memoria di Cesare Battisti e di altri martiri. L’opera sarebbe precisamente sorta “sulle stesse fondamenta predisposte per un monumento alla vittoria tedesca”. L’affermazione che un progetto del genere, inteso al ricordo dei caduti, fosse stato confuso con una vittoria tedesca, era evidentemente un falso pretesto. La destinazione dell’opera di Malowitz risultava ed era in realtà inequivocabile. Alcuni Bolzanini riuscirono a salvare in tutta fretta i plastici realizzati dallo scultore Franz Ehrenöfer, asportandoli dalla costruzione e trasferendoli a Innsbruck, dove furono ricostituiti sul Berg Isel. Il 12 luglio 1926, nel decimo anniversario della morte di Cesare Battisti e Fabio Filzi, ebbe luogo la posa della prima pietra per il nuovo monumento. Questo non doveva tuttavia più essere dedicato ai martiri, bensì alla vittoria italiana sull’Austria. La costruzione non doveva inoltre sorgere direttamente sulle fondamenta di quella precedente, ma spostata di circa otto metri. Il Re Vittorio Emanuele III presenziò alla cerimonia. Vennero contemporaneamente murate pietre provenienti da tre monti particolarmente simbolici per i nazionalisti italiani: Monte Corno (dove Battisti era stato catturato), Monte Grappa (conquistato nel 1918 con enormi perdite umane) e Monte San Michele (altura strategicamente rilevante presso il confine italo-sloveno). Per la cerimonia fu usata una cazzuola d’argento ricavata dalla fusione di monete austriache. Alla malta fu aggiunta acqua attinta dal fiume Piave. Il Vescovo di Trento Celestino Endrici benedisse la prima pietra, nonostante che il clero tirolese avesse inviato al Pontefice Pio XI un’istanza scritta affinché non venisse impartita la benedizione ecclesiastica nel caso di specie. Subito dopo l’inizio della costruzione del monumento alla vittoria, e precisamente il 9 giugno 1927, le vestigia del monumento ai “Kaiserjäger”furono fatte saltare in aria e spianate. Anche l’antica locanda “Badl” e la famosa “Porta dei glicini” all’inizio del Parco Talvera furono contemporaneamente demolite. L’inaugurazione del monumento alla vittoria avvenne due anni dopo la posa della prima pietra, il 12 luglio 1928. Per l’occasione ricomparvero il Re e il Vescovo di Trento Mons. Endrici. Ventitre bande musicali sudtirolesi erano state costrette a partecipare ai festeggiamenti sotto minaccia di scioglimento. Alla vigilia dell’inaugurazione del monumento alla vittoria di Bolzano, l’11 luglio 1928, si erano incontrati sul Berg Isel i reduci dell’Associazione “Kaiserjäger – 2° Reggimento” per una commemorazione dei commilitoni caduti. Erano presenti presso la tomba onoraria dei “Kaiserjäger” anche ufficiali degli altri tre Reggimenti del Corpo. Il Maggiore Tschan, ultimo comandante del 2° Reggimento, ricordò la distruzione del monumento ai caduti a Bolzano e la sua sostituzione con un’opera “alla infedeltà e al tradimento”.(Hartmuth Staffler )

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Illustrazione: Lo scultore Franz Ehrenhöfer aveva già realizzato statue per il monumento ai Kaiserjäger caduti. Esse poterono  venire salvate dalla distruzione e si trovano attualmente sul Bergisel. _____________________________________________________

Citazione: “È meglio che gli uomini si chiedano perché non ho una statua, anziché perché ne ho una”. [Catone il Censore).

Pag. 15 “Il Monumento alla Vittoria è una spina nel cuore di Bolzano. Mai, in tempo di pace, l’Austria degli Asburgo portò una simile offesa alle popolazioni italiane del Trentino”. (Livia Battisti,figlia di Cesare Battisti).

Il monumento senza qualità.

Era il 12 luglio 1928. A Roma erano a buon punto le trattative tra Benito Mussolini e il Card.Pietro Gasparri per superare la “Legge delle Guarentigie” del 1871. Mancava solo di accordarsi su una base territoriale da assegnare alla S. Sede. A Bolzano il Potere celebrava la propria liturgi con l’inaugurazione del monumento ai suoi trionfi, costato tre milioni di lire e realizzato da Marcello Piacentini, architetto del Regime fascista come Albert Speer lo fu più tardi del Nazismo. Una somma notevole, se si pensa che il marmo era stato offerto gratuitamente nell’ambito dell’accanimento anti-austriaco e della ritualizzazione intesa a forzata comunicazione. La prima idea era stata di dedicare il monumento a Cesare Battisti, ma poi l’intenzione fu variata.Battisti era stato profetico, quando sostenne: “Se  morirò, il mio Paese mi farà una lapide, se vivrò,mi lapiderà.”

Pag. 16. -G

Già all’inizio dei lavori erano state evocate dimensioni  sacrosante secondo il potere disciplinare della Chiesa. In un paesaggio che sembrava una cartolina spedita dal Re Laurin alla sua corte incantata, il Principe Vescovo di Trento Celestino Endrici conferì con la benedizione un’investitura e una dimensione di sacralità alla iniziativa. Eppure il prelato doveva essere al corrente che, secondo il pensiero teologico cristiano, battaglie e vittorie sono giustificate soltanto se difensive e in seguito a torti o aggressioni. Egli aveva certamente letto “De civitate Dei” di S. Agostino e “Summa Teologica” di S. Tommaso d’Aquino, concludendo che le giustificazioni belliche non ricorrevano affatto nella circostanza. Si deve rammentare infine, ma solo in ordine di esposizione, che nel 1893 era stato eretto a Trento il monumento a Dante per segnare il confine tra l’italianità straripante e il mondo tedesco. Come mai tale limite fu poi spostato di parecchio verso nord? È noto che le truppe italiane avevano occupato anche Innsbruck e Landeck ben dopo la conclusione dell’armistizio del 4 novembre 1918. Entrambe le località erano completamente prive di difese militari. È lecito pensare che, qualora quella occupazione fosse stata mantenuta, il monumento alla vittoria sarebbe stato eretto a Innsbruck anziché a Bolzano? Il rappresentante del Governo Giacomo Suardo aveva accostato con voce da gallo ventriloquo, durante l’inaugurazione del monumento, l’elmetto dei fanti alla aureola dei Santi, la baionetta alla santa Croce, la secca galletta all’ostia tricolore dell’Eucarestia, i mutilati di guerra ai sacerdoti. Soltanto gli angeli non furono scomodati. La sobrietà ecclesiastica non aveva proprio nulla da obiettare a questa ninna nanna suonata con un trombone? No, la Chiesa si dimostrò alquanto arrendevole nei confronti del Regime. Pochi anni prima il Governo italiano aveva preteso l’allontanamento dei Servi di Maria di lingua tedesca dal monastero di Pietralba, prontamente accontentato. La Chiesa ebbe dei cedimenti. Forse c’erano allora alcuni broccoli nell’orto del Signore. È vero che la consuetudine decaffeina nel tempo l’attenzione, ma la dedica alla vittoria risulta comunque eccessiva a Bolzano. I succhi gastrici necessari per certe digestioni non sono infiniti. Lo spiegò chiaramente Giuseppe Prezzolini a pagina 34-35 della sua opera “Vittorio Veneto”: ”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani devono lasciarsi dire.” In altre parole sembra giustificato chiedersi se basti chiamare propria “vittoria” una “non sconfitta”dell’avversario. L’argomento meriterebbe maggiori approfondimenti. Forse la lettera dello scrittore austriaco Stefan Zweig (1887–1942) al letterato e musicologo francese Romain Rolland (1866–1944), premio Nobel per la letteratura nel 1915, può aiutare. Egli scrisse il 21 ottobre 1918: ”Soffro a vedere l’Austria che accetta tutto, che non si difende più, che va in rovina e che è perfino respinta nel suo desiderio di poter deporre le armi”. Anche gli atti del processo di beatificazione dell’Imperatore Carlo I d’Asburgo possono fornire interessanti contributi al riguardo. Si è quindi trattato di una ritirata decisa da una sola parte, quando nemmeno un metro quadrato del territorio austriaco era ancora occupato dagli avversari. Non desta sorpresa che nelle guerre, come in altre circostanze, ci sia poi qualcuno che marcia e qualcuno che ci marcia.La storia registra casi di ritirata di una sola componente. Anche Temistocle l’Ateniese lo fece.Il ripiegamento nell’autunno del 1918 è da interpretarsi nell’ampio contesto rivoluzionario europeo in generale e, in prospettiva, nei danni che un possibile sovvertimento marxista esteso all’Italia avrebbe comportato per la S. Sede e per l’agognato Concordato. L’eventualità rivoluzionaria dovette essere più probabile di quanto si creda. Dopo la rivoluzione d’ottobre e la conseguente caduta del fronte orientale furono infatti pagate ingenti somme dall’Inghilterra per impedire un analogo sviluppo anche in Italia. Un Imperatore apostolico come Carlo I d’Asburgo non avrebbe potuto essere da meno e avrebbe dovuto evitare ad ogni costo questa ultima probabilità. – In ogni caso egli non era certo nato per fare la guerra.

Pag.17.-Sull’opera in travertino con effetto meringa campeggia la scritta “HIC PATRIAE FINES SISTE SIGNA HINC CETEROS EXCOLUIMUS LINGUA LEGIBUS ARTIBUS = QUI SONO I CONFINI DELLA PATRIA PIANTA LE INSEGNE    DA QUI NOBILITAMMO GLI ALTRI CON LA LINGUA CON LE LEGGI CON LE ARTI).

———————————————————————————————————————————————- Pag. 17 – (Adolf Wildt realizzò busti di martiri italiani per il monumento italiano alla vittoria.)

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(Pag. 18) – Un messaggio imperioso e unilaterale.-Missione civilizzatrice nei confronti dei Sudtirolesi. Il significato, sebbene espresso in maniera dotta e precisa, non brilla per originalità compositiva.Un’occhiata indietro rivolta verso l’impero romano e una innanzi indirizzata all’impero italiano? Un dozzinale romanticismo di massa? Un inevitabile prodotto, o sottoprodotto, del Regime? Presunzione di guidare la storia? La politicizzazione rende comunque inaffidabile la storia stessa. Il proverbio dice che non è sempre oro quello che luccica. Manca qui naturalmente ogni messaggio di costruzione civile. Risulta evidente l’intento discriminatorio. Sembra un invito a riportare indietro l’orologio della storia. L’accenno alle differenze innate è spesso servito a giustificare gli abusi del passato in diversi settori dell’esistenza. L’affermazione evidenzia una contraddizione. L’elenco dei valori e delle virtù si riferisce certamente ai pregi e ai meriti della tradizione della latinità. Ma questi principi sono rappresentati dal Cattolicesimo, come sostenne Theodor Mommsen, e non dalla politica governativa del XX secolo. Oltre tutto gli antichi romani erano anche mediocri artisti, come rammenta Mario Cervi nel “Giornale” del 15 gennaio 2010, pag. 33.Essi avrebbero attinto senza risparmio dal genio greco. Siffatta realtà fu riconosciuta perfino da Mussolini, allora semplice parlamentare, nel discorso del 18 giugno 1921, come accennato da “La Domenica di Repubblica” del 25 febbraio 2007, pag. 40.

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„HIC ARROGANTIAE FINES NON SVNT ECCE SIGNA HINC CETEROS EXCOLVIMVS NOMINIBVS INVENTIS FVGA VECTIGALIVM BLASPHEMIIS“ “Qui l’arroganza non ha confini. Sono evidenti i risultati: da qui insegnammo agli altri nomi inventati, evasione fiscale e la bestemmia”. Cristian Kollmann, 2004 (linguista tirolese).

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(Pag. 19). – I termini trionfalistici sono pertanto, fuori luogo. Essi sembrano piuttosto una variante mentale dei prodotti afrodisiaci ed esaltano modelli capitolini a detrimento dei contemporanei prototipi offerti dall’Occidente, la cui modernità non era né decadente né crepuscolare. Per modernità s’intende un’apertura verso il futuro. L’altra memorabile frase della dittatura fascista“un popolo, di poeti, di eroi, di navigatori” avrebbe avuto il medesimo effetto, se riportata sul monumento. È risaputo tuttavia che i santi, i poeti, gli eroi e i navigatori non hanno mai brillato come buoni governanti. Sono i cittadini che fanno il Paese. Ignorare tale evidenza significherebbe appartenere a una certa setta, la quale aveva esposto nell’atrio un avviso agli adepti con la seguente prescrizione: ”Si prega di lasciare teste e scarpe all’ingresso.” In epigrafia bisogna tenere presenti anche le parole e i significati subliminali non espressi. Nel caso dell’iscrizione di cui trattasi deve essere per prima cosa inserito un “sunt = sono” tra i primi due termini. L’integrazione grammaticale del senso comporta tuttavia una perentorietà che non può essere sottovalutata. Non rimane più alcuno spazio per l’esistenza degli altri. D’altronde,come notò il sociologo Giuseppe De Rita, “per l’italiano medio gli altri non esistono affatto.” Nella comunicazione vale lo stesso principio. Le cose dette sembrano vere. Le cose tralasciate possono concorrere tuttavia a far comprendere la verità e la dinamica dei fatti. Esse possono infatti essere intuibili anche quando non sono manifeste o subliminali. Un esempio spiega meglio l’osservazione. Durante un’interrogazione uno scolaro disse che Giulio Cesare morì nel 44 a.C. a causa di 23 pugnalate ai piedi. La nozione sorprese il maestro, ma il giovane ribadì che l’informazione stava nel libro di storia. Così era infatti, ma bastava voltare pagina per leggere che il fatto era avvenuto “ai piedi della statua di Pompeo” e che, quindi, Cesare non era deceduto per ferite ai piedi. Allo stesso modo, se si vuole cercare una completezza d’informazione nei tre ablativi “lingua”, “legibus” e “artibus”, si nota la funzionale insufficienza di questi con la realtà mondiale dei cittadini consapevoli. Quale integrazione non avrebbe qui sfigurato nemmeno un elenco di reliquie religiose, che destano maggiore perplessità. Agli estensori della scritta sul monumento sarebbe bastato voltare pagina per capire che già nel 113 a.C. i popoli germanici, precisamente Cimbri, Teutoni e Ambroni, esistevano e che anche la sconfitta romana subita a Noreia in Carinzia non dovette essere cosa da poco. Ai medesimi autori avrebbe forse giovato ricordare che il linguaggio è “un qui che respira ed espira altrove, medusa dalle dimensioni di un mare che sarebbe il mondo”, come scrisse il Premio Nobel Yves Bonnefoy in“La lunga catena dell’ancora” nel 2008. Non si trova nella iscrizione alcun accenno alla inevitabilità del progresso nel tempo che scorre, benché il linguaggio, la giurisprudenza e le arti siano segni distintivi della modernità. Urge un ripensamento. Altrimenti, secondo la maestria di Robert Musil, per l’uomo senza qualità la verdura in scatola diventa il vero senso della verdura fresca. L’artificiale sostituisce il naturale. L’incipit perentorio ed esibizionistico “Hic patriae fines” contiene due concetti non esenti da fluidità: i confini e la patria. I confini, o meglio i “sacri confini”, come si insisteva durante la dittatura, erano giustificati da motivi geografici e da esigenze difensive. Così almeno si proclamava.-“C’è il Brennero al confine e tutto quello che è al di qua delle Alpi deve essere italiano”, sostenne lo storico Giovanni Orsina nella intervista del 27 febbraio 2009 a Giulio Varesini. Si fa rispettosamente notare che l’affermazione contiene una contraddizione in termini. Il Brennero è un passo alpino. Si può pensare che i passi siano stati fatti dalla natura per dividere due territori? Sembrerebbe piuttosto vero il contrario. Quanto poi alle motivazioni geo-strategiche, soltanto chi ritenesse il vecchio fucile mod. 1891 più efficace dei moderni missili teleguidati e più valido dei sistemi satellitari, potrebbe sostenerne l’esistenza. A proposito di confini e della loro difesa, giova ricordare che, come i venti, il pensiero non conosce frontiere e che, come scrisse Mario Vargas Llosa, “Tutto ciò che contribuisce a idebolire le frontiere è positivo, il modo migliore per vaccinarsi contro future apocalissi, come le due guerre mondiali del XX secolo”. E’ risaputo che il vaccino è una polizza assicurativa per la quale si è felici di non chiedere risarcimenti. Anche per Friedrich Hegel il pensiero era qualcosa di mobile, di dialettico appunto. Figurarsi se il pensiero da cui dipende il futuro può conoscere barre di confine, vieppiù dopo i Trattati di Schengen!

——————————————————————————————————————————————– “Molti italiani, anche di sinistra, cominciano a identificarsi in quel marmo bruttino per il semplice fatto che ne viene chiesta la cancellazione. Capirlo significa capire l’Alto Adige”  (PAOLO RUMIZ, giornalista e scrittore triestino). ___________________________________________________________

L’artifizio freddo e totalizzante di “patria” indica un “paese comune a tutta la nazione”. La preferibile ubicazione geografica dovrebbe inoltre coincidere, in talune scuole, possibilmente con la provenienza di certi maestri paracadutati, gli stessi che in genere insistevano sul principio che la mafia non solo non esistesse, ma che fosse un pretesto per denigrare certe zone. Il significato comunitario di patria denota invece il paese natale.Una visione nichilistica sostiene di non sapere nemmeno in quale latitudine si trovi la patria (Charles Baudelaire in Lo spleen di Parigi). Lo stesso tono si riscontra in Wilhelm von Humboldt quando afferma che l’amor di patria è impossibile per mancanza di materia prima.

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——————————————————-“Non accettiamo simboli della vittoria”  (Die Bruecke 1968). ———

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Oscar  Luigi Scalfaro diceva al giornalista Massimo Novelli: ”Non riesco a concepire il concetto di patria se non c’è la libertà” (La Repubblica, 25.04.2006, pag. 7). Quale ex Presidente della Repubblica  dal 1992 al 1999 Scalfaro sapeva e sa certamente che, d’altronde, il concetto di  patria non ricorre nemmeno nella Costituzione italiana. L’annessione è poi cosa ben diversa da un abbraccio nazionale. Secondo Massimo Raffaeli, Guido Ceronetti avrebbe definito l’Italia come un “luogo senza patria”. Niccolò Machiavelli dichiarò infine chiaramente che “la nazion nostra” era soltanto Firenze.

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Pag. 22 – Cripta al pianterreno. Qui risiede, per lo più inaccessibile, la Custode della storia di Guido Cadorin. ————————————————————————————————

Pag. 23.- L’opinione di Aristofane era che la Patria fosse il luogo dove ci si arricchisce. Un hotel, per quanto accogliente, non diventa tuttavia la patria. La componente nostalgica indica quale unica patria di un uomo libero l’infanzia: un’entità dalla quale tutti siamo esiliati e alla quale non è possibile ritornare. Nelle lettere il discorso è diverso. Qui si comprende che la letteratura è un’organizzazione mentale  della confusione che altrimenti è la vita.-“La mia unica patria è la letteratura. Di tutte le altre ho imparato a farne a meno”, sostiene Vidiahar Surajprasad. Gli fa eco Korolenko, amico di Cechov: ”La mia patria è la letteratura russa.” Il significato comunitario di patria denota invece il paese natale. Jakob Grimm intendeva per patria il suo paese, il piccolo stato dell’Assia, la terra della quale egli conosceva tutte le strade, tutti i sentieri per averli percorsi da bambino. Patria quindi come terra e non come entità politica. Diceva bene Gregor von Rezzori: ”La patria trova i suoi veri confini nel cuore e nell’anima delle sue creature.” Aveva ragione Stendhal a sostenere:”La vera patria è quella in cui si incontra il maggior numero di persone che ci assomigliano.” I Francesi hanno la “Nation”, gli Anglosassoni la “Rule of Law”, gli Americani la “Mission”, i Tedeschi la “Heimat”. Nel linguaggio comune  sono la ragione, il senso comune, il dovere. Nel buonsenso ognuno ha la propria patria e non è il caso di disprezzare quella altrui. Che cosa potrebbe essere mai la patria se non un ambiente culturale dove coesistono la conoscenza e la comprensione delle cose? In Italia si propende spesso per il populismo, la retorica di liberazioni di cui forse nessuno sente la necessità, il trasformismo, la mancanza di suggestione e di commozione. La diversità tra le patrie è inoltre significativa in alcuni settori. A questo punto l’unica soluzione possibile sembra essere per un certo tempo l’appartenenza multipla, cioè certamente a una Heimat e nel contempo a un contesto statuale di riferimento dovuto alle varie vicende storiche. È doveroso proseguire nella analisi delle altre affermazioni. “Le parole sono atti”, sostenne J.P. Sartre. Il codice sociale incide sull’ inconscio. Noi sappiamo  che esistono parole andate a male e crediamo quindi che la filologia sia un sapere storico messo a frutto criticamente. Il verbo “excoluimus= nobilitammo” è certamente al passato, ma allude all’intento di recuperare con il linguaggio ciò che non è più. I contorni di una comunitàeducante e di un pedagogismo di stato rievocano Jean Paul Sartre, filosofo, drammaturgo, scrittorefrancese (1905–1980). 24 comunque i commissari politici. Questi erano figure del Regime che un poco ovunque hanno determinato grave e odioso disagio. È opportuno prima di tutto rammentare che non agli angeli, bensì al genere umano fu attribuita fin dall’inizio la capacità di chiamare le cose con il loro proprio nome (Genesi 2, 19). Non risulta, inoltre, che la confusione della torre di Babele abbia determinato declassamenti linguistici a danno di alcuni popoli. La presunzione di sostituire il Creatore o di integrarne l’opera nel settore linguistico sembrerebbe quindi esagerata. Quale lingua fu ritenuta necessaria per la citata erudizione? Il latino? E se così fosse, quale stile si dovrebbe usare? La forma colta, aulica, popolare, familiare, media, colloquiale…? Ma il latino è una lingua morta e non più utile per la comunicazione universale. Già nel XII secolo Alano di Lilla34 informò che la latinità era povera (“Quia latinitas penuriosa est”). Perfino la Chiesa ha dimesso il latino. L’italiano del Medio Evo? Patrick J. Geary ha chiaramente dimostrato ne “Il mito delle nazioni” la pseudo storicità del Medio Evo quale fautore di identità culturali e linguistiche. Solo una pseudocultura pretende di individuare un popolo soltanto tramite l’uso della lingua. Nella Roma antica esistevano la componente latina e greca. Il Medio Evo era una Europa multiculturale in continuo mutamento a causa di conquiste e migrazioni. Ancora nel XVII secolo  Alano di Lilla, teologo e filosofo francese (1125– 1202). 35 Patrick J. Geary, storico americano. “Io ringrazio Dio che parlo in lingue più di tutti voi. Tuttavia, in una comunità direi piuttosto cinque parole con la mia mente per istruire verbalmente anche altri, anziché diecimila parole in lingua.” (SAN PAOLO, Lettera ai Corinzi, 1, 18–19).  Galileo Galilei fu accusato di “lesa humanitas” per avere scritto in volgare il “Discorso sulle cose che stanno in su l’acqua”. Bisognerebbe quindi chiarire quale delle varie parlate debba e possa essere considerata superiore, ricordando che almeno quella italiana non è preminente rispetto ad altre lingue di cultura. Tutti gli esseri umani, e non soltanto alcuni privilegiati, parlano con la bocca e con il cuore. Ogni popolo ha una propria lingua sufficiente e non è mai troppo poco ciò che basta. La lingua non può quindi assumere alcun rilievo politico, ancorché programmato. La lingua madre è uno strumento civilizzatore per antonomasia. Si potrebbe affermare che essa corrisponde all’organo riproduttivo supremo della forma del reale in una convivenza possibile, ma non ipotetica. Una lingua materna non è sussidiabile con un’altra parlata imposta. Il Trovatore Walther von der Vogelweide ha sostenuto che “due lingue non stanno bene in una bocca”. Lo scrittore italiano Pietro Citati ha inoltre spiegato come: “Col 1945 e la fine del fascismo, si diffuse in Italia una lingua parlata diversissima da quella fascista. Sorsero due lingue contrapposte. La prima, quella democristiana, non possedeva una massiccia ideologia politica: affondava soprattutto nel linguaggio ecclesiastico, avvocatesco e giuridico, era ramificata, aggrovigliata, spesso incomprensibile. La seconda (quella comunista) soffocava sotto il peso delle formule marxiste o paramarxiste, ricalcate sulla prosa sovietica. Non aveva né vivacità né movimento. I discorsi dei dirigenti comunisti 36 Galileo Galilei, scienziato italiano, sostenitore della teoria copernicana (1564–1642). sembravano immense divisioni di carri armati, che avanzavano lentamente verso la meta. Lo scontro fu violento. Ma ci furono casi in cui gergo democristiano e gergo comunista si attrassero, si contaminarono, si fusero, producendo raccapriccianti mostri linguistici.37 Per i regimi avvezzi a celebrare soltanto vittorie, tutto ciò non conta. Se la filologia e la linguistica non hanno mai potuto dimostrare come e quando un linguaggio umano sia superiore a un altro, tanto peggio per la filologia e per la linguistica, così avvertono i totalitarismi! Se dovesse poi risultare che la storia non ha un solo percorso verticale secondo una visione trionfalistica, allora è meglio far finta di niente. Se mai non dovessero infine bastare i concetti di “dove” e di “quando”, ma fossero necessari anche i significati di “vero” e di “falso”, si passerebbe ad altro discorso.

Quali leggi rappresentarono un ordinamento adatto a tutti i popoli? Non è forse naturale che le norme corrispondano alle peculiari diversità territoriali e di pensiero, pena la crisi di rigetto? Le leggi sono infine soltanto leggi e, volendo e potendo, possono cambiare quando non tengono il passo con i cambiamenti epocali. Le leggi nominate nel monumento non fanno eccezione. La giurisprudenza rammentata nelle sprezzanti parole al quadrato del monumento, che essa sarebbe stata fondamentale solo se avesse potuto ragionevolmente spiegare, e non soltanto affermare, la superiorità di un popolo su altri. Essa sarebbe, inoltre, stata autorevole se avesse potuto convincere che le attività umane debbano essere e rimanere monopolio di una sola nazione. Ma tali delucidazioni non compaiono affatto. Infine, ma solo in ordine di esposizione, taluni enunciati sono pertanto oltraggiosi come un’improvvisa smagliatura nella calza di una bella donna.

Esiste inoltre il pericolo che talune Leggi diventino totalitarie. Per tale motivo Sofocle ha tracciato fin dall’antichità i confini tra Leggi e umanità. La sommersione giuridica enunciata sul monumento di cui trattasi assomiglierebbe alle inesorabili norme del Re di Tebe. A queste resistono le ragioni di Antigone nell’omonima tragedia, appunto. L’insegnamento del mito, che contiene una riflessione sulle leggi fatte dall’uomo, non può essere smentito. Ne soffrirebbe il messaggio alle giovani generazioni, che condanni il protagonismo del totalitarismo e dei suoi epigoni.

Quali arti costituirono veramente il primato assoluto per l’umanità? I capolavori dell’antichità classica e del Rinascimento italiano, oppure anche gli ingegni e le opere degli omonimi movimenti artistici di Paesi Bassi, Spagna, Francia…? Il magico Pantheon e i superbi acquedotti romani hanno sicuramente alto rilievo artistico, ma le sontuose cattedrali gotiche e i portenti dell’idraulica in Frisia non sono da meno. Notre Dame di Chartres o la Torre di Pisa? Non si tratta di disdire Cicerone, ma di rammentare che gli stessi Platone e Aristotele ebbero contributi da altre regioni lontane, nonché di far rispettosamente osservare che anche grandi ingegni furono espressi dalle rispettive comunità. Da un punto di vista storico sfigurano veramente il Principe Arminio e Teodorico di fronte al console Varo e all’imperatore Ronolo Augustolo? E sono poca cosa le intuizioni di Tolomeo, Copernico e Keplero, in quanto provenienti da altre realtà? Chissà se il Giorgione  sarebbe diventato quel genio che conosciamo senza gli artisti fiamminghi? La gente vuole capire certi confronti per rendersi conto di quanto essi abbiano effettivamente contato e se sia giustificato escludere i pensieri del resto del mondo.  Non solo le risposte e le affermazioni, ma soprattutto le domande hanno un senso nella moderna metodologia. Le intese vanno costruite.

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Citazione:“C’è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece di giudicare quale danno e quale vantaggio comportino per chi se ne avvarrà.” (Platone , Fedro).

————————————————————————————————————————————————-Chi sarebbero, infine, questi “ceteri”, questi altri presunti casuali accidenti del creato tanto sottosviluppati e bisognosi di civilizzazione? Gli “altri” sono, secondo un indigesto atteggiamento di superiorità, quanti non dispongono di città eterne. Si tratta di estranei ai vertici prepotenti delle ideologie sterili e annientatrici, da disprezzare o commiserare come, ai tempi nostri, spesso accade per quelli che non hanno la carta di credito. Costituiscono un’umanità sprovveduta destinata alla subordinazione, dotata di scarsa intelligenza linguistica (lingua), razionale (legibus) ed emotivo-estetica (artibus), pur avendo lingua, arte e cultura proprie già prima dell’annessione. In altre parole gli altri erano all’incirca quella classe di schiavi denominati dagli antichi Romani “Instrumentum vocalis = arnese parlante”, per distinguerli (bontà loro) dallo “Instrumentum semivocalis = arnese semivocale”, che erano invece gli animali da lavoro. Gli “altri” sarebbero stati identificabili, in quanto pure considerati “cancerofili”, nella “razza alpina” nominata nel totalitario “Manifesto della Razza” del 14 luglio 1938. Tra questi, secondo le precise indicazioni dello scienziato patologo Nicola Pende, e non per il solo fatto che il mese di luglio (quando il manifesto fu emanato) corrisponda al segno zodiacale  del Cancro, figuravano gli Svizzeri, i Bavaresi, gli Austriaci, i Veneti. Ma sì, abbiamo finalmente il coraggio di dire la parola esatta: gli altri erano i Barbari, diamine!

In realtà nella versione originariamente prevista dal Ministro Pietro Fedele ricorreva l’accusativo “barbaros” con evidente riferimento agli abitanti delle valli tedesche e ladine. Poi, forse dopo un ripensamento facendo proprio la faccia che si può indovinare, si ripiegò su “ceteros”. Ma l’intenzione era e rimaneva chiara come il disagio che essa provoca. Come è noto il disturbo è una deviazione dalla norma e ha sempre una connotazione morale. L’estensore della scritta sul monumento non sarebbe stato particolarmente raccomandabile quale donatore di neuroni. Le parole rivelano ed esprimono infatti lo spirito. Quando il pensiero è debole, la pena ricade sulle parole. Quelle parole sono un colpo d’ascia nel tronco. È comunque lecito chiedersi se quanto succede a noi, accade a tutti o soltanto a noi. Nel primo caso è banale. Nel secondo è incomprensibile, secondo lo scrittore Fernando Pessoa.

Ohibò, i Barbari! Il “mondo fluido ed equestre”, come li chiamava Indro Montanelli. Disprezzati dai Romani come esseri umani abusivi, incivili e rozzi, erano in realtà abili nel fondere i metalli e produrre birra e burro, costruire botti di legno al posto delle fragili anfore, rendere agevole l’aratro mediante ruote, indossare pratici  pantaloni piuttosto che tuniche, usare la sella per le cavalcature, sviluppare soluzioni ispirate allla “Magistra Barbaritas”….         Nel 410 d.C. i Barbari Visigoti sono a Narni. Il monaco Salviano scrive il “Governo di Dio”, dove si legge: ”I Romani sono superiori in fatto di religioni, ma i Barbari sono preferibili sotto il profilo morale, come è indubitabile”.

Anche per i Barbari la testa non era proprio soltanto una semplice gobba tra due spalle.

Si potrà dire che, oltre alla evidente e nota connotazione dispregiativa della parola “barbaro” il significato è stato rivisto sia dalla scuola che dalla mentalità. Non abbastanza. Le “invasioni barbariche” costituiscono pur sempre un capitolo importante nelle lezioni di storia in Italia.

Constantinos Kavafis scrisse nella sua poesia “Aspettando i barbari”: “[…] è già notte e i barbari non vengono./È arrivato qualcuno dai confini/ a dire che di barbari non ce ne sono più./Come faremo adesso senza  i barbari?/Dopotutto, quella gente era una soluzione”. Questi versi risalgono al 1904. Ma lo Stato etico impiccione e intrusivo, che ha sostituito il governo platonico dei filosofi con quello dei pedagoghi, dei giuristi, dei pittori, li ha ignorati nel 1928 con la cornice artificiale anomala del monumento di Bolzano. Poiché, se poche cose sono antidemocratiche come il potere  dei sapienti e le teorie calate dall’alto, è stata in tal modo inquinata  una realtà storica, cui compete unicamente il racconto del passato .  Sembra qui adatta  una citazione dal libro “Divided Country” di John Foot:”Raramente lo Stato altri enti pubblici hanno istituito pratiche commemorative durature e comunemente accettate. Capita così che spazi pubblici siano dedicati alla comunicazione virtuale, senza decifrare storie condivise e segni di appartenenza collettiva: non luoghi.

Le parole  sul monumento senza radici indicano esami di coscienza accuratamente evitati. Tracciano segni visibili di memorie che creano divisione. Sono fotogrammi fermi, dietro i quali rimangono nascosti i significati incontestabili.

1- La cultura è uno strumento per entrare nel mondo.

2- La cultura imposta è un sostituto del mondo.

3- Soltanto la civiltà dell’incontro può diventare cultura.

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Osservazione su alcune statue presenti nel monumento (pag. 29): Anche la simbologia cristiana dovette servire allo sfarzo fascista. Qui il “Cristo risorto” di Libero Andreotti accanto ai busti di Fabio Filzi e di Damiano Chiesa.

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Da un altro esame emerge che nulla lascia affiorare una volontà che stia lavorando a un nuovo compito. Le parole “progresso”, “aspirazione”, “identità”… mancano del tutto. Risalta all’occhio un’ignoranza di ritorno, vale a dire un’assurda idolatria per glorie imperiali comunque a buon mercato, visto che il passato totalitarista, lo stato di polizia, l’ossessivo indottrinamento politico a scuola e nei giornali, le sistemazioni su misura per i fedeli del Regime non potranno  (ed. Rizzoli) “Il mondo è bello all’esterno, bianco, verde e rosso, all’interno però esso è nero e buio come la morte.” Walther Von Der Vogelweide (Poeta Trovatore tedesco) più tornare, almeno così si spera. A proposito, un dizionario riporta per il vocabolo “Regime” la definizione “Sistema di mangiamento”.

Anche i tramonti tramontano.

I progettisti del monumento hanno di certo scelto intenzionalmente di scrivere l’inesorabile epigrafe in latino al fine di sottolineare la discendenza dall’ Impero Romano. Una tale affermazione sarebbe però paradossale quanto l’asserzione che esista una continuità tra gli antichi Elleni e i Greci d’oggi. Essi si saranno probabilmente anche affidati a Santa Ignoranza, la Patrona degli stupidi, confidando eventualmente che nessuno in Sudtirolo fosse in grado di capire l’iscrizione a dimostrazione del dichiarato sottosviluppo e dell’arretratezza. In ogni caso il significato programmato è noto. La popolazione locale è, o deve gradualmente diventare, un oggetto estraneo al proprio Paese. Essa non è degna di governare il proprio Paese e la terra che per secoli ha coltivato. Meglio sarebbe se essa svendesse la propria primogenitura, come fece Esaù, in presenza di un’improbabile superiorità morale o di altre forzature apologetiche disossate dal tempo.  La Costituzione italiana proclama tra l’altro, all’art. 3, che non debbono esserci distinzioni tra i cittadini, lingua compresa si suppone. Non si ravvisa nel monumento alcuno spazio per il pensiero, le inclinazioni e le istanze altrui, cioè degli “altri”. Traspare un orgoglio intossicato per abuso di se stesso. Insiste la velleità di uniformare le credenze, i costumi, le nazionalità affinché le elite al potere governino in modo univoco il mondo. Non si riconosce alcuna intercultura, ossia rimane esclusa ogni possibilità di dialogo. Il Comandamento “Onora il padre e la madre” non deve esistere, se rivolto alla popolazione storica: altrimenti ci sarebbe il rischio che il precetto divino includa gli antenati e quindi l’identità locale, che mai fu ansiosa di unirsi al Regno d’Italia. I grafemi incisi sul frontone del monumento trasmettono un senso di estraneità, una slogatura culturale con l’intero ambiente. Un congiuntivo con gli occhiali da sole, insomma.

Non c’è dubbio. Il monumento fu realizzato per dividere. La sua costruzione fu preceduta da un atto di distruzione. Paolo Pagliaro cita una chiara affermazione di Ettore Tolomei: ”Il monumento dovrà imporsi come segno di conquista e di imperio.”

Qualcuno sostiene che nel dopoguerra qualcosa sia cambiato. Si tratta di un messaggio gridato in faccia a tutti i non italiani. Un evidente baluardo contro altri gruppi etnici, che sono gli esperti del passato. Come potrebbero gli storici spiegare allora il fatto che ancora nel 1957 un gigantesco bassorilievo fascista sia stato completato a Bolzano con denaro pubblico, benché l’Italia avesse già da molto tempo la Costituzione antifascista?

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Pag. 31 [Lisa, venticinque anni, tedesca (intervistata nel 2002)]:”Il nome piazza della vittoria, non mi suona bene, mi suona di guerra e di lotte”.

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 Verrebbe naturale domandarsi il motivo di tanti sforzi per dimostrare l’italianità, e non l’italianizzazione forzata della zona, evidente durante il Regime e strisciante in seguito. In realtà tale dichiarazione d’intenti non è mai cessata e il salto emotivo generazionale, rispetto a idee che avevano alle spalle il fascismo e il colonialismo, non c’ è mai stato. Si tratta di ben altra questione, ma basta considerare anche l’attuale, ossessiva pubblicità di prodotti alimentari per convincersi. Ancora alle ore 13 del 29 aprile 2005 un programma della RAI-TV si rivolgeva ai telespettatori chiedendo: ”Siete sicuri che tutte, ma proprio tutte, le zucchine sul mercato siano di produzione italiana?” Ridicolo o patetico?

Nonostante tutto i cittadini sono consci che, come la storia insegna, anche i vermi solitari delle dittature possono avere i propri incidenti di percorso. Bisogna servirsi nel frattempo delle protesi fisiche e morali, nonché degli ormoni critici, che il pensiero e la solidarietà tra barbari offrono. Qualcuno potrebbe sperare che, se anche i muri cadono, lo stesso possa valere per i monumenti. In questo caso agli impazienti non rimarrebbe altro che affidarsi a Santa Pazienza, Patrona dei cittadini. Altri potrebbero invece pensare che il nazionalismo italiano sia immortale, secondo un’illazione di Carlo Bertelli, storico dell’arte e professore italiano (n. 1930), contenuta nel saggio “Bisanzio  e il Fascismo” .

In ogni parte del mondo il paesaggio è storia, umanità, immaginazione sedimentata. Anche i paesaggi si possono infatti leggere. Cotale lettura suggerisce che quanto è fuori posto, prima o poi cadrà. Se si dovesse seguire il consiglio di Indro Montanelli, cioè di fidarsi dei propri disgusti piuttosto che dei propri gusti, il monumento di Bolzano sarebbe un tasto nero nella serie eburnea, una sfida architettonica al paesaggio circostante. Un edificio dall’aria colpevole, complice scalcinato dell’era dittatoriale. Molte opere architettoniche del Regime sembravano allora come guarnizioni su certe torte di gesso durevolmente esposte nelle vetrine di alcune pasticcerie. C’erano canditi, panna montata, ciliegine, immancabili fragoline del bosco, zucchero a velo, mirtilli perfino. Tutto appariva appetitoso. In realtà sotto il dolce c’era solo una vuota anima di cartone. L’arte non deve essere infatti autoreferenza, ma energia sorgiva che si propone di intervenire sui vari aspetti della vita umana. L’arte in generale, e l’architettura in particolare, riguardano la convivenza civile e la qualità della vita. Non bisogna tuttavia dimenticare che bellezza vuol dire anche sostenibilità.

Tra le varie giustificazioni a difesa c’è quella che si tratta di un’eredità del passato. Il discorso sembra sensato, benché i diktat della storia siano più deboli di quelli della natura. Ma se un monumento rappresenta solo il passato, deve rimanere silenzioso come le piramidi e il Colosseo, estraneo a certi compiacimenti simbolici graditi ai totalitarismi. Kierkegaard sosteneva : “L’estetico non deve prevalere sull’etico. Le ragioni dell’arte non soppiantano quelle della vita”. A causa della sgradevole scritta ciò non avviene. L’epigrafe ha tutte le caratteristiche dell’irreversibilità. Essa riguarda quindi anche il futuro. Secondo la mentalità del Regime di caramellata memoria il passato doveva adeguarsi alla visione nazionalista di futuro. Il passato remoto “excoluimus” possiede quindi semanticamente anche una presuntuosa valenza di futuro. Altro che relitto del passato! La palese interpretazione vale più della percezione. Quel monumento pretende ancora il diritto di spostare i confini del tempo in cui fu creato.

evocata Sören Kierkegaard, filosofo danese (1813–185“L’architettura è l’arte di dare rifugio alle attività dell’uomo: abitare, lavorare, curarsi, insegnare e, naturalmente, stare insieme”. Renzo Piano (Architetto) 34  vige il principio che ogni intento discriminatorio, specialmente se si tratta di fondamentali diritti come l’uguaglianza culturale dei cittadini, è censurabile, la scritta appare offensiva. Essa esprime motivi di discordia: di qua gli inimitabili civilizzatori; di là un pollaio di incivili indigeni. Di qua coloro, e sono tanti, che devono spargere il letame sulle fragole. Di là, e sono in numero minore, quanti versano invece con piacere la panna montata sulle fragole. Altro che la drastica scena della separazione delle pecore dai capri evocata nel Vangelo di Matteo! Tutti gli elementi richiesti per l’interdizione morale di popoli, inesorabilmente considerati inabili nella lingua, nella normativa giuridica e nell’arte, sono presenti. Non contava nulla l’evidenza che l’analfabetismo nel 1900 fosse il 7,1% nel Tirolo, ma il 55% in Italia (21% ancora nel 1931!). Non si comprende che cosa ci fosse da ammaestrare in Sudtirolo. Si dovrebbe piuttosto rammentare che una migliore scolarità contribuisce sempre a una maggiore stabilità nella società e a una minore propensione ai conflitti. Il livello di istruzione ha inoltre sviluppato il rispetto dell’ambiente, che molti invidiano alla Provincia Autonoma di Bolzano. A questo punto soltanto il passo verso un’esclusione degli “altri” dall’appartenenza al mondo civile sembra veramente breve, specialmente se la scritta sul monumento viene conservata e coccolata. Basta ignorare che nel frattempo ci siano state le rivoluzioni scientifiche e industriali, l’Illuminismo e tutto il resto.  La scritta è anticostituzionale in quanto negazione dell’uguale dignità dei popoli. A nulla vale il pretesto che la vittoria giustifica i mezzi come dice il proverbio, o qualcosa di simile è incostituzionale.“Anch’io ho imparato a dire “no! Ma c’è voluta una guerra mondiale”, sostenne  Giovanni Guareschi (scrittore e saggista italiano, 1908–1968).  La politica è rimasta immobile circa l’opportunità di modificare certe incongruenze. Il rispetto delle differenze rimane debole.

La politica dovrebbe imparare che anche le opere importanti invecchiano e che il loro messaggio diventa retorica all’anguria che sa d’aceto. Qualche monumento rischia di diventare un “baucco”. Si sa, la parola è attualmente in disuso, ma il significato permane. Il baucco è un cavallo di poco pregio, un ronzino. Per accertare soltanto se la puledra è in calore, il mediocre quadrupede le viene accostato. Qualora venga manifestato gradimento per la presenza maschile, la rozza viene subito riportata nella stalla e sostituita con migliore risultato da uno stallone autentico. Anche le puledre hanno le loro preferenze.

Molti preferirebbero che il monumento di Bolzano fosse smontato a similitudine di quanto accaduto a suo tempo per residue tracce fasciste a Firenze, Siena e, ripetutamente, nella stessa Roma, oppure come è stato fatto per l’obelisco di Axum . Anche le antiche pitture murali egizie sono tornate a Luxor. In questi ultimi recenti casi le opere erano state però reclamate dalle 63 Obelisco di Axum: la Stele fu prelevata nel 1937 in Africa Orientale e trasferita a Roma. È stata restituita nel 2005. originarie sedi culturali africane. La costruzione che sorge a Bolzano non sarebbe invece desiderata da nessuno, nemmeno nella città che fu la culla dell’espansionismo imperiale.

Secondo alcune fondate istanze essa potrebbe essere quindi distrutta come sostanza nociva, anche in carenza di una legge che imponga il disfacimento dei monumenti fascisti. Nulla vieta che un monumento diventi un insignificante ex voto. Escluso il restauro, qualche scultura potrebbe essere esposta in un contesto storico, p.es. in un museo. Per rinnovare non è tuttavia necessario contraddire: basta approfondire. Se le superstizioni sono lecite, perché non dovrebbero esserlo le opinioni?

Certo, del monumento non si sentirebbe la mancanza e non lo si rimpiangerebbe. La civic auditing, cioè il controllo e la valutazione dei cittadini sul funzionamento della Pubblica Amministrazione, ci guadagnerebbe di certo. Chi agisce in sintonia col tempo è stato definito felice da Niccolò Machiavelli nel XXV capitolo della fondamentale opera “Il Principe”.

A questo modo si imiterebbero però, almeno in parte, sia lo stile sia l’intransigenza del totalitarismo, il quale fu molto diligente nel distruggere i monumenti austriaci nelle terre annesse. Una risoluzione di disfacimento dell’opera potrebbe assomigliare, in una certa maniera, alla proposta di Costituzione polemicamente avanzata dal giornalista Mario Ferrara e destinata a pretestuosa inefficacia, la quale si componeva di due soli articoli: “1) Non c’è più niente da fare. 2) Nessuno è incaricato di eseguire la presente legge.”  

Un dettaglio da non sottovalutare sarebbe l’eventuale lato estetico del malconcio monumento. Se esso avesse un pregio artistico, bisognerebbe riflettere in modo da non incontrare rimorsi. Il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan (1909–1992) scrisse che il monumento di Bolzano “non vale nulla e non rappresenta nulla”. Achille Bonito Oliva conferma che “in ogni caso non è un’opera d’arte, non ne ha il significato”.

È giusto ricordare che esistono anche altre istanze al riguardo. La più gustosa e originale è quella che auspica sia lo smontaggio del monumento, comprese le umilianti scritte sgradevoli nel tono e irrilevanti nella sostanza, sia il trasferimento delle sue parti altrove, magari come ingresso per l’ipotizzato, futuro ponte sullo stretto di Messina. Particolare interessante: ci sarebbe pure disponibilità per contribuire alla spesa.

Una certa ragionevolezza della popolazione locale, sicuramente diversa dall’ostentazione del Regime che ha realizzato il manufatto, ne consiglierebbe però la distruzione. I montanari sono devoti di Santo Scrupolo, patrono delle buone maniere. A loro non interessano le nazioni, ma le civiltà. Il nazionalismo ha infatti generato le nazioni e non viceversa, come insegnano le opere di Ernest Renan, Terence Ranger, Eric J. Hobsbawm, Marcel Detienne e Ernest Gellner. Le genti della montagna sono inoltre nate in zone ripide e devono possedere, per natura, uno spiccato senso dell’equilibrio. Dai montanari si può infine comprendere che cosa significhi una “Il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici e dai poeti”. Arthur Schnitzler, 1915 (Scrittore austriaco)  boccata d’innocenza. Nei masi di montagna non si producono soltanto pregiati generi alimentari, ma si prepara faticosamente la modernità per le nuove generazioni che amano la terra. Modernità significa essere aperti al futuro. Non sembra che questo concetto confini con l’idea di totalitarismo.

I tempi esigono ripensamenti su parecchie cose, poiché i contrasti tra passato e presente sono spesso inevitabili. Quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è consigliabile controllare che non si tratti dell’Apocalisse. Quando pervengono dalla società motivate istanze di ammodernamento, un’accorta politica dovrebbe tenerne conto e dare riscontri.

I tempi sono cambiati. Perfino centinaia di istituti monastici sono stati trasformati in alberghi per turisti, cancellando ogni traccia di pratica religiosa. Nessuno si è scandalizzato. Nulla sedimenta. Tutto scorre, come ha insegnato il filosofo greco Eraclito.

Una riduzione del disagio sarebbe ben gradita alla popolazione locale fedele alla propria identità. È giusto rispettare la visuale di quanti abitano ormai da decenni la regione sudtirolese. Rispetto spetterebbe tuttavia anche alla sensibilità di quanti abitano la stessa regione da molti secoli o addirittura dall’età del bronzo. Soltanto un infantilismo emotivo potrebbe convivere con l’incapacità di riconoscere le emozioni degli altri. Non si pretende di avere ragione per forza in questo ragionamento, ma si abbia almeno l’amabilità di chiarire dove si è sbagliato.

Sarebbe più utile la riconversione dell’arco di trionfo in una sorta di analgesico contro i ricorrenti onori tributati agli abusi verbali insiti nel suo messaggio bisognoso di aggiornamento. Una specie di laboratorio della memoria per mantenere sempre desta la vigilanza. La vita non è l’imitazione di archi di trionfo famosi, bensì il corretto uso della tavolozza dell’equilibrio per rappresentare la realtà. Per la verità dei fatti è il caso di citare lo sforzo che ha prodotto nel 2004 la dichiarazione quadrilingue, il cui testo è emblematico:

“Questo monumento fu eretto durante il regime fascista per celebrare la vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Essa comportò anche la divisione del Tirolo e la separazione della popolazione di questa terra dalla madrepatria austriaca. La città di Bolzano, libera e democratica, condanna le divisioni e le discriminazioni del passato e ogni forma di nazionalismo, e si impegna con spirito europeo a promuovere la cultura della pace e della fratellanza.”

L’esposizione presenta elementi di assoluta novità. Essa è una modesta attenuazione di un ritardo culturale. Viene usato l’antico toponimo “Tirolo”, aspramente proibito ai tempi del Regime nonché mantenuto in disuso anche dopo. Viene inoltre pubblicamente nominata la “madrepatria austriaca”, la quale evidentemente non è la stessa  spiattellata sul monumento, che nega gli stessi valori che stanno alla base della consolidata autonomia. Si ha motivo di ritenere che vi siano state parecchie sofferenze in quanti hanno strumentalmente sempre negato tale patria, poiché è obiettivamente difficile maturare a 92 anni di età.

Un risultato soddisfacente potrebbe e dovrebbe essere raggiunto mediante un accordo bilaterale, magari conseguente a uno studio congiunto, che allontanasse le tracce del pulviscolo conseguente al dissolvimento delle ideologie. S’intende per ideologia la mescolanza delle idee con il logos, dell’immagine e del pensiero, operata dalla mente. Ogni considerazione dovrebbe basarsi su due principi. Nell’organismo umano l’equilibrio si chiama salute. La giusta proporzione nella società si chiama giustizia.

L’equità e l’imparzialità, ma anche la consapevolezza politica, esigono che le parole sul monumento di Bolzano siano cancellate o almeno rimodulate in funzione postbellica con le dimensioni testimoniali della modernità. A meno che si viva ancora in un regime di democrazia autoritaria che esalta lo Stato accentratore.

Una chiara spiegazione esplicativa, accostata e non distante dal monumento, dovrebbe informare il visitatore e la cittadinanza che la mentalità sarebbe nel frattempo in gran parte cambiata. Essa dovrebbe integrare i quattro pannelli plurilingui, suggerendo che l’epigrafe sul frontone del monumento non ha, o non può più avere, quindi finalità o velleità pedagogiche. Non si tratta di un simbolo, ma di un residuo. Dovrebbero essere eliminati gli elementi simbolici. All’affermazione che gli oggetti sono il prodotto della società che li ha originati, si può rispondere capovolgendo l’affermazione. Alcune culture possono infatti diventare purtroppo un prodotto strumentale degli oggetti, delle ideologie e delle immagini. Al posto dell’attuale termine “patriae” sarebbe giusto scrivere l’ormai desueto “impetus”. “Ceteros” dovrebbe essere poi sostituito da “finitimos = confinanti, vicini”. Soprattutto in luogo di “excoluimus” figurerebbe bene un “convenimus = incontrammo”. Tutto ciò se non si procede alla cancellazione, s’intende.

Importante è che non passi troppo tempo. È noto che anche la migliore insalata diventa fieno, se non consumata in tempo.

A certi epigoni che tirano spesso in ballo la superiorità romana e l’annesso diluvio di delirio, dovrebbe essere fatto finalmente presente che tra il II secolo a.C. e l’avvento del Principato, il potere romano fu esclusivamente sanguinario. Per prima cosa fu distrutto un regno fondato in Spagna da Quinto Sertorio  (126-72 a.C.), ufficiale del Console Mario (157-86 a.C.) che si era salvato dai massacri di Silla (138-78 a.C.). La dittatura continuò poi con Cesare, il quale si scrisse la propria storia. Cicerone esultò quando apprese la notizia della morte di Cesare. Cesare Ottaviano seguì poi l’esempio di Cesare e di Crasso. Quinto Sertorio, uomo politico Mario, console e condottiero romano (157–86 a.C.). 66 Lucio Cornelio Silla, generale e uomo politico romano (138–78 a.C.). 39 continuò poi con Cesare (100-44 a.C.), il quale si scrisse la propria storia. Cicerone esultò quando apprese la notizia della morte di Cesare. Cesare Ottaviano (63 a.C.-14 d.C.) seguì poi l’esempio di Cesare, di Crasso (114-53 a.C.) e di Pompeo (106-48 a.C.) per instaurare violentemente il Principato. Non c’è proprio molto da rimpiangere o di cui vantarsi.

Ai nostalgici dell’accensione nazionalistica e dell’imperialismo, che considerano il monumento una stella, bisognerebbe infine rispettosamente rammentare che anche le stelle possono diventare cadenti.

Il ragionamento sulle vere o supposte glorie del passato dovrebbe concludersi con le parole di Bernardo di Morlay: ”Nomina nuda tenemus = Noi non possediamo ormai che nomi spogli della realtà che essi significano.” A qualcuno forse non piacerà, ma “lascia pur grattar dov’è la rogna” (Dante Alighieri, Paradiso, XVII, 127-129).     i snazionalizzazione del Sudtirolo da parte del fascismo.” ======================================================

L A     S T A M P A      *   Avvenire, 20 settembre 1988.

(…)   Demolizione del monumento della vittoria esistente a Bolzano.

Forse in nessuna città del Paese sussistono intatti come a Bolzano monumenti e segni del regime fascista. Tra questi il più clamoroso, e il più insultante per la maggioranza degli abitanti della Provincia, è il alla Vittoria nella prima guerra mondiale, la vicenda a seguito della quale i sudtirolesi si trovarono contro la loro volontà inclusi entro i confini dello Stato italiano.

In forma di arco trionfale romano in marmo bianco, ornato tuttora di giganteschi fasci littori, e corredato da cubitali iscrizioni latine che celebrano la nuova frontiera e il diritto-dovere dei latini di civilizzare i germani, il monumento della vittoria di Bolzano è un concentrato di retorica fascista, del tutto in carattere con i tempi in cui venne costruito. Ciò che sorprende non è dunque che Mussolini l’abbia fatto edificare, quanto piuttosto che ad oltre quarant’anni dalla caduta  del regime la Repubblica italiana non  non abbia ancora provveduto a farlo demolire. Meglio tardi che mai: si è sempre in tempo a demolirlo adesso ed a seminare al suo posto un bel prato nell’attesa che, a riconciliazione avvenuta ed a pacifica convivenza realmente attuata, al suo posto si costruisca un monumento alla fratellanza inter-etnica degli abitanti della Provincia (…).

Robi Ronza

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“Il monumento alla vittoria finisce così per riunire in sé, simbolicamente, l’immagine dell’oppressione,  coinvolgendo in questa identità anche la figura del Battisti, due volte  odiato: da vivo per aver abbandonato l’Austria e da morto per essere stato strumento della volontà di snazionalizzazione del Sudtirolo da parte del fascismo”.   (Vincenzo Calì, storico e professore).

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L’ E S T R E M A   (F)U N Z I O N E

La vera patria è quella in cui si incontra il maggior numero di persone che si conoscono” (Stendhal)

Le assonanze del titolo non confondano. Esse non alludono a un Sacramento e nemmeno a un Rito, ma a un esercizio di logica in senso storico, linguistico, umano. Stupisce che a Oderzo, dove esiste da lungo tempo uno dei più prestigiosi istituti scolastici, non siano emerse riflessioni sociostoriche sulla realtà, ma si insista piuttosto in errate attribuzioni peraltro smentite da testimonianze archeologiche.

Una insinuazione maligna attribuisce tale carenza a buona educazione coloniale. Si preferisce tuttavia pensare che la storia sia una grande maestra, ma che taluni scolari siano scadenti.

Tutte le civiltà lasciano tracce. L’archeologia è la scienza che si occupa delle antichità nei loro confronti con la storia e con l’arte. Le lapidi rappresentano le orme e le vestigia più evidenti di un’epoca per la loro leggibilità e contiguità con i concetti fondamentali del tempo, che i Greci denominavano “Kairos” e “Kronos”: rispettivamente il tempo di Dio, che trascende la dimensione temporale, e il tempo degli uomini che regola la storia terrena.

Le lapidi sono come le meridiane: non basta ammirarle; esse devono anche segnare il tempo giusto di cui abbiamo bisogno, ma che a sua volta ha bisogno di noi per una sincera visione della vita. Il Museo archeologico di Oderzo ha un notevole numero di lapidi in latino, che nell’antichità era la lingua di comunicazione. Le epigrafi sepolcrali, autentiche ombre delle ombre, sono numerose. Per subalternità culturale si sostiene che si tratti di iscrizioni romane. Sarebbe come dire che Parigi è inglese perché molte Istituzioni usano correntemente la lingua inglese. Il contesto chiarisce che Parigi è francese e ogni mascheramento è infondato.

Le lapidi opitergine sono interessanti. Esse suggeriscono tuttavia che la cultura e la storia hanno bisogno di idee trasgressive. Lo storico Theodor Mommsen (1817 – 1903) fu a Oderzo nel 1857 per decifrarle. In quell’occasione egli notò che mancavano 36 iscrizioni riportate dalla tradizione.-“I danni della storia inibiscono la creatività innovativa”, ammonì Friedrich Nietzsche.

Un esame delle iscrizioni opitergine, tenendo presente il fondamentale testo di B. Forlati Tamaro, può fornire indicazioni anagrafiche sulla popolazione del tempo, ricordando che “gentilizio” significa appartenente alla gens o gruppo parentale, “cognomen” distingue un individuo all’interno della gens e “patronimico” è la parte del nome di persona che indica la discendenza paterna.

Una notevole numero di traduzioni fornisce informazioni tanto esatte quanto sbalorditive:

1) Marco Fulvio Marcellino seviro di Concordia e di Oderzo (pose) a sé e alla moglie, la liberta di donna Renna Ligide e lo fece vivente. [2° sec. D.C. – Marcellino è forma latinizzata dell’istriano Marcusenus.- Il sevirato era una carica onorifica concessa annualmente alla nobiltà locale. Da non confondersi con gli omonimi sacerdoti augustali, riservati a Roma].

2) Soldato della XIV legione Gemina nella centuria di Lucio Acirio, militò per 19 anni, visse 43 anni. È qui sepolto. [Il ritmo delle frasi brevi filma gli avvenimenti].

3) A Marco Letorio Patercliano figlio di Marco della tribù Papiria, quattorviro per la seconda volta, addetto all’erario, salio, patrono del Collegio… [1° sec.d.C. – sacerdote salio.- Laetorius era etrusco: un liberto.- I quattorviri curavano il censimento della popolazione ogni 5 anni (ufficiale dello stato civile) e dovevano essere di condizione agiata. Dal 90 a.C. sostituirono i duoviri, che erano un organo collegiale di governo nelle colonie composto da due persone].

4) C(aio) Ato C(ai) f(ilio). [“Ato” è insolito con una sola “t”. Si tratta di una composizione gallica del venetico].

5) C. Calpurnius / C(ai) f(ilius) Calavo .[Il nome è di origine etrusca, ma non necessariamente toscana].

6) C(aius) Craminius Q(uinti) f(ilius) Jaunianus. [1° sec. d.C. Il suffisso in –anus indica un figlio adottivo – derivazione preromana].

7) Marco Cespio Optato figlio di Marco fece da vivo alla nonna, alla sorella, al padre. [Optato è frequente tra gli schiavi – periodo giulio-claudio].

8) Tito Crutonio figlio di Tito [Stele – Il nome con 2 cognomi denota origine etrusca].

9) Have mihi / Heracle fili /incomparab /ilis qui vixit/ annis VIIII, men /sibus XI diebus /XIII/ Pater pientis/ simus posuit/ filio merenti. [2° sec. d.C. – rispecchia il dolore del padre, servo di scarsa cultura ma con sentimento profondo. La processione dei dati scolpisce il profilo dei personaggi].

10) M(anius) Laelius P(uli) f(ilius). [1° sec. d.C. – Frammento di lapide sepolcrale – Laelius è un nome di liberto].

11) C(aio) La elio / C(ai) l(iberto) / Optato. [1° sec. d.C. – Optatus = cognome di schiavi].

12) A Marco Levio Felice, a Calvenzia Marcella figlia di Quinto genitori ottimi fece da vivo Marco Levio Marcello. Sulla fronte piedi XXII, in profondità piedi XLIII [1° sec. a.C. –stele con testa di Medusa- Levio è un nome venetico e ricorre nelle zone mistilingui, dove si è conservato qualche termine dell’antica lingua].

13) …O]ppius P(ubli) f(ilius) ,1° sec. d.C.- Non compare il cognomen, circostanza rara. Non era romano].

14) L(ocus) s(epolturae) / Oppi April(is) / in fr(onte) p(edes) XXXII / ret(ro) p(edes) LX [Il nome “Aprilis” si riferisce a liberti ed era frequente in Dalmazia, Istria e nelle Venezie].

15) P(ublius) Peticius P(ubli) l(libertus) – Hannibal / Peticia P(ubli) l(iberta) Surisca (due liberti).

16) …et C(ai) Petridi [1° sec. D.C. – Una gens Petridia non ricorre nell’onomastica romana).

17) P(ublio) Pontio (femine) l(iberto)/ Rufioni [coperchio d’urna].

18) [P]opilliae M(anii) f(iliae) Paetillae / Carminia Q(uinti) f(ilia Semprulla/ filiai [urna rettangolare – il nome Popillia è celtico .- Semprulla è un gentilizio da Sempronius].

19) D(is) M(anibus) s(acrum)/…Probata Fructo/ coniugi s(uo) pentissi/mo publico nidem si/[bi] et viro fortissi/mo in fronte p(edes), VIII/ in agro p(edes) XXXX .[Fructus è il compagno di Provata, impropriamente indicato quale marito. Probata è una liberta e Fructus è un servo del Municipio. La stele è del III sec. D.C.].

20) Pupia (feminae) l(iberta)/ Loeme [Loeme è un cognome sconosciuto, non romano.- Urna rettangolare del 1°secolo d.C.] .

21) …ius/…ysius/ a…a Quarta/…si Luci l(iberti) v(ivi) f(ecerunt) /…et [Quarta e Lucio erano liberti].

22) A Gaio Rubrio Capitone figlio di Gaio della tribù Claudia e ai liberti Secondo, Optato e Fusco [3 liberti].

23) Sereno Valerio, Serena Massima mi fecero per il figlio dolcissimo Valentiniano che visse cinque anni, trenta giorni, svanito per immatura morte [lapide sepolcrale fine 1° s.- Sereno è nome derivato dal celtico Sarinus].

24) Seconda Fulvia/…Lopenus f(ecit) [ Fulvus non è cognomen romano. Lopenus potrebbe derivare da Lupinis].

25) L(ucius) Seius L(uci) f(ilius) Faustus /T(itus) Seius L(uci) f(ilius) Fronto/ vivi sibi et/ Pisentiai Secund(ai) matri/ Seiai l(uci) filiae sorori .[Iscrizione del 1° sec. d.C. dedicata da due fratelli alla madre e alla sorella. Il gentilizio Pisentia non è comunque romano, ma di origine etrusca].

26) C(aius) Sestius P(ubli) f(ilius) Rufio/…sibi et Fau(stae)… [Sestus è un gentilizio frequente in Istria. Diventa cognomen a Trieste e Concordia. Rufus è invece sia gentilizio sia cognomen – edicola sepolcrale].

27) Marco Socellio Gleno fece fare per testamento per sé e per la madre Socellia Pilisma liberta di Marco. [L’ara sepolcrale risale alla prima metà del 1° sec. d.C. – Il gentilizio è di origine venetica].

28) Per gli dei Mani della figlia Turelia Terza il padre Tito Turellio Tuberone figlio di Tiberio ordinò che fosse fatto. [1° sec. a.C. – Tuberose allude a un difetto fisico. Turellius è un gentilizio di origine venetica].

29) L(ucius) Valerius/ Megabocchus [Il cognomen allude al celtico: manca infatti il patronimico – ara sepolcrale]

30) Sepolcro di Tiberio Varo figlio di Tiberio, di Caio Varo figlio di Tiberio, di Tito Varo figlio di Tiberio Luogo della sepoltura sulla fronte piedi 30, in profondità piedi 70. (La gens Varia era di origine locale, non romana] .

31) A) – Publius/ Veneteius P(ubli) [l (ibertus)] / Philostratur… B) – P(ublius) Veneteius P(ubli) [l(ibertus)…] / sexvir arcum s…/ sibi patrono p(osuit)… [Epistilio (architrave o elemento architettonico orizzontale) del 1° sec. d.C. – Veneteius è logicamente gentilizio da “Veneti”].

32) Vettia C(ai) f(ilia) /t(estamento) f(ieri) i(ussit) (Vettia, figlia di Caio, ordinò che fosse fatto per testamento) .[Vettia era una liberta – Il cognomen manca, ma non per la condizione sociale: si usava talvolta per le donne].

33) Gaio Vettio liberto di Gaio fece per sé da vivo e per la moglie Arutia figlia di Tiberio. [Gaio Vettio era un liberto che aveva sposato una donna di origine etrusca, probabilmente anche essa liberta].

34) Volcenia Marcellina figlia di Lucio lastricò l’area e la circondò con un parapetto. [ Lapide incorniciata – Il nome della donna deriverebbe da Volginius, comune nel territorio istro-veneto].

35) Quinto Carminio Filerone, sciogliendo un voto, dedicò un altare alle Vires [Iscrizione del 3° sec. d.C. – Il cognomen è di sicura derivazione germanica – Le “Vires” erano divinità locali].

36) A Gaio Sempronio Cassiano figlio di Gaio della tribù Papiria Lucio Ragonio Quinziano fece fare per Testamento al figlio dell’amico. [L’iscrizione risale alla fine del 2° sec. d.C. e la gens Ragonia era tipica di Oderzo].

37) AGO. [Potrebbe essere un frammento di “Ragonia” – Lastra spezzata].

38) Tito Ennio Planco .[Iscrizione del 2°/3° sec. d.C. – Poiché manca l’indicazione della tribù, si tratterebbe di uno straniero non identificabile].

39) Lucio Rattio figlio di Sesto fece da vivo per sé, per i suoi e per la moglie:al padre Sesto Rattio figlio di Quinto, alla madre Cassia figlia di Sesto. [Prevale una serie di “ordinali”. Si potrebbe trattare di liberti].

40) RO.MA.NUS .[Scritta su un mosaico risalente al IV sec. d.C. in cui si vedono un uomo e un cane.- Il nome sarebbe quello del levriero.- Sono singolari i punti tra le sillabe. È probabile che il mosaicista li abbia inseriti per riempire spazi vuoti. Horror vacui? L‘uso era frequente anche nelle iscrizioni venetiche].

41) Al signore nostro imperatore Cesare Marco Aurelio Valerio Massenzio pio, felice, invitto, augusto  (Miliario = colonna in pietra che sulle strade maestre segnava ogni miglio il numero delle miglia da Roma).

Nella lista sopra riportata non compaiono Romani, ma soltanto nomi usualmente locali a eccezione, s’intende, dell’ultima iscrizione con tutte le attribuzioni spettanti all’Imperatore. Ci mancherebbe altro!

Prevale la presenza di liberti. Bisogna premettere che gli schiavi erano semplici “cose”, res vivente senza alcun diritto.La condizione di schiavitù era riservata agli stranieri per sconfitta militare o indebitamento. Il costo di uno schiavo oscillava tra i 1200 e i 2500 sesterzi, tenendo presente che un sesterzo valeva circa 2 Euro alla fine della Repubblica. I ricchi potevano avere 10.000 e anche 20.000 schiavi, che potevano anche venire affittati. Gli approvvigionamenti maggiori di schiavi derivarono dalle popolazioni dei Cimbri e Teutoni (15.000 negli anni 102 – 101 a. C.) e della Gallia (un milione negli anni 58 – 50 a.C. ai tempi di Cesare). Nel secondo secolo d.C. il mantenimento degli schiavi costava troppo e fu possibile rimetterli gradualmente in libertà.

La legge Fufia Canina consentiva nell’ anno 8 a.C. l’affrancamento di un quinto degli schiavi.- I “liberti” avevano in media 30 anni e, dopo la terza generazione, acquistavano tutti i diritti civili. Essi ebbero non poche benemerenze imperiali: da Claudio per avere armato navi commerciali con i loro risparmi, da Nerone per i loro capitali impiegati nell’edilizia, da Traiano per avere aperto forni. Augusto autorizzò perfino matrimoni tra liberi e liberti. Se i liberti erano schiavi affrancati, non potevano quindi essere stati romani!- Ancora meno i militari delle legioni. Queste erano già da tempo costituite da Illiri e Germani. Alla fine del servizio, che era stato aumentato da 16 a 20 anni dall’ anno 6 d.C., i congedati ricevevano quale “liquidazione”, o “tfr”come oggi si direbbe, un pezzo di terra. Si costituì in tal modo il tessuto più numeroso della popolazione, cioè la componente agricola.

A questo punto spiace per quanti a Oderzo provano un entusiasmo immerso nella quiete amniotica per le loro ascendenze romane. Altrettanto dicasi per i relativi finanziamenti, che sembrerebbero attualmente cessati. Non c’è traccia di un ceto romano residente a Oderzo con diritto a una tomba con lapide. Non si registrano a Oderzo iniziative e misurate agiatezze romane che non deludessero il dono della vita facendo bene le cose. Gli opitergini non erano e non sono quindi romani, ma vassalli di Roma come altri popoli e gli edonisti di cui Erode era re e tiranno.

Uno spettro si aggira inoltre nella storia: il sospetto (tuttavia improbabile dati i tempi) che le iscrizioni, di cui Mommsen lamentava la sparizione, dimostrassero la vera composizione della popolazione e fossero, quindi, state fatte sollecitamente sparire. Alcuni maligni hanno insinuato (con maggiori probabilità, considerati ora i nostri tempi) che la sottrazione potrebbe anche ripetersi per le iscrizioni sopra riportate. Anch’esse disattenderebbero, infatti, talune illusioni genealogiche capitoline. “A pensar male si commette peccato, ma si indovina”, è stato autorevolmente sostenuto. L’eventualità sarebbe tuttavia da escludersi. Al massimo potrebbe verificarsi qualche danneggiamento. Non sarebbe la prima volta. Si ricordi la famosa lapide apposta nel palazzo Amalteo nel 1824 e frantumata nel 1866, colpevole di aver tramandato una bella pagina di storia autentica della città. Non si riesce a ripristinarla!-

Neppure da escludere sarebbe, infine, il subdolo silenzio sui celebri reperti da parte della scuola e della stampa. La limitazione della cultura è come una limitazione della libertà religiosa. Per il resto distinguere il vero dal falso non è più compito di chi scrive, spetta invece a chi legge.

(Pubblicato dal mensile  “IL DIALOGO”, Oderzo, giugno).

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1915-1918

L A  B A T T A G L I A  D I  V I T T O R I O  V E N E T O

“Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli Italiani: la verità che gli Italiani devono lasciarsi dire”. (Giuseppe Prezzolini, scrittore e giornalista italiano (1882-1992): “Vittorio Veneto, Quaderno della Voce, serie terza, Nr. 43, pag. 34/35).

Nessun testimone, compresi i reduci insigniti dell’onorificenza di Cavalieri di Vittorio Veneto, ricordò quello scontro armato nella Grande Guerra.

L’accostamento di una battaglia a un luogo tanto lontano è una contiguità che nella realtà non esiste, un assurdo stereotipo estraneo alla storia. Anche gli omonimi musei della vittoria diventano un non senso. Lo sarebbero stati anche se intitolati “Museo del Piave”. Fino al 28 ottobre 1918 il vero conflitto fu infatti sul Piave, che dista 27,7 km. da Vittorio Veneto. Già per una “Battaglia di Conegliano Veneto” la distanza, sebbene dimezzata, sarebbe stata esagerata.

Il traguardo dell’Imperatore Carlo I° non era la vittoria, ma la fine di una guerra da lui non voluta. I combattimenti cessarono unilateralmente il 29 ottobre in coincidenza con le dichiarazioni di indipendenza cecoslovacca, croata e ungherese e del ritiro dei relativi contingenti dal fronte indotto dalle idee rivoluzionarie. Che cosa avrebbe potuto fare l’Imperatore, se non ordinare a sua volta la ritirata?Un graduato entra correndo a cavallo nella cittadina di Sacile e annuncia la ritirata” (Antonio Moret, San Giovanni del Tempio, pag. 319). La ritirata unilaterale non è una novità assoluta. Persino in campagne militari internazionali fu praticata. Essa è ammessa nelle forze armate di estrazione tedesca. Recentemente coincise, seppure simbolicamente, con la fine del pontificato di Benedetto XVI: la Guardia Svizzera fece un passo indietro dal confine fino a quel momento vigilato e depose l’alabarda.

L’avanzata italiana nella Sinistra Piave non trovava ostacoli il 30 0ttobre 1918. Non si segnalavano austriaci a S. Giacomo. Il sindaco ing. Troyer informava che eventuali ritardatari non avrebbero potuto ostacolare la colonna italiana Piella forte di 420 effettivi. I Lancieri di Firenze poterono quindi entrare vittoriosamente in città. Una cartolina commemorativa indica comunque la data del 31 ottobre 1918. Il bollettino di guerra n. 1268 dichiara che la guerra era durata 41 mesi. Fatti i debiti conti, nei dal 3o ottobre al 4 novembre non vi furono combattimenti. Questi sono gli estremi della famosa battaglia e della altrettanto celebre vittoria. Basta leggere il colombigramma n. 66 del gen. Brussi, dove non si parla di battaglia.- Un ulteriore dettaglio interessante: i monumenti ai caduti, i cimiteri militari, gli elenchi comunali, gli ossari…non evidenziano caduti in combattimento dal 30 ottobre in poi, se non per precedenti infermità. Ricerche in Austria hanno dato lo stesso risultato.

L’immagine di un fatto d’armi senza vittime è confortante, ma purtroppo non credibile.

Stampa, retorica e dimensioni nazionalistiche italiane insistono tuttora su una battaglia incruenta. La scuola schiera nella circostanza parecchi broccoli nell’orto dell’istruzione. Non sembri esagerato. Ernesto Galli Della Loggia è ancora più esplicito:”La scuola italiana non riesce a conferire alcuna autorevolezza a nessun fatto, pensiero, personaggio o luogo di cui si parli nelle sue aule (Corriere della Sera 21.8.2008). Infine “l’opinione pubblica priva di scrupoloso esame dei fatti non è affatto un’opinione. È semplicemente un atteggiamento. Non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto”, secondo Mark Twain. Si potrebbe pensare a circonvenzione di incapace. Non aveva torto lo scolaro veneto di IV elementare che scrisse nel compito in classe:”I punti cardinali sono 4.- Se ci voltiamo indietro da come ci hanno detto di andare, quello è il nord” (voto: insufficiente!).

Perché l’equivoco? Il pretesto che Vittorio Veneto fosse un obiettivo geografico centrale nel piano strategico italiano (gli altri erano Soligo, Tarzo, La Priula e Grave di Papadopoli, dove caddero 4.300 combattenti alleati) non regge. Era male chiamarla Battaglia di Nervesa?

La battaglia di Roncisvalle (Orreaga in basco) del 778 d.C. non fu chiamata “diPamplona”, centro lontano dai fatti quanto Vittorio Veneto dal Piave. Lo scontro di Capua del 212 a.C. non fu mai detto di Napoli, città distante 25 km.- La lotta di Zama del 202 a.C. non fu ambientata a Draha-el-Metuam, cioè a 13 km.- Lo stesso vale per Austerlitz (1805) e Königsgrätz (1866). La battaglia di Wagram (1809) non fu mai “di Vienna”, benché la capitale fosse a soli 15 km.- La battaglia di Waterloo (1815) non fu mai “di Bruxelles”, benché la capitale belga disti appena 22 km.

Il trionfalismo è una menzogna vitale, per usare le parole di Ibsen, funzionale a formare un’immagine altrimenti non sostenibile. L’Austria occupava ancora 12.000 km² di territorio avversario e nessuno dei suoi nemici era riuscito a mettere piede sul suo territorio nazionale (S.Romano, Corriere d. s. 1.06.2013). Si propose un successo in vece di una vittoria mancata.Un artifizio per distrarre i sudditi dai problemi rivoluzionari presenti e futuri, come risulta dal processo di Beatificazione di Carlo I d’Asburgo. Una Via Crucis in senso antiorario, di cui fregiarsi con effetto placebo sulla scena internazionale. Un sospetto indelebile. Una costosa convinzione allargata a mille vie, piazze, monumenti e associazioni omonime di alta spesa: l’ esborso italiano per i reduci della Grande Guerra (!) è di 5,4 milioni di Euro l’anno fino a tutto il 2013 (Oggi, 27.07.2011, pag. 30). I più giovani beneficiari dovrebbero avere 120 anni. Sarà inerzia endemica?

L’Impero austro-ungarico morì letteralmente di fame, sostenne S. Romano. Aveva quindi senso parlare di vittoria senza evocare Maramaldo (1530) o evidenziare la punta di un iceberg nazionalistico?

La città della vittoria risultò dall’unione dei Comuni di Ceneda e Serravalle in data 27 settembre 1866. Questi due paesi avevano distinte identità storiche: Ceneda di origini celtiche fin dal VII secolo, poi sede del Ducato longobardo con vescovi-conti riconosciuti perfino dalla Repubblica di Venezia: Serravalle feudo caminese dall’ XI secolo e semplice Podesteria sotto Venezia.

La località si chiamò inizialmente solo “Vittorio” dal 22 novembre 1866 in omaggio al Re d’Italia. L’attributo “Veneto” fu aggiunto con il titolo di città dal RD 22 luglio 1923 n. 1765. Il motto del nuovo Comune è “victoria nobis vita” in adeguamento alla retorica sulla Grande Guerra. Anche la Chiesa adattò puntualmente il nome dell’antica Diocesi di Ceneda in “Victoriensis Venetorum”.

Non è escluso che la localizzazione della “vittoria” a Vittorio fosse il risultato di ignoranza toponomastica. O una contraffazione come gli inesistenti sette colli di Roma. Più verosimile appare lo sfruttamento delle assonanze tra “Vittorio” e “Vittoria”. L’esercizio linguistico si chiama fonosimbolismo e riflette vitalità espressiva: consonanti occlusive accentuano forza in talune parole, mentre le fricative alludono al rifiuto.

Il concetto “Vittorio Veneto” emerse già nel 1918, anticipando il binomio toponomastico consolidato poi nel 1923. Un possibile suggerimento degno di un Gaetano Rapagnetta, vero nome di Gabriele D’Annunzio?

È probabile che la controstoria non piaccia. Sarebbero gradite prove in contrario, ma troppi sono abituati a credere solo quanto finora insegnato.

Non è un orientamento esclusivamente moderno. L’Odissea racconta per esempio che Penelope aspettò 20 anni a Itaca il ritorno del marito e rimandò sempre l’accoglienza dei Proci. Penelope non era una sprovveduta, ma astuta quanto il marito (es. la tela): il suo nome significa in greco “anatra”, cioè abile in terra, acqua e aria. Secondo Apollodoro (autore della “Biblioteca”) Penelope aveva invece una relazione con Anfinomo, il più saggio e giusto dei Proci, come lo descrive la stessa Odissea. Agamennone aveva informato Ulisse della tresca durante la sua permanenza nell’oltretomba. Omero non ne era al corrente?

La benda sugli occhi rende ciechi, ma ci vede benissimo. Liberarsene e farsi un’idea della realtà non sarebbe una cattiva idea.

Lapidi

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VOLTEJO OPITERGINO TRA STORIA E MEMORIA

(Il presente saggio di autore abituato a viaggiare nel passato non comprende nulla di politicamente corretto)

A Oderzo ci sono circa 260 vie. Una cinquantina, meno di un sesto, sono dedicate a personaggi della città o ad essa contigui. Soltanto una buona educazione coloniale poteva determinare una simile proporzione.

Una strada è intitolata a Caio Voltejo Capitone. Il merito sarebbe stato l’appoggio a Giulio Cesare (100-44 a.C.), che per caso risultava vincente contro Gneo Pompeo Magno (75-45 a.C.) nella guerra civile (49-45 a.C.). Se la toponomastica fosse stata interpretata non come storia, bensì come grammatica della memoria, della cultura e dell’appartenenza, l’omaggio non sarebbe stato forse effettuato.

La vicenda si sarebbe svolta come segue.

Una imbarcazione o zattera con a bordo 300 (o 1000) opitergini comandati da Voltejo era stata intercettata nel 49 a.C. dalla marina pompeiana presso l’isola di Krk/Veglia. L’alternativa era combattere senza speranza o arrendersi. Il contingente aveva optato per la seconda possibilità, poichè erano state offerte condizioni favorevoli. Il centurione Voltejo fu di opinione diversa e ottenne un suicidio collettivo. Soltanto sei militi sarebbero sopravvissuti. Una Masada ante litteram. Ai cadaveri fu cavallerescamente accordato l’onore della sepoltura, cosa che Cesare si guardò bene dal fare l’anno successivo per gli avversari caduti a Farsalo in Macedonia.

È normale chiedersi chi fosse Voltejo.

Il prenome Gaio, mutuato dall’etrusco, è indeterminato ancorché frequente. Il nome Voltejo non è romano. La corrispondente terminologia allude infatti a topografie lucane, uccelli di rapina, venti, sembianti. Il cognome Capitone ricorre invece in latino e significa “testone, zuccone”. Dal vocabolario non si prescinde.

Voltejo non era romano, ma venetico. Bisogna quindi cercare indicazioni nel paleoveneto, ufficialmente intraducibile ma in realtà solo arduo per chi pretende l’esclusività linguistica delle papere capitoline. Chi dissente è disubbidiente. Ebbene, si trasgredisca allora.

In un peso in ceramica per telaio si leggono due versi. Il secondo recita:”LOV(E) KLOKATU, APAJA VOLTIOM = Raccogliendo il fuso, cantando i cavalieri”.

Il paleoveneto è di astrazione illirica e l’ultimo termine deriva da forme verbali come volotom e vlatom (ma anche dal russo antico “volotЪ”), che si riferiscono alla nobiltà, alla signoria. L’appartenenza di Voltejo a una stirpe di cavalieri giustifica il suo grado.

L’episodio è riportato organicamente soltanto nella “Pharsalia” di Marco Anneo Lucano (39 – 65 d.C.), nipote di Seneca. Il lungo discorso di Voltejo, remota supposta della farmacologia bellica, raggiunge estremi di fanatismo ed è egocentrico, contagioso, intossicante. Non sembri esagerato chiedersi in quale lingua egli abbia parlato ai “coloni” opitergini (così li nomina Lucano). Un centurione avrebbe dovuto parlare in latino, perbacco. Ma quanti lo avrebbero compreso? Lo stesso problema si sarebbe poi presentato per secoli tra la lingua ufficiale della Chiesa e la ricettività dei fedeli.- Nel poema Cesare è arrogante, prevaricatore, cinico e imperioso. Non poteva essere diversamente per uno che si era scritto la propria storia. Cicerone esultò quando apprese l’uccisione de Cesare. Pompeo è sfinito, scoraggiato, sulla via del suicidio.

Il racconto evidenzia incongruenze. Mille uomini in una imbarcazione del tempo sono francamente troppi. La più grande e moderna portaerei americana “Enterprise” ne aveva meno di duemila.Trecento “coloni” su una zattera sono inverosimili. La zattera consisteva infatti in alcune botti di legno legate da catene e munite di tronchi trasversali!- Le esagerazioni si giustificano con la tendenza a glorificare l’esempio suicida: Regolo, Scevola, Coclite, Lucrezia,…..- Sorprende che Cesare non ne abbia fatto cenno nei suoi scritti. Eppure l’episodio avrebbe avuto una valenza pubblicitaria per la città dei Cesari, che si apprestava a diventare l’urbe dei Caligola e dei Vespasiani.

Tutto quanto riguarda Voltejo evidenzia insomma una dubbia storicità. Non è una novità schierarsi per la parte vincente salvo ripensamenti se le prospettive cambiano. Se il personaggio si fosse sacrificato per Pompeo, non sarebbe stato nemmeno nominato. Meritano attenzione le 300 centurie di terreno (15000 ettari) attribuite a Oderzo da Cesare per gratitudine. Cento campi trevisani per ogni suicida! Ma non è provata alcuna connessione con il caso dell’isola di Krk – Veglia. I terreni non appartenevano neppure a Cesare. Diverso è l’argomento delle costituzione della città in Municipium. Cicerone scrisse nella II^ Filippica che Marco Antonio, braccio destro di Cesare, amava circondarsi di prostitute, lenoni e furfanti (comites nequissimi) senza rivolta di opinione. Nella VI^ Filippica Cicerone precisa poi che i cittadini dei Municipi (Oderzo compresa!!) erano tenuti a rendere omaggio a simili compagnie e a mantenerle con generosità. Non c’è motivo per vantarsi.

È chiaro che l’importanza di Voltejo non può derivare da un episodio probabilmente mai avvenuto. La via dedicatagli a Oderzo lo ricorda tuttavia come primo paleoveneto entrato nella storia. Il secondo fu il padovano Tito Livio. Ci sono altre belle pagine di storia opitergina realmente accadute, cui purtroppo non viene ancora dimostrato interesse nemmeno per il ripristino di una lapide. Se le Amministrazioni Comunali hanno le spine dorsali, prima o poi dovrebbero comparire anche le rose dorsali. In altri termini la cultura può costruire nuove libertà.

(Pubblicato da “Il Dialogo”, Oderzo settembre 2014)

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R  I T  U  A  L  I        T  E  M  P  L  A  R  I

Il significato etimologico di “rituale” è un insieme di norme o di atti, di preghiere, ecc. che compongono ogni specifico rito sacro. Il significato estensivo riguarda invece un complesso di abitudini e di usi fedelmente osservati.

San Bernardo da Chiaravalle aveva stabilito il codice etico-comportamentale dei “monaci guerrieri”. La selezione dei postulanti era rigorosissima e spettava al Precettore della Magione. Le promesse degli aspiranti non venivano subito accettate. Bisognava dimostrare di accettare le durissime regole dell’Ordine.

Si cominciava con richieste assurde: rinnegare Cristo e sputare sulla croce tre volte!- Se il giovane rifiutava, veniva considerato disobbediente e rimproverato. Anche il Gran Maestro Jacques de Molay sperimentò questa procedura, ma non sputò sulla croce, bensì in terra. Il rinnegamento ebbe quindi luogo con i gesti ma non con il cuore.

Secondo una recente scoperta della studiosa Barbara Frale i Templari furono richiamati dal Papa Clemente V (1264-1314) e obbedirono epurando le tradizioni degradate. “Avendo fatto ammenda solenne per le loro colpe secondo quanto imposto dal pontefice, erano stati assolti e riabilitati nella comunione cattolica”, si legge nel documento.- Il Papa era quindi convinto, mediante la sua assoluzione, che non sarebbe stato il caso di condannare un Ordine tanto meritevole per la Chiesa. I Templari non furono pertanto eretici!- Di diversa opinione era il Re Filippo il Bello (1268-1314), che mirava alla ricchezza dell’Ordine e insisteva nelle sue accuse di eresia connesse con le cerimonie e i rituali di iniziazione. Il Re vinse sulla volontà pontificia di essere l’unico giudice dei Templari prigionieri. Due avvocati della difesa sparirono misteriosamente durante il processo. Il 18 marzo 1314 i Templari furono arsi sul rogo a Parigi senza l’autorizzazione di Clemente V.

L’abitudine templare rimproverata era di origine orientale. I Saraceni la imponevano ai prigionieri per umiliarli e renderli sottomessi. Il rituale templare aveva la stessa finalità e consisteva nei cosiddetti “baci sul sedere intesi a dimostrare la propria tempra, l’autocontrollo e l’obbedienza. La prassi doveva essere una umiliazione della recluta di fronte agli anziani. Fino alla abolizione della leva militare, qualcosa del genere resistette anche in molte caserme. Si sarebbe trattato di uno scherzo goliardico. Nel Medio Evo la pratica sarebbe derivata da gruppi siriano-palestinesi, dai quali i Templari la avrebbero appresa.- La cerimonia consisteva nel baciare l’osso sacro (da qui la definizione attualmente in uso) e non propriamente altro.- E’ tuttavia probabile che durante il 1200 si siano verificate degradazioni .

L’altro rituale attribuito ai Templari riguardava l’idolo Bafometto. Il termine deriverebbe dal greco: “baphe” e “metis”. Vuol dire “assorbimento della coscienza”. Si sarebbe trattato di un idolo consistente in un teschio umano con capelli neri ricci oppure di un capro umanoide che rievoca il “caprone di Mendes”. Erodoto scrisse nel V secolo a.C. che a Mendes, nel delta del Nilo, tutti veneravano i caproni. C’era una serie di dimensioni riconducenti a questa figurazione: carta tarocco, costellazione del Capricorno (nuovo sole dell’inverno), i satiri del mito greco, il Cornuto = Satana…-

L’accusa ai Templari di aver praticato questa idolatria era grave, ma non del tutto priva di fondamento. Non si dimentichi che gli scavi templari effettuati sotto il Tempio di Salomone furono probabilmente il motore della “conoscenza occulta”, alla quale dobbiamo la grande arte gotica.

E’ noto che per “Salomone” non si deve intendere soltanto il Re biblico. “Sol” è vocabolo latino che significa “sole”; “Om” è un nome dato dagli indù al “sole spirituale”; “On” è una parola egizia che si riferisce sempre al sole.- Salomone significa quindi “Tempio del sole”.

In ogni caso si trattava di rituali segreti suscettibili di sospettosità. La Chiesa li perseguitò.

Se Clemente V si fosse tuttavia imposto, il destino dei Templari sarebbe stato certamente diverso.

(Relazione per l’incontro sui Templari a Morimondo, 18 ottobre 2014)

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A R C H E O L E T T U R A

Il Museo Archelogico di Oderzo vanta i seguenti interessanti mosaici: villa rustica, uccellagione, caccia al cinghiale, caccia alla lepre.

La scoperta della“villa” risale al 1891: una donna nutre i polli e si vedono un torello e due galletti. Assenti le papere, per le quali c’era fino a poco tempo fa una ipnotica attrazione feticistico-capitolina perfino nelle Litanie dei Santi, quando si ripeteva oca pro nobis”. Il vocabolario nazionalista aveva stravolto la realtà.-

La cattura di uccelli con il vischio è antica in Veneto. Risalta la fissità della civetta da richiamo. Nella caccia al cinghiale un giovane prudente è munito di lancia. Il cane dimostra coraggio. La rappresentazione agreste è prospettica, non planimetrica e rispettosa delle proporzioni. Si nota la maturazione ellenistica con prevalenza della descrizione sul suggerimento.

La caccia alla lepre consente varie letture.- I cani sciolti (i guinzagli sono in mano a un giovane) sono levrieri: cranio piccolo come una coppa di champagne, fisico snello e atletico, taglia medio-grande. I segugi sono però poco più grandi della lepre! Due particolari sorprendono: 1) i vistosi barbigi della preda sono più marcati dei baffi che i commensali si leccherebbero nel gustarla in salmì; 2) il termine RO.MA.NUS.

Osserviamo quest’ultimo dettaglio. I sostenitori della romanità con palpebre a mezz’asta e le rievocazioni con improbabili gladiatori, esultano. Finalmente! Il nome è chiaro e rimanda ai Romani, perbacco! La scuola centripeta con il viso mandibolare (fenomeno di soggiacenza) ha sempre insistito su questa assurdità.

Il logo sta sotto la figura del levriero, non sotto l’immagine del cacciatore. Spiace per gli entusiasti ingannati nei sensi e nella mente, ma quello è il nome del cane e non della popolazione dell’epoca. Questa era l’abitudine: si controllino pure casi simili, come i mosaici nella casa del Poeta Tragico di Pompei o il gladiatore che uccide una fiera conservato nella Galleria Borghese a Roma. In ogni caso  i nomi sono contigui alla figura illustrata: animale o persona che fosse.

mosaico_0001      cavecanem-da-casa-poeta-tragico-pompei1

Le sillabe della parola sono inoltre separate da puntini e ciò non concorda affatto con l’epigrafia latina. L’eventualità riflette se mai una abitudine preromana, venetica, continuata nel tempo. Se ne trova traccia nella Basilica Teodoriana di Aquileia. Tale propensione artistica cessa solo nel IV° secolo, come si nota nelle successive chiese di Monastero, Grado, Concordia , Iesolo.

I puntini nelle iscrizioni paleovenete non erano importanti. Gli scrivani volevano riempire gli spazi vuoti. Anche i Celti e gli Etruschi si comportavano così, sebbene meno frequentemente Il motivo risale al primordiale terrore del vuoto. In psicologia tale orientamento si chiama cenofobia”. Non riempie forse l’uomo ogni ambiente, spazi del silenzio compresi, con oggetti e suppellettili?- Nella lingua venetica sono punteggiate le iniziali delle sillabe, secondo l’esperto linguistico viennese Emil Vetter (1878-1963), ma talvolta anche i prefissi monosillabici. Tutte le civiltà lasciano tracce. Una linea o una parola impressa nell’arte non è mai priva di conseguenze. L’arte non è ciò che si vede, ma ciò che consente agli altri di vedere.

Nessuna romanità fuorché il potere, quindi. Compaiono soltanto il nome di un cane e rimembranze grafiche scadute come foglie in autunno.

A chi appartenevano le dimore con pavimenti a mosaico? Non al popolo, ma a quanti si permettevano perfino una tomba. Nelle epigrafi conservate nel Museo di Oderzo compaiono nomi di possibili ricchi committenti: Marco Fulvio Marcellino (istriano), Marco Cespio e Caio Laelio Optato (liberti), Marco Levio Felice (venetico), Aprilis (dalmata), Popillia (celtica)….- Erano in maggioranza liberti (quindi non romani, poichè questi non potevano essere schiavi) che, come è noto, ebbero ingegno e beni. Si chiede venia per la scarsa educazione coloniale, ma sembra proprio che la supposta romanità di Oderzo sia solo un vecchio ciuccio per neonati privi di pollice.

Le scolaresche dovrebbero visitare obbligatoriamente il Museo e trarne l’insegnamento che l’istruzione deve tendere a nuove libertà. Una limitazione del sapere corrisponde alla restrizione della libertà religiosa. Il Museo dovrebbe tuttavia far diligentemente risaltare l’epoca paleoveneta, proponendo attenzione e possibili interpretazioni mediante brevi didascalie con i dati essenziali. Gli Assessorati dovrebbero convincersi che non si coltiva il futuro cullandosi in un passato selettivo e pietrificato. Considerata la miseria del presente le illusioni potrebbero anche consolare, ma interferiscono con la costruzione del futuro. In una scuola opitergina fu chiesto a un maturando che cosa significasse “battere i primati”. Il giovane, ben preparato su Silvio Pellico nella letteratura italiana (!) ma non sul resto, rispose che voleva dire “picchiare le scimmie”. Di questo passo non sorprenda se un giorno per “equità” si dovrà intendere “dare da bere a tutti i cavalli”. Si potrebbe riflettere?

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SCRITTURE MERCANTILI  VENETE

Venezia aveva numerosi depositi dove i mercanti di ogni Paese si rifornivano. Oltre ai prestigiosi magazzini denominati “fontego”servivano alle transazioni spacci minori, come quello della “farina” e della “grappa”. Florido era l’emporio del mèjo, cioè del miglio, a S. Stae.

Una vasta comunità di mercanti faceva allora affari con la suddetta graminacea al punto di chiamarsi “Del Miglio”.- I traffici erano soggetti a particolari autorizzazioni in forma notarile secondo l’uso medioevale.

Un documento redatto nel 1603 dal notaio imperiale Andrea Ruinelli offre validi motivi di studio. Marino Grimani autorizza Cesare dal Miglio a trasportare le merci dei propri commerci. Non si trattava dell’omonimo Vescovo di Ceneda (Vittorio Veneto fu una tarda e articiale invenzione del 22 luglio 1923), in quanto deceduto nel 1545. Il concedente era invece nientemeno che l’89° Doge di Venezia. Nell’atto (firmato con un segno di croce!) compare un Giovanni vescovo curiense identificato come Principe del Sacro Romano Impero. Costui dovrebbe essere stato una specie di Vicario Generale del Vescovo cenedese Leonardo Mocenigo nominato nel 1599. Il Presule si avvaleva infatti di organismi e persone che lo aiutavano sia nella guida religiosa sia nella attività giurisdizionale tutt’altro che secondaria. Nel caso di specie si trattava della divulgazione della licenza riasciata ai mercanti Dal Miglio.

Poiché Oderzo era da sempre una piazza mercantile importante sotto ogni aspetto, l’autorizzazione di cui si tratta sarà stata certamente esibita anche alle autorità opitergine incaricate dei dazi e gabelle, alle quali la Chiesa e il Sacro Romano Impero non erano estranei. Per questo motivo sarebbe opportuno che il documento fosse conservato in un archivio della città.

La scrittura è in latino, ma il suo dispositivo è in volgare a carattere commerciale:”Che debbano…., et senza impedimento alcuno lassar passar et transitar tutte le robbe, et mercanzie delli fedeli: Casparo et heredi di Cesare dal Miglio, li quali da essi saranno tratti da stati alieni et confinanti, et destinati per luoghi esteri, pagando però li soliti ordinarij et consueti datij, oltre li quali non permetterete che sian aggravati, in conto alcuno, essendo tale la volontà nostra come promettemo, che sarà prontamente eseguito”.

La cura calligrafica arricchisce la solennità dell’atto. Manca il sistema abbreviativo che si prestava a equivoci. La “G” maiuscola è a forma di alambicco. Il corsivo è poco angoloso, inclinato verso destra. Risulta che la funzione imperiale del latino era già cessata nel 1600 e che anche la sua dimensione reale vacillava. Il latino continuava ad essere stancamente lingua franca ma, con delusione dei moderni entusiasti della romanità, la vita civile pretendeva il volgare. Nulla di traumatico, se si pensa che anche Dante nel secondo canto dell’Inferno aveva riservato al progenitore capitolino Enea soltanto una parola e mezza.

(Il Dialogo, dicembre 2014)

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PORDENONE /  PORTENAU

Il territorio pordenonese  fu abitato da popolazioni carinziane di lingua slava durante il Regno di Berengario (900-966). Nel secoli XI e XII appartenne ai Duchi e Marchesi d’Austria, Carinzia e Stiria. Vallenoncello era del Principe Vescovo di Salisburgo.- Pordenone era Austria prima che l’Austria stessa esistesse.- Nel 1282 il Pordenonese divenne patrimonio personale della Casa d’Austria rappresentando una enclave nel Patriarcato di Aquileia. Il 20 aprile 1508 passò a Venezia. Nel 1797 fu riassegnato all’Austria. Nel 1815 appartenne al Regno d’Italia voluto da Napoleone. Nel 1866 passò al Regno d’Italia.

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Mayerling (libro)  : per quanti volessero approfondire l’argomento e conoscere gli elementi nuovi e inediti, è possibile aprire, leggere e scaricare   liberamente il file.

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PAOLO   LUCIO  ANAFESTO

La toponomastica deriva dalla storia ed è una grammatica della memoria, della cultura, dell’appartenenza.

Tra le circa 260 vie di Oderzo una è dedicata a Paolo Lucio Anafesto ed è giusto chiedersi chi fosse questo leggendario concittadino con diritto a una strada, effigiato dal pittore opitergino Giulio Ettore Erler (1876-1964) negli anni ’30.

Si consideri la situazione della penisola dopo la l’ultimo Imperatore occidentale deposto a Ravenna nel 476 d.C.- L’ex Impero d’Occidente apparteneva ormai a popoli giunti da nord-est, soprattutto Goti e Longobardi. L’Impero d’Oriente continuava, invece, sotto il governo del’Imperatore bizantino.

Una circoscrizione amministrativa bizantina, l’Esarcato situato a Ravenna nel palazzo di Teodorico, fu tuttavia attiva dal 584 al 751 con tentativi di rivalsa.- Oderzo ebbe particolare contiguità con quegli eventi storico-politici.

Paolo Lucio, Dux Veneticorum dal 697 al 717, potrebbe essere stato Esarca bizantino dopo Scolastico (713-725) e prima di Eutichio (728-751). Avrebbe dovuto uccidere Papa Gregorio II per evasione fiscale verso Costantinopoli. La congiura sarebbe fallita e l’esercito bizantino avrebbe raggiunto Roma per deporre il Pontefice. I Longobardo determinarono tuttavia la sconfitta bizantina presso il Ponte Salario.

L’Esarca Paolo sarebbe stato ucciso a Ravenna nel 727 durante le ribellioni contro l’iconoclastia. Il condizionale è d’obbligo perché, anche se le date coincidono, c’è il dubbio che l’Esarca Paolo e Paolo Lucio veneziano (entrambi morti nel 727) non fossero la stessa persona. Il generale veneziano si chiamava Marcello e un Marcello Tegalliano sarebbe poi succeduto a Venezia nel 727 a Paolo Lucio. Questi era noto anche come Paulicius, derivato da Paulus Patricius, titolo spettante all’Esarca e quindi motivo di confusione. Il nome Anafesto compare più tardi. Qualora Paolo fosse stato Esarca, sarebbe stato in carica solo per pochi mesi dal 726 al 727.

E’ bene ricordare che la Provincia “Venetia Marittima” faceva parte dell’Esarcato e nel riordino di quest’ultimo si avviava a diventare Ducato con residenza a Eracliana. I territori non marittimi rimanevano una “terra di nessuno”, caratteristica geologica rilevante anche per la successiva storia del Veneto, regione che la natura tiene sul filo del rasoio: quando vincono i fiumi diventa terra; quando vince il mare diventa acqua.- I Tribuni provenienti dalle 12 famiglie più importanti con poteri civili, militari, giudiziari e fiscali non c’erano più. Il Giudice (Sacerdote) era già stato sostituito. I tempi erano ormai maturi per un governo unitario fino dall’anno 568. Così si giunse alla elezione del primo Dux o Doge Paolo Anafesto di Eraclea, magistrato bizantino.

Oderzo ha inteso onorare il primo Doge di Venezia. Non c’erano motivi di gratitudine verso la Serenissima per i secoli del dominio tutt’altro che felici, anche se le fu dedicata una via in città. Un intenzionale impulso per la dominazione romana (altrettanto infausta, come assicura la seconda Filippica di Cicerone) sembrerebbe ingiustificato anche se non transitorio. L’attuale Eraclea, per esempio, si chiamò Grisolera fino al 4 novembre 1950, quando si riuscì a recuperare l’incomprensibile nostalgia per una supposta antichità capitolina o perfino per l’omonima colonia della Magna Graecia.- Si ha motivo invece di ritenere che la propensione toponomastica per Paolo Lucio Anafesto sia dipesa dalla coscienza che Eraclea fu fondata nel VII secolo da fuggiaschi opitergini preoccupati per le migrazioni longobarde. Il primo Doge non fu quindi estraneo alla storia di Oderzo. La dedica di una via è quindi motivata.

Incomprensibile risulterebbe invece il latitat dell’ Amministrazione nei confronti di una bella pagina di storia risalente al 1824. Il Vicerè del Regno Lombardo Veneto si recò a Oderzo per visitare e rendere omaggio alla famosa Biblioteca degli Amaltei, vanto della Provincia di Treviso. Per l’occasione fu collocata una lapide, poi eroicamente frantumata nel 1866 in seguito all’annessione al Regno d’Italia. E’ stato possibile recuperare il testo e ricostruire l’iscrizione. Sarebbe una iniziativa veramente lodevole se l’Amministrazione Comunale, cui va riconosciuto il merito di non avere dedicato strade a Silvio Pellico, si rendesse finalmente parte diligente per integrare l’arredo urbano, riesponendo quel documento storico a Palazzo Amalteo senza alcun costo per la cittadinanza.

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I L   S A N T O   R E   A P O S T O L I C O   C A R L O   IV

Carlo d’Asburgo-Lorena diventò Imperatore d’Austria il 21 novembre 1916 con il nome di Carlo IV. Quale Imperatore del Sacro Romano Impero sarebbe stato Carlo VIII.- Il successivo 30 dicembre fu consacrato Re d’Ungheria nel duomo di Santo Stefano a Budapest con il nome di Carlo IV. Non si trattava di una corona ereditata, ma confermata.- Sarebbe stato inoltre Re di Boemia come Carlo III.

Bisogna innanzitutto chiarire che cosa significasse Maestà Apostolica.

Per definizione si trattava della continuazione dell’opera degli Apostoli. Il primo regnante destinatario di tale dignità fu Stefano I (969-1038) verso l’anno 1000 su iniziativa del Papa Gerbert d’Aurillac, cioé Silvestro II. Nello stesso anno gli fu attribuito con bolla papale del 27 marzo anche il titolo di “Re degli Ungheresi” con ampia facoltà amministrativa su tutte le Diocesi. Questa doveva essere la ricompensa per le conversioni del suo popolo al Cristianesimo.

Il Papa Lorenzo dé Medici, Leone X (1475-1521), aveva inaspettatamente riconosciuto poco prima di morire il Re Enrico VIII Tudor d’Inghilterra (1491-1547) quale “defensor fidei = difensore della fede” nonostante la reputazione e non solo.

Istvàn o Stephen Werboczi (1465-1541) sollevò una specie di conflitto d’interessi. La Santa Sede si affrettò quindi a confermare, per evitare equivoci e gelosie, il titolo di Re Apostolico a Luigi II Jagellone d’Ungheria (1506-1526).

L’Imperatore Ferdinando III (1608-1657), abile stratega nella guerra dei 30 anni e fine compositore, reclamò la qualifica apostolica. L’opposizione del Primate ungherese Péter Pàzmàny de Panasz (1570-1637), eminente figura della Controriforma, gli impedì tuttavia l’esito positivo. Dovette accontentarsi dei successi nella pace di Westfalia (24 ottobre 1648).

L’Imperatrice Maria Teresa (1717-1780) si firmava quale “Regina Apostolica” nella corrispondenza con i Cardinali.

Francesco Giuseppe (1830-1916) assunse ufficialmente nel 1867 il titolo di Re Apostolico, preceduto da quello di Imperatore d’Austria.

I   P R E C E D E N T I

Enrico IV di Franconia (1050-1106) era il terzo imperatore della dinastia salica. Si può dire che con lui sia incominciata la lotta per le investiture. Da parte imperiale c’era interesse a sviluppare le prerogative di governo.

Il Papa Gregorio VII (1020-1085) pretendeva la supremazia della Chiesa su ogni altra autorità. A sostegno di tale mira redasse il “Dictatus Papae”, contenente 27 enunciazioni sui poteri praticamente assoluti dei Pontefici.

Era naturale che il Papa dispotico, l’auctoritas, e l’Imperatore disinvolto, la potestas, entrassero in rotta di collisione.

L’evento culminò con la cosiddetta umiliazione di Canossa nel 1077, quando l’Imperatore dovette aspettare tre giorni alle intemperie prima di ottenere l’udienza papale che lo avrebbe liberato dalla scomunica. La titolare dello storico castello era Matilde (1046-1115).

E’ il caso di leggere i 27 assiomi che non peccano certamente per modestia e che presuppongono una Cristianità turbata:

  1. che la Chiesa Romana è stata fondata direttamente da Dio;

  2. che il Pontefice Romano è l’unico che può essere di diritto chiamato universale;

  3. che Egli solo può deporre o reinserire i vescovi;

  4. che in qualunque concilio il suo legato, anche se minore in grado, ha autorità superiore a quella dei Vescovi, e può emanare sentenza di deposizione contro di loro;

  5. che il Papa può deporre gli assenti:

  6. che, tra le altre cose, non si possa abitare sotto lo stesso tetto con coloro che Egli ha scomunicato;

  7. che ad Egli solo è legittimo, secondo i bisogni del momento, fare nuove leggi, riunire nuove congregazioni, fondare abbazie o canoniche, e, d’altra parte, dividere le Diocesi ricche e unire quelle povere;

  8. che Egli solo può usare le insegne imperiali;

  9. che solo al Papa tutti i Principi debbano baciare i piedi;

  10. che solo il suo nome sia pronunciato nelle chiese;

  11. che il suo nome sia il solo in tutto il mondo ;

  12. che ad Egli è permesso di deporre gli Imperatori;

  13. che ad Egli è permesso di trasferire i Vescovi secondo necessità;

  14. che Egli ha il potere di ordinare un sacerdote di qualsiasi chiesa, in qualsiasi territorio;

  15. colui che Egli ha ordinato può dirigere un’altra chiesa, ma non può muovergli guerra; inoltre non può ricevere un grado superiore da alcun altro Vescovo;

  16. che nessun sinodo sia definito “generale” senza il suo ordine;

  17. che un testo possa essere dichiarato canonico solamente sotto la sua autorità;

  18. che una Sua sentenza non possa essere riformata da alcuno; al contrario Egli potrà riformare qualsiasi sentenza emanata da altri;

  19. che Egli non possa essere giudicato da alcuno;

  20. che nessuno possa condannare chi si è appellato alla Santa Sede;

  21. che tutte le maiores causae di qualsiasi chiesa, debbano essere portate davanti a lui;

  22. che la Chiesa Romana non ha mai errato, né, secondo la testimonianza delle Scritture ,mai errerà per l’eternità;

23) che il Pontefice Romano eletto canonicamente è senza dubbio, per i meriti di San

Pietro, santificato, secondo quanto detto da Sant’Ennodio, Vescovo di Pavia, e

confermato da molti Santi Padri a lui favorevoli, come si legge nei decreti di S.

Simmaco papa;

24) che, dietro suo comando e col suo consenso,) i vassalli abbiano titolo per presentare

accuse;

25 che Egli possa deporre o reinserire Vescovi senza convocare un sinodo;

26) che colui il quale non è in comunione con la Chiesa Romana non sia da

considerare cattolico;

27) che egli possa sciogliere dalla fedeltà i sudditi dei Principi iniqui.

Potrà sembrare strano, ma furono molti i regnanti che si attennero ai suddetti principi, benché non avessero la minima idea di chi fossero i santi Ennodio (473-521) e Simmaco (498514). Ebbero fede non inceppata e si comportarono di coseguenza. Non ci si deve meravigliare: non mancano infatti quanti credono perfino alle fate! Non è possibile contraddire un bimbo che creda nella Befana nemmeno facendogli notare che i camini da visitare in una sola notte sono decisamente troppo numerosi.

La storia non ha un risultato ultimo”, sostenne il filosofo bavarese Karl Löwith (1897-1973), “bensì un significato umano che coincide con i fini che gli uomini storicamente si pongono e che cercano, dunque, di realizzare con la loro azione storica”. La storia non apre inoltre le porte agli ospiti che non ha ritenuto di invitare. Il più convinto. consapevole e coerente di tutti sembra essere stato l’Imperatore Carlo I. Per lui valse sicuramente il fondamento che fu già di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781):”Posso io credere ai miei padri meno che ai tuoi?”.

LE   D I M E N S I O N I   A P O S TO L I C H E   DI  C A R L O  IV.

La beneficenza regale è ovunque un valore simbolico, ma praticamente sterile. Durante il suicidio dell’Europa civile rappresentato dall’oscena ottusità della Grande Guerra perfino le dame di corte romane manifestarono la loro nota abilità di magliaie, sferruzzando calzini e maglioni fatti mano per i soldati al fronte. Ciò corrisponde alla generosità.

Se i preziosi cavalli lipizzani dell’Alta Scuola di Equitazione Spagnola Viennese, fondata oltre 400 anni fa, furono impiegati per portare pane, legna e altre risorse alla popolazione viennese, le cose cambiano. I quadrupedi avevano un valore superiore a quello della famosa raccolta numismatica savoiarda, tanto è vero che furono compresi tra le preziose rivendicazioni durante le trattative di pace. La collezione numismatica con conobbe tanto slancio e rimase ovviamente nelle casseforti. E non senza motivo: si ritiene che ogni puledro non addestrato costi attualmente non meno di 4.000 euro!- La raccolta numismatica non conobbe comunque tanto slancio. Ciò non basta tuttavia.

Con drecreti imperiali fu proibito il duello ed istituito il Ministero della Sanità in Austria. Nel primo caso si trattò di etica civile. Nel secondo caso si manifestò la buona amministrazione. In tutto ciò, e non è poco, non si rilevano gli estremi dell’apostolicità.

La religiosità di Carlo IV era esagerata. Si pensi che il suo rosario d’oro era talmente logorato da dover essere sostituito. La consorte doveva spesso richiamarlo alla realtà.. Anche in questo caso ci si trova di fronte alla fede e alla religiosità. Una credenza piena e fiduciosa, quasi ipnotica, ma anche un eccesso di fiducia confinante con l’ingenuità non sono sufficienti per parlare di apostolicità.

Carlo IV non aveva voluto la guerra e non era nato per fare la guerra. La aveva semplicemente ereditata in quanto dichiarata da ex alleati e confinanti. L’unica sua preoccupazione fu che il conflitto terminasse. Una idea fissa, un filo che si nascondeva in un arazzo pieno di sofferenze. Egli era sul piede di pace quando tutti erano sul piede di guerra. La lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti era stata redatta il 1 agosto 1917 e definiva autorevolmente la guerra come “inutile strage”. Questo documento fu un catalizzatore per le intenzioni di Carlo IV già incline a far cessare i combattimenti a qualsiasi costo.

A tale riguardo, anche a rischio di far aggrottare parecchie sopraciglia, è il caso di ricordare qualche particolare.

Al Congresso Massonico di Torino sul Risorgimento (settembre 1988) lo storico della Massoneria Aldo Alessandro Mola sostenne che:”La Massoneria aveva voluto la Grande Guerra, perché riteneva proprio compito storico la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, ossia l’ultima roccaforte in cui si alleavano trono e altare”. Infatti la Massoneria chiamava la cattolica Austria “volker-kerver” (prigione dei popoli).

Il ruolo determinante dell’Italia savoiarda fin dal 1912 (rivista Civiltà Cattolica del 7 settembre) nel quaderno n. 1493, pag. 540, è chiaramente descritto:”….in conseguenza i Paesi dove imperano i monarchi e i governi cristiani, sono presi particolarmente di mira in proporzione all’impedimento che da essi può venire al libero sviluppo del progresso massonicamente inteso”.

Pag. 544.- “L’Austria-Ungheria con la Casa d’Asburgo è in modo specialmente votata alla distruzione dal Mazzini e dalla sua massonica scuola, doppia quindi missione dell’Italia: annientamento del Papato e annientamento dell’Austria”.

Nel 1861 “Les Archives Israelites” annunciavano solennemente un evento ormai prossimo, “una Gerusalemme di nuovo ordine, santamente assisa fra l’Oriente e l’Occidente, che deve sostituirsi alla duplice città dei Cesari e del Papi”.

Già nel mese di giugno 1918 a Jakaterinenburg si attuò la prima fase del progetto con il martirio della famiglia dello Zar Nicola II.- Così nel 1921 si completò l’opera con l’arresto e il martirio dell’Imperatore d’Austria e Re Apostolico d’Ungheria Carlo I.

Per i politici dell’Intesa era normale che la pronuncia pacifista vaticana non avesse alcun valore. Non così avrebbe dovuto essere per le autorità religiose, altrimenti sarebbe venuto meno l’obbligo dell’obbedienza al Pontefice. Ebbene, il massimo predicatore di Parigi, Padre Domenicano Antonin-Dalmace Sertillanges (1863-1948), contestò pubblicamente la nota pontificale. Ciò avvenne il 19 dicembre 1917 nel corso di una affollatissima funzione nella chiesa della Maddeleine alla presenza del Vescovo Amette. L’oratore sacro disse testualmente:”Santità, non vogliamo saperne della vostra pace”.

I Vescovi americani con alla testa il Cardinale James Gibbons di Baltimora (1834-1921), che aveva tanto insistito per la partecipazione USA alla guerra, non aderirono nemmeno alla giornata di preghiera indetta dal Papa per ottenere la pace. In Inghilterra, specialmente nella Diocesi di Westminster, tramite il proprio organo di stampa Tablet, la nota del Papa non fu accolta con atteggiamento gentile di media simpatia ma sdegnosamente rifiutata. La motivazione fu interessante:”…in quanto basata sul presupposto che non ci sia prospettiva di vittoria degli Alleati. Tale convinzione non è condivisa dal popolo inglese né certamente da alcuna persona legata a questo giornale”.

Più sorprendente, in quanto avrebbe dovuto essere solidale per definizione, appare l’esternazione del Vescovo ungherese Jànos Csernoch (1852-1927):”Le cessioni territoriali all’Italia si possono discutere solo dopo la guerra”.

In Francia, Germania e Belgio i cattolici sostenevano apertamente la continuazione della guerra impegnando il clero in prima persona. Nella lettera di Natale del 1914 il Cardinale Désiré Mercier (1851-1926) scrisse che “la religione di Cristo fa del patriottismo una legge”. I Vescovi austriaci non furono da meno. Altro che il Comandamento “Non desiderare la patria d’altri”, o qualcosa del genere.

Il Papa risultava molto isolato perfino nel proprio ambito di competenza.

Per la precisione dei fatti l’espressione “inutile strage” usata dal Pontefice non sarebbe stata originale. Essa risalirebbe ad un altro Papa: Pio IX.- Nella lettera del 3 maggio 1848 all’Imperatore Ferdinando I d’Austria, si legge “ quanto crudele ed inutile impresa riesca ormai quella di contendere agli italiani le naturali frontiere”. L’esortazione alla pace di Benedetto XV “Quarto inuente bellorum anno…” era scritta in francese ed aveva il seguente testo letterale:”Siamo animati da una dolce speranza, quella di vederla accettata e vedere così terminare quanto prima la lotta terribile, che appare sempre più un’ “inutile strage”.

L A   S V O L T A

Il 17 aprile 1917 un treno munito di extraterritorialità ed elevata disponibilità di denaro partì da Zurigo con 32 esponenti rivoluzionari accompagnati da sovversivi e relative amanti. Tra questi c’erano Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin (1870-1924) e Lev Trockij (1879-1940). La destinazione era San Pietroburgo, dove i personaggi erano attesi dalla spontaneità rivoluzionaria. Il 25 ottobre 1917 iniziò quindi lo sconvolgimento che non aveva risparmiato le retrovie del fronte. Il 3 marzo 1918 la Russia dovette sottoscrivere l’armistizio di Brest-Litowsk.

Sarebbe stata possibile la reiterazione dell’esperimento russo anche nelle retrovie della Piave con relativo crollo del fronte? La situazione rivoluzionaria era favorevole in Italia. Il 22 agosto 1917 erano stati infatti disarmati a Torino due reparti dell’esercito e si registrarono 7 morti e 37 feriti. Un Generale dovette consegnare agli insorti la propria sciabola. Un secondo treno, magari pure con una dotazione di 20 milioni di marchi oro, era pronto alla stazione di Zurigo con destinazione Italia. Il transito poteva tuttavia essere effettuato soltanto attraverso i 12.000 km² di territori controllati in Italia dalle truppe austro-ungariche. Carlo IV rifiutò decisamente tale eventualità, come risulta anche dagli Atti di Beatificazione. Egli non avrebbe consentito che una trasformazione istituzionale italiana in senso repubblicano-marxista compromettesse il desiderato Concordato tra Roma e la Santa Sede. Bisogna tenere presente che la Santa Sede non era ancora uno Stato internazionalmente riconosciuto con tutte le garanzie che ne conseguono!

Ebbene, nemmeno questa importante risoluzione possiede gli estremi dell’apostolicità. Si può parlare di diplomazia e di calcolo da parte di una politica non pacifista, ma amante della pace.

Per comportarsi da vero Re Apostolico Carlo IV doveva esplicare l’etica della responsabilità non curandosi di quanti preferivano l’etica delle intenzioni. Ciò comportava una grande dose di eroismo. E’ il caso di stabilire chi sia veramente un eroe. Valoroso è comunque chi in difficili circostanze fa quello che può e lo fa appena possibile.

La volontà del Papa era che la guerra cessasse. Un fatto straordinario: solo la difficoltà di spiegarlo è più grande. Giustamente Antoine de Saint-Exupery ha sostenuto nel suo capolavoro che il “Piccolo principe” imparò che non “si vede bene che con il cuore perché “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Socrate insegnò inoltre che per convincere bisogna screditare gli errori correnti. E la guerra è l’errore per eccellenza. La sola preghiera non sarebbe comunque bastata. Che cosa avrebbe dovuto fare un Re Apostolico? Disobbedire? Rinunciare a vincere la guerra? Ordinare una ritirata generale delle proprie truppe quale extrema ratio dal momento che non esistevano altre possibilità?- Gesù aveva raccomandato:”Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua di contnuo” (Marco, 8,34). La Maestà Apostolica e la disobbedienza al Papa sarebbero state inconciliabili.”L’essere fedele dipende dalla volontà”, si legge in Siracide 15, 14-15. “Una casa regnante cattolica non poteva prescindere dalle vicende e dagli orientamenti, osservò Monsignor Gabriele Filippini nella opera “I Papi del Beato Carlo” del l’11 aprile 2015.- E’ vero che nel frattempo si era passati perfino in fatto di nascite dai cavoli alle cicogne, ma Canossa docet sempre, anche se una deposizione a norma del Dictatus Papae (assioma n. 12) sarebbe stata improbabile.

Si può pensare che Carlo I abbia considerato la ritirata unilaterale come l’unica alternativa, l’unica resistenza individuale e collettiva alla logica anonima della guerra totale. Per un cercatore d’oro idealista come lui la pagliuzza era sempre più preziosa di una trave.

Un fronte non si smonta da un momento all’altro. Bisognava superare le pressioni dissuasorie politico-militari. Era necessario intervenire in cedimenti di qualche reparto. Poca cosa, se confrontata con la situazione dell’avversario (decimazioni, autolesionismo, diserzione….). A Roma una politica pacifista non sarebbe stata accettata. Come è noto, nella cosiddetta città eterna è possibile salire una certa scala sulle ginocchia. Il problema si presenta quando si cerca di scendere sempre sulle ginocchia.

Che non ci fossero particolari preoccupazioni sul Piave,Grappa e Montello nemmeno in prospettiva dei cospicui rinforzi dell’Intesa e dell’esasperato nazionalismo sul fronte della Piave, è dimostrato anche dal fatto che il Comando Austriaco aveva autorizzato uno speciale permesso al prigioniero di guerra italiano Tranquillo Fantuzzi nella primavera del 1918. La non usuale concessione era stata rilasciata, compresa ovviamente la presenza di un gendarme di guardia, per poter fare visita alla vecchia madre a Pordenone.

Questo è tuttavia soltanto un sintomo di comprensione e di solida autorità morale, ma non di dottrina apostolica.

Anche i rifornimenti al ronte erano nel frattempo diventati scarsi. Nulla di grave perché un esercito occupante sa sempre dove procurare i viveri. Il Generale Erich Lusendorff scrisse nel 1919:”Avremmo potuto continuare la disperata resistenza per tutto l’inverno”. A Landeck c’erano inoltre rifornimenti pronti per essere inviati in Veneto. Si dirà che anche la popolazione della Sinistra Piave ne era priva. L’affermazione sarebbe attendibile se il famoso geologo e nel 1954 scalatore del K2 Ardito Desio (1897-2001), che fu testimone oculare nel 1918, non avesse raccontato all’autore di queste pagine che gli Arditi requisirono, nei primi giorni di novembre, una grande quantità di risorse proprio per festeggiare dove non doveva esserci più nulla, come si credeva. Del resto anche le campane sequestrate per essere fuse, suonarono a distesa per tre giorni.

L’Imperatore si trovava a Feltre nell’estate del 1918. Qualunque decisione non dipendeva dalla situazione contingente. Tutto doveva accadere con l’unica finalità di cessare la guerra a qualsiasi costo. “Certamente ha praticato il comando evangelico di amare i nemici”, come sostenne Mons. Gabriel Filippini (Rettore del Seminario Diocesano di Brescia) nel proprio scritto già citato. Lo scrittore e ufficiale austriaco Fritz Weber (1895-1972) descrive come fosse stata varcata la Piave, ma un ordine richiamò indietro le teste di ponte. Non è escluso che tale orientamento abbia cotribuito a sviluppare certa avversione austriaca verso Carlo I, che avrebbe poi impedito la sua tumulazione nella Cripta dei Cappuccini.

E’ doveroso ricordare che l’Austria aveva chiesto un armistizio agli Stati Uniti. Una lettera del 7 ottobre 1918 inviata dal giornalista Italo Zingarelli (1891-1979) al Corriere della Sera lo conferma. La esausta popolazione italiana aveva appreso con entusiasmo l’indiscrezione, ma l’intransigente politica romana si oppose e l’iniziativa non andò a buon fine. Non a caso a Roma la via della Propaganda è contigua alla via della Mercede. Chissà se lo scrittore Giovanni Papini (1881-1956), anima lacerata del cattolicesimo, si era reso conto di essere un esponente di quella intransigenza e di quel bellicismo! Egli era solito infatti deridere il dolore delle madri e definire i cadaveri dei soldati caduti come “buon concime plebeo”, come riportò il giornalista Paolo Rumiz nel Corriere della Sera del 27 giugno 2004. Nessuno aveva qualcosa da ridire? Si sentivano tutti portatori di un umanesimo superiore?

Secondo una convinzione diffusa, Carlo I° stabilì che bisognava “smettere di combattere” il 20 luglio 1918. La sua convinzione avrà corrisposto in parte a un bisogno individuale, ma non per questo essa è meno degna del rispetto spettante a ogni scelta che derivi da un intimo bisogno di consolazione e speranza. La notizia crea senz’altro imbarazzo a certe mascelle del bellicismo furente ma corrisponde, questa si, a una vera Apostolicità. Di fronte alle centinaia di migliaia di vite innegabilmente risparmiate ogni ombra o tentennamento risultano decaffeinati. Se la vita eterna è un ossimoro, la morte al fronte è contro natura ed è apostolico evitarla. La scuola, Monade disoccupata, non ne parla perché impegnata a spiegare la Battaglia di Vittorio Veneto mai esistita (“è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto”,Giuseppe Prezzolini, La Voce N. 43, pag. 34-35). Il silenzio corrisponde forse alla consapevolezza che “a vincere senza pericolo si trionfa senza gloria” (Pierre Corneille, Il Cid).

Quando si parla di salvezza di numerose vite, non bisogna intendere soltanto quelle umane, bensì anche gli animali. Oltre dieci milioni di cavalli furono impiegati nelle operazioni belliche. Per non parlare dei muli, dei piccioni, dei cani….-

La decisione di Feltre potrebbe essere trapelata. In caso contrario Gaetano Rapagnetta (1863-1938) non avrebbe potuto certamente effettuare l’eroica incursione su Vienna il 9 agosto con 11 lenti velivoli Ansaldo della 87^ squadriglia. Forse l’ideatore dell’impresa è più noto come il poeta encomiastico Gabriele D’Annunzio. Poiché il nome era decisamente poco poetico si scomodarono l’Annunciazione e l’Arcangelo Gabriele. La squadriglia non incontrò alcuna resistenza sia nel sorvolo dei territori occupati che in Austria. E dire che sarebbe bastata una fucilata di un qualsiasi gendarme per abbattere gli aerei, essendo costruiti essenzialmente di legno. Proprio così era caduto Francesco Baracca sul Montello qualche settimana prima. Lo schieramento dei numerosi triplani Fokker e la forte contraerea a difesa della capitale austriaca non furono allertati. C’era già un ordine imperiale di evitare nuovi combattimenti e nuovi morti? Suvvia!- Siffatto evento richiama alla mente una precedente passività avvenuta il 12 giugno 1798. Due vascelli francesi erano entrati nel porto di Malta per rifornirsi d’acqua. In realtà sbarcarono nell’isola parecchi rivoltosi. Napoleone I pretendeva Malta. Cedere o combattere? La roccaforte aveva 1500 cannoni e 500 barili di polvere. Sarebbe stato possibile fare facilmente a pezzi le navi francesi. Il Gran Maestro Ferdinand de Hompesch (1744-1805) ordinò di non combattere e di sgomberare l’isola entro tre giorni. Anch’egli voleva evitare ad ogni costo perdite umane!- Come si vede, Carlo I non ha viaggiato da solo nella storia che lo ricorderà.

Le élites intellettuali sono oggi viepiù riconoscibili dal grado di consapevolezza di tutte le diverse stratificazioni degli eventi storici del passato. Quando la storia appare inverosimile si deve provare a guardarla dall’alto, come fanno i teologi.

Se all’Imperatore può essere rimproverato un difetto, questo è individuabile nella completa dedizione alla causa della pace trascurando del tutto il destino della propria famiglia. Egli non ha voluto seguire l’esempio di Hans Christian Andersen (1805-1875). Il celebre favolista era solito portare con sé sempre un gomitolo di resistente cordicella di canapa: per fuggire dalla finestra in caso d’incendio. Così l’ultimo Imperatore e la sua famiglia si trovarono esiliati e poveri. Il declino avvenne comunque con dignità regale non paragonabile a quelle di certe altre dinastie.

Il Papa Benedetto XV si era espresso favorevolmente per la restaurazione del trono in Ungheria nel marzo e settembre 1921 senza peraltro esporsi troppo. Non sarebbero mancati appoggi, complicità e mezzi. Ma il confronto con le truppe dei governo ungherese avrebbe comportato molti morti. Per coerenza Carlo IV rinunciò ad oltranza. Questa fu senz’altro un’impronta di lealtà e apostolicità.

Domenica 23 ottobre 1921 la coppia imperiale era in viaggio verso la capitale ungherese osannata e attesa dal proprio popolo e da simpatizzanti civili e militari della restaurazione del trono. Carlo e Zita avevano assistito alla S. Messa celebrata dal Cappellano del 22° Reggimento “Transilvania”, don Francesco David, a Buda-Ors nella periferia di Budapest.

Il giorno seguente i due sovrani furono arrestati dagli Inglesi su mandato della Piccola Intesa (sistema di alleanze tra Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia tra il 1920 e il 1938) e tradotti prigionieri tra le proteste del popolo ungherese per la lesa Maestà Apostolica del loro Re legittimo.

La coppia venne saparata dai propri 7 figli (il maggiore, otto, aveva 9 anni). Un altro figlio stava per nascere. Furono impediti perfino i conforti religiosi e la quotidiana Comunione. Poi iniziò il trasferimento lungo il Danubio e attraverso il Mediterraneo fino alla malsana isola di Madeira, dove vissero in assoluta povertà in una casa priva di energia elettrica, acqua corrente e malamente riscaldata con legna verde. L’unico valore che Zita possedeva era un anello, che le fu poi rubato. Carlo aveva con sé l’anello d’argento che gli era stato donato nel novembre 1918 dal popolo tirolese, da lui definito “popolo cattolico e fedele”. Quell’anello sarà l’unico bene che Carlo porterà con sé nella tomba. “La durezza contro Carlo I fu una rancorosa punizione per aver seguito l’indicazione papale”, conclude Monsignor Gabriele Filippini.

Carlo I morì santamente lontano dalla propria terra il 1 aprile 1922 invocando il nome di Gesù. Proprio in quel tempo i rivoluzionari avevano modificato la bandiera austriaca, sostituendo i simboli degli artigli dell’Aquila Imperiale che per secoli aveva rappresentato la terra sormontata dalla Croce da un lato e la Spada dall’altro. I nuovi emblemi furono la falce e il martello, nonché una catena spezzata: un simbolismo che non richiede spiegazioni.

Lo scrittore e Premio Nobel francese Anatole France (1844-1924) concluse nel 1921:”L’Imperatore Carlo è l’unico uomo decente emerso durante la guerra ad un posto direttivo: ma non lo si ascoltò. Egli ha desiderato sicuramente la pace e perciò venne disprezzato da tutto il mondo. Si è trascurata una splendida occasione”.

R I C O M P E N S A

Quali furono i meriti di un regnante che ha salvato centinaia di migliaia di vite? E quali furono le inquietudini nella prospettiva di perdere il trono inducendo la dissoluzione dell’Impero e le ombre che avrebbero retto il mondo? L’aureola dei santi dovette sembrare appropriata anche in presenza di debolezze e fragilità.

La decisione di far cessare la guerra non fu presa a cuor leggero. Tra le inquietudini si aggirava una realtà che i Greci antichi chiamavano metis, cioè la combinazione di intuito, previsione, vigile attenzione, sagacia e senso di opportiunità. Il risparmio di vite umane corrisponde a una rivalutazione della vita stessa.Non si doveva perdere tempo: come è noto nemmeno il tempo stesso può perdere se stesso. Nel volto di Carlo I si potevano quindi certamente leggere tutti i turbamenti del giovane Werther. Non c’erano soltanto le legittimazioni molecolari dello spirito ma anche le responsabilità politiche. E’ noto che la storia diventa cultura, ma i protagonisti rimangono natura. E’ per questo che la storia , soprattutto quella dei vincitori, si distrae ogni tanto e la verità comincia ad emergere. La titubanza era quindi naturale. E’ opinione diffusa e condivisa che la prospettiva della beatificazione sia stata offerta anche per l’Imperatrice Zita. Di fronte a tale possibilità l’intenzione pacifista si sarebbe rinforzata. Con i tempi lunghi della Chiesa la prima parte della promessa è stata adempiuta nel 2004. Ulteriori sviluppi seguiranno anche per il resto. Il teologo Sergio Quinzio (1927-1996) aveva ragione quando scrisse:”Non si sostengono pensieri audaci senza la conpensazione di una venerabile misericordia”.

R I C O R D I : Ho visto l’Imperatrice!

L’autore di queste pagine era un ragazzo nel 1950. Poiché ricorreva l’anno santo, sembrò quasi obbligatorio andare a Roma per una settimana. In quel tempo l’Imperatrice e Regina Zita d’Asburgo-Lorena, vedova dell’ultimo Imperatore, aveva espresso il desiderio di presenziare alle cerimonie in San Pietro.

L’illustre ospite fu in un primo momento accolta in un convento di suore vicino a piazza di Spagna dove la zia dell’autore era superiora. Molte furono le persone che speravano in una udienza.

Noi ragazzi non ci rendevamo conto del momento storico che stavamo vivendo. Anche le monache non si rendevano conto. Rimanevano chiuse nell’ampia veste e cristallizzate in una dimensione senza tempo, come nell’omonm quadro di Bartolomeo Passerotti (1529). Verso le 15 l’Imperatrice scese nella sala. Era una dama di 58 anni, seguita a due metri di distanza da una gentidonna quasi priva di convessità femminili. I suoi capelli erano brinati di residui neri. Il suo aspetto richiamava quasi automaticamente la misteriosa amata del Cantico dei Cantici. Per noi ragazzi a quel tempo una persona che avesse 35 anni era già vecchia. Figurarsi!- Ci furono alcuni sorrisi, qualche inchino, poche parole in tedesco, riverenza.

Era sorta intanto una difficoltà diplomatica. La Regina aveva posto quale condizione per la propria presenza a Roma di non soggiornare in territorio italiano. Non è che alla Santa Sede mancasse la possibilità di una adeguata sistemazione extraterritoriale, ma fu preferito il soggiorno presso la prestigiosa secentesca Villa Malta, che appartiene al Sovrano Militare Ordine di Malta. Da questo fatto deriva anche un messaggio del Sovrano Militare Ordine di Malta:”Ora tocca a voi difendervi, da soli. Tocca a voi proteggere valori e persone in cui credete, poiché voi siete gli ultimi possibili Cavalieri”.

Dio conservi.

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(pubblicato dal DIALOGO, Oderzo, novembre 2011).

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V I T T O R I E   E   M E M O R I E
Tutto era appassito, anche la sera. Le nuvole sembravano monache in ginocchio addormentate in chiesa. I monti esibivano la loro irripetibile senilità. Come pesi massimi di questo mondo, sono le uniche creature degne del titolo di “Altezza” perché sono un orizzonte verticale.
Seguì una notte di luna gravida o qualcosa del genere, come si dice. Le stelle sono gli occhi di Dio, eppure non utili al viandante notturno come la luna, lanterna delicata e leggera. Il Grande Carro splendeva nel cielo. Il veicolo tuttavia non serve a nulla: primo perché indica il Nord, come ci hanno insegnato; secondo perché mancano le stelle cocchiere addette ad attaccare i cavalli.
Il giorno dopo le Alpi avevano dimenticato aperto il sipario per disattenzione. Con un poco di fantasia si vedevano le Germanie gelide e quiete.
Vi andai. La natura nordica mi accolse con la sua caratteristica: equilibrio fra i mondi umano, animale, vegetale e minerale. Gerani timidi sul balcone e un odore di salvia e ricotta mi consigliarono la locanda che faceva per me.
Durante il pranzo alzai il bicchiere verso un anziano commensale vicino.
“Alla salute”.
“E a che cosa altrimenti?”.
Parlammo poi del vino servito, che doveva essere figlio di un Bacco minore. Dissi di giungere dalla terra di Cabernét il Magnifico, dove le vigne sono una divinità disposta a dividere cose buone con noi e offre prelibate lagrime d’autunno.
Il commensale aggiunse:
“Vi ho trascorso quasi un anno durante la Grande Guerra”.
Prima di ritirarmi osservai i variopinti nanetti da giardino che mungevano la sera per bere la rugiada lunare, loro cibo preferito.L’ incrocio dei pali nei recinti degli orti accanto alle case mi fece sorgere un dubbio: era legno o leggenda?
Il giorno dopo c’erano gli stessi commensali. Un pollaio di personaggi: uno assomigliava a una lumaca, solo che aveva dimenticato a casa le corna, come mi era sembrato di udire, ma si trattava certamente di un malinteso. A pranzo venivano serviti tra l’altro funghi, i diamanti della cucina.
Il reduce della Grande Guerra riprese la conversazione sul vino:
“È successo molto tempo fa ma ne ricordo uno dal colore giallo ramato, bouquet intenso e complesso. Il bagaglio olfattivo floreale di tiglio era integrato da note fruttate di fragole e ciliege amarene con lieve accenno di mandorla nel finale”.
Ribattei che, a mio parere, il Merlòt “uis neris” era anche migliore.
Ci presentammo. Il mio cognome gli rammentava qualcosa. Si chiamava Pfaff e anch’io dovevo aver letto un nome del genere. Disse il suo grado: “fringuello”, cioé caporalmaggiore insomma. Il termine significava che anche il fringuello é un passero con i gradi. Era stato interprete e scrivano della 14^ Armata austro-ungarica a Vittorio presso il Comando di Tappa N. 309 con sede in un palazzo col mio cognome. Sosteneva che la Guerra non terminò come si dice.
Parole prensili per me.
“Io sono interessato a questo evento storico. Sospetto infatti che non sia stato detto tutto”.
“È una storia lunga. Devo pescare nella memoria per non sbagliare. Domani dirò tutto”.

Il paesaggio intorno era costituito dall’austero mondo dei falchi, dal buio regno dei gufi, dai poderi delle volpi, dalle contee dei tassi. E poi mucche sui prati: miniere d’oro bianco. La mia curiosità era altrettanto multiforme. L’indomani giunse il racconto promesso.
“Era poco prima di Natale 1917. Dovemmo inventariare tutte le opere e gli oggetti d’arte nonché di valore presenti nel palazzo. L’ordine giunse dai Generali von Bellow e von Dellmensingen tramite il Capitano Taxis, che dispose anche una accurata sorveglianza. Per la registrazione, che portava il n. 4542 del 20 dicembre 1917, è stata di valido aiuto Marietta, una dipendente della famiglia”.
La natura, padrona di casa che ha sempre ragione,faceva da testimone al racconto. La natura: participio futuro che allude a un avvenire rispetto alle più rigorose leggi della mente. Chiesi dunque:
“Dopo undici mesi la guerra terminò. Che cosa accadde veramente?”
“Il 29 ottobre 1918 un graduato austriaco percorse a cavallo Sacile dicendo che la guerra era finita”, raccontò il testimone oculare mons. Antonio Moret. La notizia era in incubazione da parecchio tempo presso i Comandi, si diceva.
La svolta cominciò nell’ottobre 1917. Gli Imperi Centrali combattevano contro la Russia. Con il sostegno tedesco rivoluzionari russi di spicco in esilio in Svizzera, tra cui Lenin e Trotzky, furono infiltrati dietro il fronte, dove erano attesi. Ci furono la rivoluzione d’ottobre e l’armistizio di Brest Litowsk. Ebbene, lo stesso doveva accadere per l’Italia, dove importanti estremisti marxisti erano attesi. Il fronte della Piave sarebbe crollato. L’Imperatore impedì tuttavia il transito del convoglio attraverso i territori controllati dalla proprie truppe e l’evento non ebbe luogo”.
Ma tale decisione era contraria ai propri interessi!”
Si e no. Gli Asburgo erano regnanti apostolici, cioé difensori della S. Sede. Cosa sarebbe accaduto se una repubblica marxista si fosse attestata in Italia? Il desiderato Concordato sarebbe stato impensabile e l’apostolicità avrebbe fallito. Carlo I non voleva fare la guerra, ma il Santo.
20 luglio 1918. Secondo me la decisione di cessare unilateralmente le ostilità appena possibile maturò allora. Qualcuno é tanto ingenuo da ritenere altrimenti possibile il volo su Vienna di Gaetano Rapagnetta nell’agosto 1918 senza essere intercettato dalle attivissime squadriglie di “Albatros”,“Hans” e “Ufag” o senza la minima reazione della potente contraerea disposta a difesa della capitale?I telegrafi funzionavano molto bene. I propositi imperiali dovettero quindi essere trapelati, ecco tutto. Rapagnetta è probabilmente noto come Gabriele D’Annunzio, nome d’arte poiché quello anagrafico era francamente poco artistico.
Facciamo il punto della situazione poiché sembra che spesso non si utilizzino tutte le esperienze storiche. Il Pontefice Benedetto XV aveva inviato la famosa nota “Ai capi dei popoli belligeranti”, in cui definì inutile strage la continuazione della guerra, il 1 agosto 1917. L’Austria-Ungheria cercò di concludere il conflitto vincendo. Ci fu la disfatta italiana di Caporetto e l’idea di una vittoria non fu estranea. Ma poi ci fu la battuta d’arresto sul Piave con l’arrivo dei grandi aiuti francesi e specialmente americani.Sia chiaro: l’America non vinse la guerra, ma la decise. Nonostante tutto in agosto la guerra sembrava quasi vinta: il fiume era stato superato, ma un ordine richiamò i contingenti, come scrisse F. Weber. L’Imperatore deve aver riletto le motivazioni della lettera del Papa ai belligeranti.”Quanto si aggraverebbero e quanto si moltiplicherebbero i comuni mali se altri mesi ancora o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso?, scriveva Benedetto XV. E poi l’esortazione a giungere “quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno di più apparisce come inutile strage”.Lo storico tedesco Gerhard Ritter,non tenuto alla moderazione verbale ecclesiastica, parlò più esplicitamente di “monotono mutuo assassinio di massa”.- Che cosa doveva e poteva fare un Imperatore Apostolico il quale doveva sopra tutto difendere la fede che nell’occasione gli giungeva come un ordine preciso dalla Santa Sede? Avrà pensato, profondamente cristiano qual era, che era meglio obbedire come novello Abramo e cioè perdere piuttosto che continuare l’inutile strage in un conflitto che egli non aveva voluto, ma soltanto ereditato? In fin dei conti una ritirata unilaterale c’era già stata: dopo Caporetto! Ma quella fu una disfatta e non valeva come modello.- Non si dimentichi che egli, Carlo I, aveva proibito il transito del treno pieno di rivoluzionari diretti in Italia attraverso i territori controllati dalle sue truppe. Di disordini alle spalle del fronte e di una rapida vittoria non si poteva quindi più parlare. Era inoltre noto il programma annunciato dal Generale Foch di inviare altri 400.000 soldati americani sul fronte della Piave. Una Maestà Apostolica, solennemente incoronata nella basilica di S. Stefano a Budapest quale continuatrice dell’opera degli Apostoli nei confronti della Cristianità, non avrebbe potuto permettere l’aumento dei morti e una ritirata unilaterale sarebbe stata l’unica soluzione per far cessare i combattimenti e l’inutile strage o meglio l’impazzimento collettivo. Se non fosse stato fatto, sarebbe stata ignorata la sollecitazione pontificia. Una revoca della “Maestà Apostolica, di competenza papale poiché anche la concessione avveniva per “motu proprio” pontificio, era improbabile ma pur sempre possibile. Canossa docet. Il XII° assioma del “Dictatus Papae” (“che ad Egli sia permesso di deporre gli Imperatori”) lo prevede espressamente. Il XXII assioma (“che Egli possa liberare i sudditi dall’obbligo dell’obbedienza ai Principi”) è inoltre altrettanto pericoloso.-Tale dignità apostolica iniziata il 27 marzo dell’anno 1000 con S. Stefano d’Ungheria, confermata all’Imperatrice Maria Teresa il 19 agosto 1758 e infine assunta da Francesco Giuseppe nel 1867, stava particolarmente a cuore a Carlo I, non nato per fare la guerra ma per fare il santo.
C’è un dettaglio cui non si presta mai attenzione: il concetto di “Maestà Apostolica”.- Bisognerebbe chiedersi il motivo, altrimenti diventa una caduta di cultura nella quale l’avversario viene considerato un nemico. Il valore rimosso e la fedeltà che ne conseguivano avevano profondo significato per Carlo I (Carlo IV in Ungheria, Carlo III in Boemia, Carlo VIII quale Principe del Sacro Romano Impero).Ciò aiuta a comprendere e confermare anche il coerente orientamento dell’Imperatore per far cessare la Grande Guerra.La particolarità trascurata dalla storia consiste nei due tentativi del 1921 per riconquistare il trono. Entrambe le imprese riguardarono Budapest e non Vienna, dove pure i simpatizzanti e le risorse non sarebbero mancati. Carlo I° era Re Apostolico d’Ungheria ed era logico che che l’apostolicità avesse la precedenza su tutto, successione dinastica compresa. Non si spiega altrimenti la priorità riservata non a Vienna ma a Budapest, dove è anche conservata la tradizionale corona. Lo storico francese Lucien Febvre ammonì:”Non ignorate la storia. Se la si ignora, si vendica.”
I due sforzi non riuscirono nonostante le bandiere spiegate, i reggimenti avessero già pronunciato il giuramento, le armi fossero pronte, la popolazione simpatizzasse. Rimaneva il fatto che ci sarebbero stati nuovamente molti morti. Un Re Apostolico non avrebbe potuto consentirlo. Non avrebbe potuto considerare gli avversari come dei nemici. Esattamente come tre anni prima, Carlo I° ritenne che fosse meglio perdere piuttosto che fare una strage. Ordinò quindi la ritirata unilaterale, come nel 1918, e finì in esilio nell’isola di Madeira.
Certo, una ricompensa non sarebbe mancata per un atto tanto coraggioso quale la ritirata del 1918. Il credo religioso può influenzare la visione della vita con la sua forza ma anche con la sua fragilità. Considerata la profonda fede del regnante, una promessa di beatificazione non sarebbe apparsa troppo poco. Qualche titubanza avrebbe comunque resistito, ma con la prospettiva di estendere la gloria degli altari anche all’amata consorte avrebbe superato l’ostacolo. Può sembrare paradossale, ma anche Giovanna d’Arco (1412-1431) fu prima bruciata sul rogo e poi riabilitata con la gloria degli altari.
Questo è un dettaglio cui non si pensa mai. La scuola evita di parlarne.
La credulità non è la fede e le parole possono uccidere le cose, come affermò il poeta Rainer Maria Rilke. La scuola, specialmente quella italiana, è difensivamente basata su una presunta verità e ciò impedisce ogni chiarezza. La verità è un frutto maturo: fuori posto sulla pianta e per questo deve cadere. La retorica è come un gallo che canta su uno strato di letame. Essa è composta da gente che non porta mai i guanti, perché tiene le mani sempre nelle tasche dei contribuenti”.
Allora la battaglia di Vittorio Veneto? Le battaglie sono sempre spine ancorché di rose diverse.Non c’è mai stata la battaglia di Vittorio Veneto!Fu un equivoco storico imposto dal regime,benché meno realistico della Elsinore nell’Amleto di Shakespeare o il palazzo di Menelao nel Faust di Goethe.
L’ostentata insistenza nasconde qualcosa e la dedica di ben 2.451 vie a “Vittorio Veneto” lo conferma. Si pensi che il Risorgimento e la Vittoria si accontentarono rispettivamente di 1.475 e di 883 strade!La minore rilevanza riservata al Risorgimento e alla stessa vittoria sono poco chiare. Eppure nel primo caso si era perfino tentato di ufficializzare il termine “Resurrezione”.Poiché questo risultava tuttavia brevettato altrove, bastò essere l’unico Paese che si considera “risorto”. Nel secondo caso potrebbe avere influito un inatteso senso della misura.
La toponomastica è uno studio importante e la retorica riuscì a stravolgere anche questo.È immaginabile uno scontro armato così importante senza nemmeno un morto? Si consultino i nomi dei caduti in combattimento, non per precedenti ferite o malattie, per convincersene. Una battaglia senza perdite o distruzioni sarebbe veramente consolante per l’umanità, ma sarebbe più credibile un fortissimo sisma senza nemmeno una lesione di edifici. I Lancieri di Firenze entrarono eroicamente in città il 30 ottobre, dopo la partenza del contingente austro-ungarico confermata e resa nota confidenzialmente dal sindaco Francesco Troyer. Chi avrebbero combattuto? Esigue pattuglie rimaste a difesa della ritirata? La città si chiamava allora soltanto Vittorio e nel 1918 rimase estranea sia al “Dies irae” sia al “Diaz irae”. Eppure a Vittorio Veneto c’è un museo della battaglia tenuto in piedi con denaro pubblico!
L’attributo toponomastico fu aggiunto nel 1923 per adeguare la località a presupposti nazionalisti.Una iniziativa per “adempiere alle profezie”?- Il potere sapeva che le pecore preferiscono lupi con buone zanne.- Giuseppe Prezzolini scrisse nella terza serie dei Quaderni della Voce e precisamente a pagina 34/35:”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato:”una battaglia che non abbiamo vinto”.- La storia registra un solo caso di guerre incruente: quella valorosamente dichiarata dal Governo Parri al Giappone nell’estate 1945, quando si stavano caricando sugli aerei le bombe atomiche destinate a Hiroschima e Nagasaki!-
A Ponte della Priula i soldati italiani non sapevano chi fosse e che cosa significasse Vittorio. Molti ritenevano che si trattasse di un nome di persona e chiedevano dove potesse essere. D’altra parte la località comparve nella toponomastica solo per decreto il 22 luglio 1923!
In realtà una battaglia e una vittoria con tanto di caduti ci furono alla fine di ottobre 1918, ma non a Vittorio Veneto.- I Kaiserjäger ignorarono l’ordine di ritirata senza combattere e vollero riconquistare il Monte Pertica, che rimase nelle loro mani per un intero giorno. Poi obbedirono.
Il paesaggio continuava ad essere una filigrana allegorica. Solo che io mi sentivo più contiguo al nido dell’aquila reale che a quello del cuculo.
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G I U S E P P E     G A R I B A L D I

Quando di certe cose, di qualche evento o di taluni personaggi appartenenti alle verità di regime non si può parlare bene, si dedicano loro vie e piazze in modo che il loro nome ricorra quotidianamente.

Una “via del gambero” ricorre per esempio, nello stradario di parecchie località.
Alla battaglia di Vittorio Veneto, sempre per esempio, risultano dedicati ben 2451 luoghi pubblici. L’omonima battaglia non ebbe mai luogo. Pur essendo parte integrante dei programmi scolastici, essa è un equivoco storico come la Elsinore nell’Amleto di Shakespeare e il palazzo di Menelao nel Faust di Goethe.
Le dediche al Risorgimento sono solo 1475, benché si tratti di un fenomeno piemontese-anglo-francese. Non si dimentichi che l’Italia è l’unico Stato che si considera “risorto”. Sarebbe stato volentieri usato il termine “Resurrezione”, se non fosse risultato già brevettato altrove.
Per la Vittoria la cifra si ferma invece più ragionevolmente o consapevolmente a 883 vie.

Questo è tuttavia nulla in confronto all’attenzione riservata a Garibaldi. Egli, che si firmava sgradevolmente “Il Dittatore”, era francese con ascendenze liguri. Era nato a Nizza, allora come ora appartenente alla Francia. La sua lingua madre era il francese e imparò poi l’italiano con risultati poco notevoli. Qui non c’è nulla da redaguire. Lo stesso incontro presso Teano si svolse spontaneamente in lingua francese.
Il personaggio fu citato in 5500 comuni italiani (6 su 101!). Tutti gli altri 2600 si rammaricano che non vi si sia fermato magari solo per un improvviso impulso delle viscere. Le lapidi con il suo nome sono 1200 e una del 27 maggio 1860 lo definisce sterminatore di ogni tirranide.
E’ naturale chiedersi il motivo di tale contagio perché desta sospetto.
A Napoli il personaggio era stato considerato un bandito. A Torino un ribelle (per il tentativo di impadronirsi di una vascello nel 1834 fu esiliato per 12 anni nel Sud America, ove fu corsaro). A Roma era uno scomunicato. Il fatto che avesse un orecchio mozzo rimanda all’abitudine sudamericana di punire i ladri di bestiame.
Le sue imprese furono finanziate generosamente dalla Massoneria (5 milioni di franchi oro, pagati in piastre turche, soltanto a Londra. La quietanze si trova presso la Loggia “Quator Coronati”). Ma ciò non giustifica la notorietà.

Il personaggio aveva una predilezione per le donne diciottenni. Anita (moglie di un calzolaio) fu la prima. Seguirono Battistina Rovello (domestica), Giuseppina Raimondi (marchesina peraltro molto preparata per la sua età) e Francesca Armosino (inserviente).- Tale preferenza non può essergli assolutamente rimproverata (benché il matrimonio con la Raimondi fosse durato una sola ora a causa delle clamorose infedeltà. Il Generale avrebbe avuto più corna di un cesro di lumache!), ma nemmeno ritenuta utile per tutta quella celebrità. Abche per questi varrebbe il senso della misura.
Una verifica della carriera miliatare non è inoltre esaltante. Senza gli appoggi esteri non sarebbe mai arrivato a Marsala. Senza la corruzione dei militari borbonici non sarebbe mai arrivato a Napoli. In questa città egli entrò trionfalmente il 7.9.1860. La camorra assicurò il servizio d’ordine. (Nico Perrone, Corriere della Sewra 28.08.2010, pag. 17). Nel 2011 si volle aumentare la popolarità di Garibaldi nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia mettendo in giro al voce che fosse fratello di Santa Rosalia. I prodotti nel frattempo pubblicizzati col suo nome (dolci, vini,sigari, reparti militari, simboli elettorali, navi e perfino pesci rossi….) si rivelarono inferiori alle aspettative.- Fu necessario riesumarne la memoria nelle affigliazioni della criminalità, quando gli aspiranti giurano sul suo nome (Oggi, 3 dicembre 2014, pag. 52-56). Nonostante tutto egli rimane il conquistatore di Paesi tra loro estranei culturalmente, socialmente, linguisticamente ed economicamente, i quali di comune avevano forse solo l’essere soggetti ad altri popoli. Si ha l’impressione che Garibaldi stia diventando uno statale, una sorta di Direttore Generale delle emozioni pubbliche, come sostenne Giorgio Manganelli. E questo giova alla notorietà.
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P L A G I
Il poeta latino Marco Valerio Marziale (40-104 d.C.) si lamentava che un rivale avesse recitato dei versi suoi, spacciandoli per propri. Aveva ragione perché “la copia parziale o totale di un’opera d’ingegno altrui” si chiama plagio.- Il fenomeno è più frequente di quanto si possa ritenere. Potrebbe riguardare anche casi insospettabili.

Canzone del Piave.

Nel febbraio 1918 il 106° reggimento ungherese “Honved” era schierato sulla riva sinistra della Piave tra San Polo e Ponte di Piave. Lo comandava il giovane ufficiale Antàl Lehàr.- I volontari (Honved in ungherese significa volontari) gli chiesero un inno per il loro reparto.- Furono accontentati e comparve “Piave indulò” (Marcia del Piave). L’autore non si sentiva abbastanza esperto in note musicali e chiese pertanto aiuto a suo fratello musicista: Franz Lehàr!- Si scusi se è poco.
Sulla riva destra del fiume si sentivano gli ungheresi cantare.
Nel giugno dello stesso anno l’impiegato postale E. Mario si recò in treno dalla zona di operazioni belliche a Roma. In quella circostanza avrebbe ideato e scritto la Canzone del Piave. Le parole non sono propriamente le stesse della versione ungherese (egli non conosceva la lingua!), ma la genesi intenzionale ne sarebbe stata la stessa.

Poesia di Giuseppe Ungaretti.

La lirica di Giuseppe Ungaretti “SOLDATI” fu composta nel luglio 1918 e pubblicata nella raccolta “Allegria di naufragi” dell’anno successivo.- Essa recita testualmente:

Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie.

La riflessione sulla somiglianza tra esseri umani e foglie, cioè sull’incertezza e precarietà risultanti dal testo, ha alcuni autorevoli precedenti classici:
Virgilio, Eneide, VI, versi 309-310: “Quante foglie al primo freddo autunnale, cadono scosse nelle selve”.
Dante, Inferno III, verso 111:”Come d’autunno si levan le foglie”.

Secondo attendibili opinioni i rimandi intertestuali più notevoli sarebbero comunque i seguenti:

– Omero ricordava nel VI libro dell’Iliade (incontro tra Diomede e Glauco) che siamo “come le foglie”;

– Mimnermo (Μίμνερμος ), VII-I sec. a. C. nella poesia in distici elegiaci intitolata “Come le foglie”:”οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν” =” come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini”.

Ungaretti avrebbe imitato vistosamente Mimnermo, a quanto sembra.
Come nel greco antico, anche il testo ungarettiano rifiuta inoltre la punteggiatura.- La preposizione semplice per formare il complemento di tempo in italiano esprime poi l’indefinitezza presente nei versi greci relativamente alla similitudine tra foglie d’autunno e soldati al fronte.
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L A P I D I     S C O M O D E

(Saggio in memoria di Eugenio Bucciol,
egregio amico e compagno di scuola scomparso)

Dal XV secolo Oderzo risvegliò l’interesse degli eruditi. Tra questi c’era Jacopo Filiasi (1750-1829), autore di una vasta lista di iscrizioni non romane ma dell’epoca romana.
Theodor Mommsen (1817-1903) e la moglie Sophie Davydoff erano ospiti dei Galvagna nel novembre 1857. Questi patrizi impedirono che molta messe archeologica di Oderzo andasse in rovina. Altrettanto fecero Fautario, Gasparinetti, Bissoni, Bon, Sopran, Perrucchino. Anche l’abate trevisano Luigi Bailo (1835-1932) era riuscito a farsi consegnare da scavatori abusivi, nonché dal conte Revedin, collezioni di bronzetti paleoveneti nel periodo 1882-1884. I reperti archeologici sono infatti documenti di vita degli antenati e la loro distruzione corrisponderebbe a un parricidio.
Mommsen visitò la “Raccolta Antiquaria” inaugurata nel 1856 e visionò personalmente alcune epigrafi poi inclese tra le 70 del “Corpus Inscriptionum Latinarum”.

Nel 1870 insegnava presso la Regia Scuola Tecnica di Oderzo Gaetano Mantovani (1844-1925). Le sue insistenze intese alla istituzione di un museo per custodire tutte le lapidi, lo avevano reso inviso all’Amministrazione succeduta a quella del Lombardo-Veneto e nel 1873 dovette abbandonare la città. Il maestro era veramente privo di buona educazione coloniale. Probabilmente aveva informato sfacciatamente rappresentanti del Comune con le palpebre a mezz’asta che magister era più di minister e che le variabili culturali erano fuori dalla portata dri governi. I suoi studi, anche presso la Biblioteca degli Amaltei messagli a disposizione da Paolo di Porcia, furono interrotti e molti reperti dispersi. “I danni della storia inibiscono la creatività innovativa” avvertiva Friedrich Hegel.ll Museo Civico fu comunque voluto nel 1876, anche se l’apertuta avvenne due anni dopo.
Poiché dai dati delle tradizioni, da osservazioni di Mommsen e da affermazioni di Mantovani nel 1873 (“I muri di villa Galvagna erano interamente rivestiti di lapidi e solo una parte si troverebbe nella raccolta archeologica”) risultavano tra l’altro mancanti 36 lapidi, sembrerebbe lecito chiedersi il perché.

Le iscrizioni mancanti erano decifrabili soltanto da chi conoscesse il latino: sacerdoti o seminaristi.- Quale ne era il tono?-”Lucio Carminio figlio di Eros – Liberto – Ai Lari – quest’ara pose. Per voto fatto meritamente”, per esempio.- Nulla di strano, si dirà. E invece no! Il liberto era un ex schiavo ricco da permettersi offerte costose. Non un romano, altrimenti non sarebbe stato schiavo. Ricerche sulle lapidi superstiti e visitabili dimostrano che la popolazione opitergina non era affatto romana, ma illirica, paleoveneta, germanica, gallica….e questo non andava bene. Gradito sarebbe stato, nonostante il nome ripugnante, un Lucius Ragonius Urinatius Quintilianus in ricordo del console suffetto (non è una parolaccia: significa sostituto) di origini opitergine nella seconda metà del II° secolo d.C.- Trentasette rimozioni divennero come minimo indispensabili. Una lezione lassativa, un succhietto per neonati privi di pollice.I responsabili temevano forse che le parole incise nel marmo li leggessero? Può essere. Ma perché non trentasei, se tali erano le lapidi mancanti?
Per capire il tempo bisogna partire dal frattempo. Nel 1824 era giunto a Oderzo il Vicerè Ranieri d’Asburgo per visitare la celebre Biblioteca degli Amaltei. La bella pagina di storia fu tramandata con una lapide in latino. Nel 1866 l’iscrizione fu eroicamente frantumata e sarebbe stata quindi la 37^ lapide fatta sparire! Forse anche in questa occasione qualcuno dal naso tendente al convesso sapeva il latino essendo stato in seminario? Non fu e non c’è ora verso di ripristinarla nemmeno in assenza di costi per la Pubblica Amministrazione.

L’editore Almorò Albrizzi (1695-1764) aveva pubblicò nel 1743 le “Memorie isteriche di Oderzo”, trascrivendo anche alcune epigrafi. Ebbene, anche queste mancherebbero in parte all’appello. Pare quindi che l’ostilità selettiva contro certe iscrizioni o memorie abbia una tradizione e sia meno casuale di quanto si possa ritenere.Secondo la formula dello psicologo Laurence Peter ciascuno sale fino a raggiungere il proprio livello di incompetenza.
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«La rievocazione storica romana? Una sagra senza fondamento»
Il prof germanista De Carlo attacca l’amministrazione comunale: «Roma ha solo colonizzato Oderzo qui non c’è traccia di un ceto romano con diritto a una tomba con lapide, come si vuole far credere».
(Giuseppina Piovesana)
ODERZO. Tornerà, tra maggio e giugno, la rievocazione storica che fa riviere l’antica Opitergium, la città venetica di Oderzo che un secolo prima di Cristo fu colonizzata dai Romani. Nerio De Carlo, professore germanista ed autore di decine di pubblicazioni, ritiene la rievocazione «un vero affronto alla storia». L’affronto alla storia starebbe, secondo il professore, soprattutto nell’equivoco di fondo di “riempire” la rievocazione con figure di opitergini romanizzati, che in realtà non sarebbero mai esistiti. Roma, insomma, ha solo colonizzato Oderzo trattando i suoi cittadini alla stregua di schiavi, sostiene De Carlo. «Mentre si fanno spettacoli teatrale e manifestazioni che somigliano a sagre», polemizza De Carlo, «Le lapidi antiche sono lasciate a pezzi e senza dignitosa collocazione. Per fortuna almeno sembra che non ci siano più i finanziamenti pubblici. Stupisce che a Oderzo, dove esiste da lungo tempo uno dei più prestigiosi istituti scolastici, non siano emerse riflessioni sulla realtà, ma si insista in errate attribuzioni smentite da testimonianze archeologiche. Si preferisce pensare che la storia sia una grande maestra, ma che taluni scolari siano scadenti». Come se gli opitergini non avessero orgoglio delle proprie origini ma preferissero celebrare i colonizzatori. Ma in questi anni le collezione del museo archeologico opitergino si sono arricchite importanti di reperti venetici, dando ragione alle tesi di Nerio De Carlo. Nelle lapidi opitergine, afferma De Carlo, non c’è quasi traccia di nomi romani, sono tutti venetici, illirici e germanici. «Il Museo archeologico di Oderzo ha un notevole numero di lapidi in latino, che nell’antichità era la lingua di comunicazione. Per subalternità culturale si sostiene che si tratti di iscrizioni romane. Sarebbe come dire che Parigi è inglese perché molte istituzioni usano correntemente la lingua inglese». Nerio De Carlo afferma addirittura che 36 lapidi furono fatte sparire alla fine del 1800 per oscurare la verità storica.
«Altro che glorie romane! A questo punto spiace per quanti a Oderzo provano un entusiasmo immerso nel sonno per le loro ascendenze romane. Non c’è traccia di un ceto romano residente a Oderzo con diritto a una tomba con lapide. Gli opitergini non erano e non sono quindi romani, ma vassalli di Roma».
Resta il mistero delle 36 iscrizioni sparite. Potrebbe accadere ancora? «A pensar male si commette peccato, ma si indovina», afferma De Carlo,«Al massimo potrebbe verificarsi qualche danneggiamento. Non sarebbe la prima volta. Si ricordi la famosa lapide apposta nel palazzo Amalteo nel 1824 e frantumata nel 1866. Non si riesce a ripristinarla». Nessun commento da parte del sindaco Pietro Dalla Libera.

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OTERG (museo di Ascoli) OTERGJE (Museo Naz.Romano) OPTERGN ( caratteri latini)

Talune esaltazioni della romanità – più vicine alla adorazione del vitello d’oro che alla realtà – persistono in generale nella scuola. Si scusi l’irreverenza, ma esse assomigliano a un giornale pisano che negli anni 1945-1953 riportava, accanto ai risultati calcistici delle squadre locali, anche quelli del campionato sovietico. Uno spasmo di comunicazione con ricadute carismatiche, uno stato latente dell’animo e un ingigantimento della nullità affiorano inoltre in rievocazioni storiche.

Prendiamo ad esempio Oderzo e chiediamoci se le celebrazioni primaverili con tanto di clown da combattimento ma prive di suggestioni artistiche, siano o meno giustificate. Se accennassero a un improbabile umanesimo superiore, si limiterebbero all’inconscio.

Il periodo preromano di Oderzo fu venetico e durò circa 200 anni dal 1000 al 900 a.C. (età del bronzo finale I^ e II^).

Per tutta l’età del ferro iniziale (900-700 a.C.), la città fu per definizione preromana e trascorsero altri 200 anni.

Tra la fondazione della prima colonia di Aquileia (181 a.C.) e la nomina di Oderzo a Municipio (I^ metà del I° secolo a.C.) si possono calcolare ulteriori 60 anni di quasi assenza romana. L’alleanza con le legioni di Scipione durante le guerre puniche non può infatti essere connotata come sudditanza.

I 536 anni di appartenenza di Oderzo all’Impero romano (60 nel I° sec. a.C. + 476 d.C. ) meritano una attenta valutazione.

Diocleziano introdusse la riforma tetrartica nel 293 d.C.- Si può quindi già parlare di Impero Romano d’Occidente e d’Oriente. Teodosio I° confermò tale divisione nel 395 d.C.- A questa prima suddivisione dell’Impero Romano appartennero gli Imperatori Costantino (306-337), Valente (364-378), Arcadio (395-408), Zenone (474-491) ed Eraclio (610-641). Durante il governo di Zenone ebbe luogo tra l’altro la deposizione dell’ultimo Imperatore Occidentale Romolo Augustolo (476 d.C.) ad opera dei Goti.- Tutti questi regnanti non furono di estrazione capitolina, bensì orientale per 350 anni.

Si può realisticamente concludere che l’effettivo dominio romano di Oderzo si ridusse a circa 3 secoli e mezzo (60 a.C.293). La sopravvivenza formale dell’Impero Romano d’Occidente durò altri 183 anni (476-293) ma in versione decaffeinata.

L’Impero Romano d’Oriente sopravvisse invece fino al 1453. Per quanto riguarda tuttavia Oderzo, che ad esso appartenne anche dopo la caduta di Romolo Augustolo nel 476 d.C.,il coinvolgimento storico cessò già nel 616 d.C.- Sebbene i Longobardi di Alboino fossero giunti in Veneto nel 568 d.C., Oderzo continuava ad essere governato dai bizantini. Il patrizio Gregorio fece assassinare i principi Tasone e Caco e i Longobardi punirono la città privandola perfino del Vescovado. Il Regno longobardo sarebbe poi cessato nel 774 d.C. Ma la Diocesi rimase a Ceneda.- Ancora prima la città aveva riportato gravi danni dai Goti di Alarico (401 d.C.), da Attila e dai Vandali (prima metà del ‘400). Altri guai furono provocati dagli Avari nel sesto secolo d.C.-

Durante i regni latino-germanici altomedievali prevalsero ampiamente gli elementi etnici della seconda dimensione. Seguirono un Regno Franco (781-1014), il Sacro Romano Impero da Carlo Magno a Ottone il Grande (sostituito soltanto nel 1806 dall’Impero d’Austria), la nascita di Venezia, ulteriori aggressioni degli Ungari nell’anno 900, l’unione con i Ducati germanici di Baviera e di Carinzia (rispettivamente nel 962 e nel 976 prima come Marca di Verona e poi come Marca Trevisana dal ‘200), le dinastie feudali di origine germanica come gli Estensi, i da Romano, i da Camino, i Collalto, i Carraresi, i Colfosco….- I Comuni emersero dal 1291. Il reticolo di nuove sedi diocesane riconducibili al Patriarcato di Aquileia (si controllino pure i nomi dei Presuli anche a Ceneda per scoprirne l’origine tutt’altro che australe!), il governo di Leopoldo III d’Asburgo dopo la vittoria su Genova, l’estensione di Venezia in terraferma dal 1420, la fine della Serenissima nel 1797 (il Trattato di Campoformido del 25 vendemmiaio 1797 [17 ottobre 1797] fu solo una formalizzazione di preliminari di pace, che ne prevedevano già l’annessione all’Austria in un più ampio assetto di variazioni territoriali, come il Belgio), il successivo Regno d’Italia voluto da Napoleone e durato solo dal 1805 al 1814, il Regno Lombardo-Veneto e infine l’annessione all’Italia nel 1866 dopo un plebiscito discutibile….- Ebbene, tutti questi eventi prescindono dall’asserita romanità opitergina.

In conclusione Oderzo fu effettivo dominio romano per circa quattro secoli durante i 3000 anni di esistenza: il 7,5%. Il restante 92,5% appartiene all’ampio scenario e allo spazio semantico della storia europea non antartica sopra descritti.

Che cosa conferisce quindi alla città un’apparenza di romanità? Il fatto che sotto l’Imperatore Augusto si sia verificata la prima “Marcia su Roma” di novecentesca memoria? Oppure ancora inesistenti trasmissioni ereditarie?

Che cosa si cerca in un lontano passato non propriamente raccomandabile? Si ha forse nostalgia del trattamento riconducibile ai “7 colli”?- Cicerone scrisse subito dopo le Idi di marzo nella Seconda Filippica che Marco Antonio, braccio destro di Cesare, amava circondarsi di prostitute e lenoni (comites nequissimi).- Nella Sesta Filippica lo stesso Cicerone sostiene che i cittadini dei Municipi erano tenuti a rendere omaggio a simili compagnie. C’è proprio da esserne fieri?- Qualcuno sostiene di si. Sorge  però un problema : come provvedere alle centinaia di litri di latte d’asina necessari per un adeguato bagno d’epoca a qualche Poppea nelle rievocazioni storiche che, anche quando sono terminate non si riesce a pensare ad altro che alla loro inutilità?

Anche la definizione dei magnifici mosaici opitergini dovrebbe essere rivista. Anziché di mosaici romani, si dovrebbe parlare di mosaici d’epoca romana. Ma neanche, considerata la datazione successiva al governo di Settimio Severo, entrato a Roma il 9 giugno nel 193! “Con lui finisce il potere delle grandi famiglie che dall’età repubblicana si erano avvicendate nella gestione dello Stato e termina la supremazia di Roma e dell’Italia come centro del potrere”, scrive Francesca Bonazzoli, critica d’arte del Corriere della Sera. E’ l’inizio di una cultura nuova, chiamata tardo-antica, embrione sia dell’Oriente bizantino, sia dell’Occidente medievale destinato a rimanere nell’arte musiva fino all’XI secolo.

Nessuno degli esperti si è accorto che mentre a Roma si continuava a inserire riquadri in cornici geometriche, nelle Province nascevano grandi pavimenti di mosaico con composizioni unitarie e una sola scena, realizzati con tessere colorate di marmi locali e di paste vitree?- Le scene non sono più mitologiche: cedono spazio alle fattorie, come nel notevole caso della villa di Oderzo. Le maestranze di scuola bizantina, non romana, hanno esportato il loro stile fino a tutto il 4° secolo.

Questo è quanto bisogna dire agli Opitergini e che gli Opitergini debbono lasciarsi dire. Con coraggio intellettuale. Oderzo operosa e in continuo sviluppo economico-urbanistico merita di più delle logore rievocazioni storiche con rango da piccolo circo finora realizzate, che con garbato ottimismo possono essere chiamate sottoculture. Si fa rispettosamente osservare che ci sono altre belle pagine di storia da commemorare: la visita di un Viceré nel dicembre 1824 alla famosa biblioteca degli Amaltei, per esempio. Gli Assessorati hanno la responsabilità dell’inerzia di fronte alla verità.

 

Nel titolo: tre proiettili di piombo per fionda (2 in lingua vanetica e 1 in caratteri latini) usati da militi opitergini durante l’assedio di Ascoli nel 68 a.C.- L’usanza delle incisioni toponomastiche era diffusa anche tra i frombolieri etruschi.

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P  L  A  G  I

Canzone del Piave

Nel febbraio 1918 il 106° reggimento ungherese “Honved” era schierato sulla riva sinistra della Piave tra San Polo e Ponte di Piave. Lo comandava il giovane ufficiale Antàl Lehar.- I volontari (Honved in ungherese significa volontari) gli chiesero un inno per il loro reparto.- Furono accontentati e comparve “Piave indulò” (marcia del Piave). L’autore non si sentiva abbastanza esperto in note musicali e chiese pertanto aiuto a suo fratello musicista: Franz Lehàr!- Si scusi se è poco.

Sulla riva destra del fiume si sentivano gli ungheresi cantare.

Nel giugno dello stesso anno l’impiegato postale E. Mario si recò in treno dalla zona di operazioni belliche a Roma. In quella circostanza avrebbe ideato e scritto la Canzone del Piave. Le parole non sono propriamente le stesse della versione ungherese (egli non conosceva la lingua!), ma la genesi intenzionale ne sarebbe stata la stessa.

Poesia di Giuseppe Ungaretti.

La lirica di Giuseppe Ungaretti “SOLDATI” fu composta nel luglio 1918 e pubblicata nella raccolta “Allegria di naufragi” dell’anno successivo.- Essa recita testualmente:

Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

La riflessione sulla somiglianza tra esseri umani e foglie, cioè sull’incertezza e precarietà risultante da una analisi connotativa del testo, ha alcuni autorevoli precedenti classici:

  • Virgilio, Eneide, VI, versi 309-310: “Quante foglie al primo freddo autunnale, cadono scosse nelle selve”.

  • Dante, Inferno III, verso 111:”Come d’autunno si levan le foglie”.

Secondo la mia opinione i rimandi intertestuali più notevoli sarebbero comunque i seguenti:

      • Omero ricordava nel VI libro dell’Iliade (incontro tra Diomede e Glauco) che siamo “come le foglie”;

– Mimnermo (Μίμνερμος ), VII-I sec. a. C. nella poesia in distici elegiaci intitolata “Come le foglie”:”οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν” =” come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini”.

Ungaretti avrebbe imitato vistosamente Mimnermo, a quanto sembra.

Come nel greco antico, anche il testo ungarettiano rifiuta inoltre la punteggiatura.- La preposizione semplice per formare il complemento di tempo in italiano esprime poi l’indefinitezza presente nei versi greci relativamente alla similitudine tra foglie d’autunno e soldati al fronte.

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V E N E Z I A: SERENISSIMA  MA  NON  SANTISSIMA

C’i sono tasti neri nella tastiera storica veneziana. La genesi della Serenissima non è capitolina, ma la sua storia non fu fedele alla vocazione culturale.

L’Europa attirò spesso l’espansionismo arabo. Risalgono al periodo 652-827 gli sbarchi orientali in Sicilia che durarono fino all’avvento dei Normanni (1061). Nel 710-721 furono conquistate Las Palomas, Algesiras, Cadice, Medina, Sidonia, Cordoba, Carmena, Merida e l’Aquitania. Nel 732 fu la volta di Bordeaux e Tours ma Carlo Martello vinse a Poitiers.-

Venezia non fu conquistata dagli Arabi, ma i rapporti furono molto intensi: religione e affari rimasero tuttavia separati, sebbene il Bailo Lorenzo Bernardo (1534-1592) avesse sostenuto:”Il turco a noi per religione contrario e però per necessità nemico (!)”.

Con il tempo subentrarono cedimenti e ripensamenti collocabili soltanto nell’ambiente veneziano.

Tra il 1470 e il 1499 il Friuli e il Trevigiano subirono sette invasioni turchesche. Il Provveditore Andrea Zancani ordinò perfino di non reagire e fu sospettato di connivenza con gli invasori.- Nel 1532 le mire espansioniste di Solimano il Magnifico (1494-1566) diventarono più esplicite. Il governo veneziano fece confezionare dai migliori orafi una costosissima corona tempestata di pietre e perle rare per incoronarlo Imperatore e Papa dell’Occidente! Il gioiello è esposto a New York nel Metropolitan Museum of Art.

Questo fu l’orientamento ufficiale della Serenissima. La coerenza, l’affidabilità e la rettitudine non furono lodevoli.

I comportamenti personali non furono più edificanti di quelli ufficiali.

La guerra austro-turca fu vinta a Vienna nel 1683 senza l’aiuto di Venezia. La Serenissima, così chiamata poiché l’attributo “Santissima” era già brevettato altrove, brillò per la sua assenza in quella decisiva occasione. Si potrebbe obiettare che Padre Marco era suddito veneziano e che un merito lagunare sarebbe quindi esistito. Bisogna però aggiungere che un secondo Cappuccino, noto ingegnere militare, collaborava con gli Ottomani sotto le mura di Vienna: Islam Ahmed Bey. I due religiosi erano coetanei, appartenevano alla stessa Provincia Veneta dell’Ordine e probabilmente avevano professato i voti insieme. Sia consentito sospettare il doppio gioco: sia la vittoria asburgica sia il successo ottomano avrebbero avuto qualcosa di veneziano.

Venezia fu invece presente nel 1684, quando il pericolo sembrava ormai cessato e lo stesso Marco d’Aviano costituì la quarta Lega Santa ispirata dal Pontefice Innocenzo XI.- Comunque non la Lega Santa ma l’Impero asburgico arginò allora l’aggressione islamica, facendo risparmiare a Venezia ingenti risorse che, in caso di sconfitta asburgica, sarebbero certamente state impiegate per la confezione di una seconda, preziosa tiara per incoronare stavolta il Sultano Maometto IV.

Diventava intanto frequente l’usanza di convertirsi all’Islam. Il Capitano Barozzi fuggì da Candia assediata per confidare ai nemici informazioni sulle difese veneziane.- Il comandante di un “vascello”, Natalino Furlan, consegnò l’imbarcazione agli avversari e collaborò con la propria esperienza marinara.

Nella città lagunare le conversioni avevano diversi motivi. Bastava una delusione amorosa per “andar dai Turchi a renegar la fede”, come accaduto a Chioggia. Per altre traversie c’era il detto:”Volto i quadri (dei Santi) e me fazzo turco”, come si legge in un processo dell’Inquisizione Veneziana.- Nemmeno i religiosi ne erano esenti. Il Minorita Alfonso da Malta abbandonò la fede cristiana per l’Islam, salvo poi pentirsene.- Scipione Cicala (1545-1605) era diventato potente e ricco Ammiraglio dell’Impero Ottomano. Si diceva che avesse 600 schiavi e un patrimonio di due milioni d’oro. Inutili si rivelarono le speranze del Pontefice Clemente III di un suo ravvedimento. Sebbene il personaggio non fosse veneziano, a lui guardavano quale esempio molti veneziani, come il veneto-friulano Jahia Chiaris e Costantino Phaulkon da Cefalonia.- A questi bisogna aggiungere quanti confidavano in prospettive che andavano dall’ arruolamento tra i giannizzeri fino alla carica di Gran Visir. Non erano sempre vuote ambizioni. Su 48 Gran Visir tra il 1453 e il 1623 almeno 33 provenivano dalle schiere dei rinnegati veneziani!- Alvise Gritti (figlio del Doge Andrea) riscattò la sua nascita illegittima con uno stupefacente voltafaccia religioso, diventando il numero due musulmano per autorità e grado.

Ricchezza e notorietà possono essere catalizzatori nella scorciatoia religiosa. Possono esserci tuttavia anche altri motivi. I valori sono coefficienti sociali: non sono, ma valgono. Ruzante fa capire nella sua opera “La Piovana” che nella realtà maomettana un uomo può avere “tante mogiere quante ne può mantenere”. Tale opportunità potrebbe non aver lasciato indifferenti certi personaggi.

Non si trattò di numeri esigui di persone convertite all’Islam. Il bailo Alvise Contarini (1597-1651) informò che i capi mastro dell’Arsenale a Costantinopoli erano ex cristiani e facevano ciò che non avevano potuto fare nel proprio Paese. Il “desiderio de magnare” dei villici della terraferma, recensito dal Ruzante, veniva inoltre ignorato dalla Repubblica in via di estinzione come Stato. Se questo fu il risultato, è giusto risalire alla causa.

Tutte le energie erano riservate al mare e agli affari. Venezia non era uno stato italiano, ma un impero multietnico, multilingue e multireligioso con finalità puramente economiche contagiate da un esprit pharaonique. Poichè l’impero è un concetto politico e non economico, nulla rimaneva per il tessuto sociale. La politica impediva lo sviluppo delle personalità. Nessuno spazio esisteva per il bisogno di emergenza individuale.

L’aristocrazia era miope sulle cause del fenomeno e nessuno se ne accorgeva? In realtà qualcuno aveva capito ancorché in modo criptografico. Bisognava essere prudenti. Antonio Barbaro (1627-1679) pagò a Giusto le Court 30.000 ducati per il prospetto marmoreo della chiesa di S. Maria del Giglio. Nel monumento non ci sono immagini religiose ma la statua del committente. Assente la Repubblica!– Questo fu l’inizio. Il resto sarebbe giunto nel ‘700 quando l’Illuminismo fece affiorare gli impulsi repressi. Ma era troppo tardi.

La storia registra due occasioni mancate per la sopravvivenza di Venezia. La prima volta nel 1797, quando il nano generale Napoleone (1769-1821) ne determinò l’unione all’Austria. Il cambio tra il Leone e l’Aquila Bicipite fu favorevole, non fosse altro che per l’appartenenza alla Mitteleuropa. La seconda opportunità fu nel 1815, quando fu istituito il Regno Lombardo-Veneto. L’aggancio all’Europa Centrale era altrettanto valido, ma l’equilibrio della politica decise diversamente. In entrambi i casi la popolazione non contò nulla, nemmeno nella parvenza di plebiscito del 1866, quando il cambio “aquila bicipite-croce bianca in campo rosso” fu sconveniente. Quella votazione dimostrò che l’urna non è propriamente un esempio di raccolta differenziata di rifiuti, sebbene anche i voti possano diventare spazzatura. Il Veneto aveva allora 1/8 della popolazione dell’Impero e forniva a Vienna ¼ delle proprie entrate. Si confronti pure quale percentuale di risorse Il Veneto deve ora consegnare allo Stato italiano.

L’inerzia popolare non meritava di appartenere a uno stato ordinato come quello austriaco. L’indolenza è infatti la più grave colpa delle persone per bene. L’Impero era come certe stelle che si vedono ancora benché siano spente da secoli, scrisse Robert Musil. L’ostilità di parte dell’opinione pubblica e della stampa dimostrò perfino indegnità nei confronti della garanzia di ideale unità della comunità.

Il Duca di Wellington (1769-1852) dispose che i capolavori asportati da Napoleone venissero restituiti ai rispettivi Stati. I protagonisti dell’operazione furono Antonio Canova (1757-1822) e il Barone Francesco di Ottenfels. Spettacolare fu il recupero dei cavalli di S. Marco. La quadriga era stata collocata sopra l’arco parigino del Carrousel e fu tolta il 1.X.1815 da ingegneri anglo-austriaci mentre la folla, tenuta a bada da 2 battaglioni di soldati austriaci e prussiani, imprecava. Due mesi dopo la quadriga era già all’Arsenale, dal quale uscì il 13 dicembre 1815 su una grande zattera verso S. Marco, dove erano in attesa l’Imperatore Francesco I° d’Austria (1768-1835), Metternich (1773-1859) e il Governatore delle Province Venete Arciduca Ranieri d’Asburgo (1783-1853). Furono sparati i rituali 21 colpi di cannone. Il pubblico criticò la presenza di bandiere austriache durante la cerimonia di ricollocazione dei cavalli nel portico della basilica.- Venezia non meritava la restituzione da chi essa nominava “iniquo oppressor”. Il pittore Vincenzo Chilone (1758-1839) realizzò un bel quadro sullo storico evento.

E’ giusto riflettere su una questione del genere perché l’assenza di gratitudine è una dimensione contro natura. Una atavica ritrosia popolare soffusa di ingenuità nei confronti della contiguità mitteleuropea non sarebbe configurabile senza lusinghe di interessi politici. Rimane la deviazione della stampa e dei poteri forti spesso integrata da infantile rassegnazione e priva di critica intellettuale. Si configura un futuro nel quale un popolo assente nelle proprie Istituzioni, dalla scuola alla pubblica amministrazione, è facilmente emarginabile e occupabile.

L’assetto in tal modo determinato in Veneto, privo di giusta misura e di proporzioni sensate, fu successivamente ampliato dalla storia tossica di regime ed è ben lungi dal decaffeinarsi.

Mentre la maggior parte della popolazione non si pone il problema, il senso di frustrazione timidamente percepito in certi settori dell’opinione pubblica è motivato. Una domanda sorge spontanea: sono state meritate nei secoli soluzioni e situazioni diverse?- Pare di no. L’orientamento romanocentrico integrato da estemporanea sudditanza, cioè favorevole a una realtà che non ha nemmeno contribuito alla fondazione di Venezia nelle antiche lagune, rimane stratificato nella deviazione dell’orologio della storia. A nessuno era venuto in mente che di questo passo non esisterà più un Paese, se mai è esistito, ma isole alla deriva (Pier Luigi Vercesi, Sette 8.01.2016). Si creda, tutto ciò assomiglia più a un disagio sociopsicologico che a un vanto.

Un cambiamento e un disincanto potranno tuttavia sempre intervenire prima o poi. Giovanni Paolo II° si lasciò sfuggire nell’aprile 2003 la frase subito censurata dalla stampa italiana:”anche l’impero di Roma fu grande, ma infine crollò”. Non si può mai sapere, ma saranno i mercati a determinare tutto. Pure il tempo avrà il suo ruolo. Il tempo non è infatti soltanto denaro, ma anche quasi tutto il resto. Politica, istruzione, opinione pubblica, mass media, disposizioni comunitarie, fedi religiose, dialettiche hegeliane….non avranno tuttavia alcun merito nel caso di specie. Con certi incontestabili precedenti Venezia dovrà sempre fare i conti e resiste il dubbio se la storia non sia ancora bastata.

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PAROLE  ANTICHE  A  ODERZO

Nel letto di morte la poetessa Gertrude Stein (1874-1946) chiese:”Qual è la risposta?”

Poichè nessuno parlava sorrise e aggiunse:”Diciamo allora, qual è la domanda?”

La domanda, appunto. Ci si è mai chiesto quali fossero i nomi dei cittadini e la lingua parlata a Oderzo nell’antichità?

L’unico vocabolo nei mosaici opitergini della caccia (III secolo d.C.) è “romanus”. Come sarà spiegato in seguito, non si trattava di un nome proprio, poiché l’unicità onomastica non era prevista nell’epoca di specie. Non poteva inoltre essere un aggettivo privo di contesto. Potrebbe invece essere il nome del levriero.

Il sistema uninominale romano esistette già dal VII° secolo a.C. (es. Romulus, Numitor.…). Comparvero poi nel sistema “tria nomina” il praenomen, cioè il nome di persona (solitamente abbreviato alla lettera iniziale nelle iscrizioni lapidarie), il nomen (che specificava la gens di appartenenza) e il cognomen nel periodo tardo repubblicano (modulato sulle caratteristiche personali: a Gneo Marcius fu attribuito il cognomen Coriolanus per le sue gesta nella conquista della città di Corioli). Esempio di “tria nomina: Marcus Servilius Quartus, rispettivamente praenomen, nomen, cognomen.- Dal II° secolo a.C. il praenomen scomparve e rimase la struttura binominale. Nel secolo d.C. si indebolì anche il nomen e prevalse nuovamente l’uso uninominale.

In realtà resistevano anche casi di onomastica completa e ampliata, come per esempio Marcus Aurelius Marci f. Quinti n. tribu Galeria Antonius Pius, domo Caesaraugusta:

Marcus : praenomen,

Aurelius: nomen (Gens Aurelia),

Marci f.: figlio di Marcus (patronimicus),

Quinti n. : nipote di Quinto (nome del nonno),

Tribu Galeria : Tribù di appartenenza (Spagna) [la tribù non aveva comune ascendenza ma una distribuzione geografica],

Antoninus : cognomen (famiglia degli Antonini),

Pius: agnomen (per la sua mitezza),

Caesaraugusta: città (Saragozza).

I liberti non appartenevano a una Gens e adottavano il nome dell’ex proprietario. Gli stranieri alleati latinizzarono il loro appellativo o lo inventarono. I soldati ausiliari non romani sceglievano il nome dell’Imperatore, aggiungendo il nome originale quale praenomen.- Le donne avevano soltanto il nomen. Nell’epoca romana il praenomen (nome proprio) era considerato parte della persona e nominarlo era pertanto considerato irrispettoso. Se necessario, il nome era seguito dal genitivo del padre o dello sposo (es.: Annia P. Anni senatoris = Anna figlia del senatore P. Annius).

L’epoca cui i mosaici risalgono è quindi caratterizzata dall’onomastica binominale. “Romanus” è uninominale: non si riferisce quindi a una persona.

Numerosi nomi sono impressi nelle lapidi conservate nel Museo Archeologico: Marco Fulvio Marcellino, Laetorius, Caio Ato, Januanus, Optato, Crutonio, Laelius, Levio, Aprilis, Peticius e Peticia, Petridio, Pontio, Popilia, Probata, Loeme, Quarta e Lucio, Secondo + Optato + Silvio, Sereno, Fulvio, Pisentia, Sestus, Socellio, Tuberone, Megabocchus, Varo, Veneteio, Vettia, Vettio, Volcenia, Filerone, Ragonio, Plauco….-

Nell’ordine si riferiscono a:

  • nobile locale del 2° sec. d.C. di origine istriana,

  • liberto etrusco,

  • nome di composizione gallica del venetico (raro con una sola “t”),

  • figlio adottivo = il suffisso “anus” è di derivazione preroamna,

  • liberto del periodo giulio-claudio,

  • liberto di origine etrusca,

  • liberto,

  • nome venetico,

  • liberto dalmato-istriano,

  • liberto e liberta non romani,

  • personaggio che non ricorre nell’onomastica romana,

  • liberto,

  • nome femminile celtico,

  • liberta del III° sec. d.C.

  • Nome non romano, probabile liberta,

  • liberti,

  • 3 liberti,

  • dal celtico “sarinus” (fine 1° sec. d.C.)

  • Fulvio non è un cognomen romano,

  • nome femminile etrusco,

  • nome gentilizio istriano, cognomen celtico

  • nome gentilizio venetico,

  • riferimento a difetto fisico della persona,

  • nome gentilizio veneto ( la gens “Vara” era locale, non romana)

  • nome gentilizio venetico,

  • liberta,

  • liberto,

  • nome di derivazione istro-veneta,

  • cognomen germanico (Le “Vires” erano divinità locali celto-germaniche),

  • appartenente alla gens di Oderzo,

  • straniero del 2°/3° sec. d.C. Non identificabile,

  • nomi ordinali: probabile serie di liberti…..tutti non romani, perché i romani non potevano essere schiavi.

Rimane da chiedersi quale lingua si parlasse allora a Oderzo. Per gli atti ufficiali si usava, come ovunque, il latino. Pochi lo sapevano ma non difettava l’emulazione. Il risultato potrebbe essere confrontato con l’attuale competenza linguistica italiana pressi il Monticano, di cui i seguenti aggiornati esempi:

  • nelle processioni di qualche decennio fa si sentiva cantare “Dio di cremenza, Dio sarvator , sarva l’Italia e Roma del tuo sacro cuor”;

  • alla richiesta del gradimento di una domenica senza auto fu risposto “piacissimo!” (TG 1, 23.01.2005);

  • e che dire di un padre diplomato in un noto istituto, che rimproverò il figlio reduce dalla reiterata rievocazione storica capitolina per aver indossato la maglia con il davanti su per il di dietro?

Per i rapporti personali quotidiani, diciamo così, c’era l’antica lingua venetica (in cui il fuoco si chiamava “ougon” e l’ombra “tna) magari integrata da celtismi e termini pannonici indispensabili alla vocazione commerciale della città.

Poiché le lapidi funerarie indicano soltanto gente in grado di permettersi una tomba, non ricorrendo casati romani, significa che il tessuto sociale abbiente e produttivo di Oderzo era costituito da dimensioni non romane. Soltanto una storia tossica di regime può sostenere il contrario. Unicamente un letargo esistenziale collettivo integrato da un impacciato sussiego può illudersi di modificare il passato. Notevole è l’istanza in un compito in classe di uno scolaro di IV elementare:”Se ci voltiamo indietro da dove ci hanno detto di andare, quello è il nord”.

(Pubblicato da “IL DIALOGO”, Oderzo, maggio 2016).

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I L    V E N E T O    E    L A    S T O R I A

Si comincia a vivere quando si inizia

a dubitare di tutto quello che ci ha preceduti”

(Socrate)

Nel 1859 il Ducato di Piemonte era già diventato Regno di Sardegna grazie al trattato dell’Aia del 1720. Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878) ne era il Re.- A Vienna regnava Francesco Giuseppe d’Asburgo (1830-1916). A Parigi imperava Napoleone III (1808-1873).

La cosiddetta seconda guerra d’indipendenza, in realtà “campagna d’Italia” per l’assunzione del comando da parte dell’Imperatore francese, era durata soltanto due mesi. Il 24 giugno 1859 i franco-piemontesi vinsero a S. Martino e Solferino. Si precisa che i combattenti piemontesi provenivano in buona parte dalle valli occitane e aostane ed erano quindi di etnia non italiana. La Lombardia passò sotto la sovranità piemontese.

Nel 1866 la Prussia, governata da Guglielmo I° (1797-1888), dichiarò guerra all’Austria e invitò l’Italia, costituita nel Regno omonimo dal 1861, a partecipare per future espansioni nonostante il dislocamento di 80.000 militari italiani contro il cosiddetto “brigantaggio” e le ipoteche governative per Roma, la città dei Papi, dei Cesari e dei Vespasiani.

La Francia rimase neutrale e per Vienna fu un sollievo. Dopo breve attesa per rendersi conto dei primi successi prussiani, l’Italia partecipò agli scontri ritenendo la guerra giusta e santa, ch’era necessità e dovere di farla”, come scrisse Edmondo De Amicis.- Un anticipo di futuri atteggiamenti datati 1918 e 1940?

Il 24 giugno ci fu uno scontro italo-austriaco presso Custoza. “Un battaglione proveniente da Bari sconcertò la popolazione per lo stato lurido dell’equipaggiamento, la sudiceria delle persone e la cattiva composizione del personale di bassa forza, il quale conteneva individui noti sfavorevolmente come dediti al furto”, si legge in un rapporto militare.

La battaglia di Custoza, vicino a Sommacampagna, andò talmente male che il Generale prussiano Helmuth von Moltke si sentì in dovere di chiedere spiegazioni all’alleato Stato Maggiore italiano. Dopo un iniziale tentativo di suicidio, peraltro non riuscito, il Generale Alfonso La Marmora ordinò ai soldati di attraversare i villaggi in silenzio per non attirare l’attenzione degli abitanti.

Ai primi di luglio i Prussiani vinsero a Königsgrätz e per l’Italia fu obbligatorio ricercare un trionfo riparatore. Il Re incaricò l’Ammiraglio Carlo Pellion di Persano di cercare un successo in mare.- Si fa presto a dire Ammiraglio!- I gradi per gli ufficiali superiori in Marina sono: capitano di corvetta, capitano di fregata, capitano di vascello. Per gli ammiragli invece: contrammiraglio, ammiraglio di divisione, ammiraglio di squadra, ammiraglio di Stato Maggiore.- In verità Persano non era mai stato promosso ammiraglio di Stato Maggiore. Si autoproclamò tale quando fu ministro della difesa nel 1862.- Si giunse così alla sfida di Lissa/ Vis, isola croata: caddero 123 marinai austriaci e 638 italiani in quel 20 luglio 1866!- I libri contabili della storia pesano ancora troppo.

A Bezzecca/Baeseck vicino Ledro Garibaldi ebbe maggiore fortuna il 21 luglio 1866 disponendo di truppe tre volte superiori. Le perdite furono tuttavia rilevanti. I bersaglieri italiani furono talvolta confusi per le loro uniformi grigie come quelle degli austriaci e colpiti dal fuoco amico”.

La terza guerra d’indipendenza poteva considerarsi finita con l’armistizio e la pace? No. L’esercito fu mandato a Palermo dal 16 al 22 settembre per domare una grave rivolta popolare.

Dalle due sconfitte scaturì il “complesso di Lissa e Custoza”, che diventò rapidamente uno dei più solidi (cattivi) luoghi della memoria della storia italiana”, come fu giustamente scritto. Un complesso che fu superato soltanto dalla frustrazione per la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917), per la quale fu poi escogitata la battaglia di Vittorio Veneto (4 novembre 1918) che è più fantasiosa della Elsinore nell’Amleto di Shakespeare e del palazzo di Menelao nel Faust di Goethe”.

L’Austria aveva subito una sconfitta. L’Italia aveva riportato invece due gravi sconfitte, ma si riuscì a proclamare perdente la prima e vincitrice la seconda!- Si, ci sarebbe veramente materia per ragionare su che cosa la scuola insegni alla gioventù.- Anche Trilussa ne era convinto quando scrisse i 6 versi suLi sbafatori de la gloria”:

Un’Aquila reale

s’era trovata doppo una vittoria un fottio

di pidocchi sotto l’ale.

Allora disse a Giove :- O sommo Dio!

 se, come spero, passerò alla Stor a

Nun ricordà chi c’era al fianco mio!-”

Il 5 luglio 1866 il Veneto, il Mantovano e parte del Friuli(compreso Portenau/Pordenone, antico feudo della Casa d’Asburgo che era già Austria prima ancora che l’Austria esistesse)  furono ceduti dall’Austria alla Francia, che li accettò con gratitudine per la neutralità francese nel conflitto austro-prussiano appena terminato. Le trattative si svolsero nel presupposto che il vincitore valesse più del vinto, senza fornire una motivazione plausibile per tale pretesa. Sarebbero stati esclusi dalla cessione alcuni dipinti conservati nelle raccolte. Parigi non escludeva la possibilità di usare la regione come scambio in eventuali controversie internazionali. Non si può mai sapere. Nel frattempo tuttavia la regione avrebbe avuto una collocazione più compatibile con l’evoluzione dei tempi.- Con la fine della Serenissima il futuro del Veneto non era più sul mare. Il suo destino era la contigua Mitteleuropa! Fu invece imboccata la direzione mediterranea con ingenua colpevolezza.

A non avere pareri sono buoni tutti. Diventa abilità avere opinioni e conservarle come matrice speculativa per future utilità. Michel de Montaigne aveva sostenuto nei suoi Saggi: “Non c’è da meravigliarsi, dice un antico, che il caso possa tanto su di noi, perché noi viviamo per caso”.

Non si dovette aspettare molto. Il Re d’Italia pretendeva che la Francia restituisse o risarcisse i numerosi capolavori d’arte trafugati da Napoleone I. In realtà il Congresso di Vienna e l’Imperatore Francesco d’Asburgo con il sostegno del Principe di Metternich avevano già realizzato alcune reintegrazioni. Tra queste la ricollocazione dei famosi cavalli di San Marco nella immeritevole Venezia.

Il giudizio di merito su Venezia non è infondato. Arthur Wellesley, Duca di Wellington (1769-1852), dispose dopo la battaglia di Waterloo (18 giugno 1815) la restituzione ai rispettivi Stati dei capolavori asportati da Napoleone I. Incaricati dell’operazione furono l’eminente commissario del Papa Antonio Canova (1757-1822), e il mediocre Barone Francesco di Ottenfels-Gschwind. A Canova era stato demandato anche il recupero delle 100 scritture di cui al trattato di S. Nicola di Tolentino (1796).- Il più diligente fu comunque il Principe Klemens di Metternich (17731859), il quale assegnò a Canova una scorta armata per continuare l’opera.

Spettacolare fu il recupero dei cavalli di S. Marco dall’arco parigino del Carrousel effettuato il 1 ottobre 1815 da ingegneri anglo-austriaci mentre la folla parigina, tenuta a bada da 2 battaglioni di soldati austriaci, imprecava. Due mesi dopo la quadriga si avviava dall’Arsenale su una grande zattera in direzione di S. Marco, dove la aspettavano l’Imperatore Francesco I (1768-1835), lo stesso Metternich e il Governatore delle Province Venete (Arciduca Ranieri d’Asburgo, (1783-1853) con 21 colpi di cannone. Il pubblico criticò la presenza di bandiere austriache durante la cerimonia di ricollocazione dei cavalli nel portico della basilica. Forse i veneziani non meritavano la restituzione da parte di chi essi chiamavano “iniquo oppressor”. Il pittore Vincenzo Chilone (1758-1839) realizzò un bel quadro sullo storico evento. Ricordarlo è un obbligo non solo storico ma civile. Oh, i pittori veneti! Le loro opere non fanno altro che lottare per rendere la Regione più consapevole, dopo la smentita dell’asserzione di Goethe nelle Considerazioni su Venezia:”Fu per puro caso che i Veneziani diventassero in seguito scaltri mentre tutto il mondo settentrionale era nell’incoscienza”. Ma è questo che i cittadini vogliono veramente?

Non tutto sarebbe stato in realtà restituito da Parigi nel 1815. La Gioconda, per esempio, in quanto oggetto di regolare acquisizione. La richiesta di un grande risarcimento da parte di Vittorio Emanuele II non sarebbe stata tuttavia infondata e l’eventualità preoccupava molto l’Imperatore Napoleone III.- Per correttezza si precisa tuttavia che le pretese italiane non includevano il prezioso ‘bidèt’ d’oro costato 56.000 franchi-oro e donato alla Contessa di Castiglione (imperatrice senza impero) per i suoi servizi in carne, ossa e manomorta compresa , come si suol dire. La mancia fu infatti successiva alla imprese napoleoniche.-

Il trasferimento del Veneto all’Italia con destino vincolato nella romanità e ignorando la stratificazione storica avrebbe quindi potuto decaffeinare le aspettative dei Savoia e così fu. Il Veneto conobbe una regressione peninsulare anziché un passo continentale nonostante il “Dna mentale” mitteleuropeo, distante dall’appartenenza allo Stato della Chiesa. Non si dimentichino le certezze di Benedetto Croce:”Il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia”. La storia del Veneto non coincide con quella italiana. E nemmeno le entrate fiscali, che nel Lombardo-Veneto costituivano pur sempre un quarto di quelle dell’Impero Austro-Ungarico. Non una cosa da poco.- Nel linguaggio diplomatico internazionale la transazione assunse comunque gli estremi del disonore. – I padroni cambiano, la servitù rimane.

Cera stato il plebiscito. Ma si trattò di un affare amministrativo italiano avulso da qualsiasi principio giuridico internazionale. – “Per ragioni dimostrative” sostenne a pagina 86 il Jadronski koledar del 1966. Qualora la consultazione fosse risultata sfavorevole per l’italia, solo la Francia avrebbe avuto il potere di intervenire in questa sua questione interna.

Che cosa riserverà il futuro al Veneto non si sa. Quando l’Unione Europea si dissolverà (o muterà le proporzioni sociopolitiche) ci saranno probabilmente un nuovo “Congresso di Vienna”, nuovi equilibri e aggiornate prospettive. Non si può mai sapere. Nella vita si è talvolta albero e talvolta cane.

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A N T I C A O P I T E R G I U M

L’insegnamento e l’opinione pubblica possono derivare da una storiografia deviata che confonde la cittadinanza con l’identità, come è talvolta il caso di Oderzo.

Opitergium esisteva già nell’età del bronzo. Non fu mai conquistata da Roma. Il suo nome non fu certo attribuito dai Romani. Gli equilibri politico-territoriali dell’anno 90 d.C. conferirono anche agli opitergini la cittadinanza romana, ma alleati non significa colonizzati o integrati.

La romanità di Oderzo fu una vaga scoria lassativa di regime. Se così non fosse, si potrebbe parlare anche di dimensioni storiche bizantine fino al 751, longobarde fino al 774, e così via, ma l’eventualità non ricorre. Oppure si potrebbe immaginare una romanità della Libia o di Bath nel Somerset, che furono colonie.

Quando si assiste a fiere affermazioni di romanità di Oderzo, viene in mente un giornale pisano politicizzato che, tra il 1945 e il 1953, riportava i risultati calcistici delle squadre locali accanto ai successi del campionato sovietico. I maggiori anticorpi a certi malintesi derivano tuttavia dalla storia usando i metodi comparativo e deduttivo.

La supposta romanità (non è un medicinale da assumere per via esclusiva!) deriva soprattutto dal rinvenimento di mosaici pavimentali realizzati tra il 1° e il 3° secolo d.C., che hanno indotto la dedica di una via nella toponomastica cittadina. Tra questi reperti spiccano per importanza le scene di caccia che in un caso evidenziano le lettere R.O.M.A.N.U.S.- Più chiaro dunque di così, dicono gli zelanti!

Invece no.- In Tunisia è stato rinvenuto un mosaico commissionato da un ricco locale di nome MAGERIO, solito a finanziare spettacoli con belve. Vi sono raffigurati quattro leopardi: accanto a ciascuno si legge il nome secondo la consuetudine del tempo.- Le lettere R.O.M.A.N.U.S. (tra l’altro inserite con la tarda prassi venetica della punteggiatura estesa anche alle consonanti finali dei vocaboli) si riferiscono, pertanto, al nome del cane.

Ben altre considerazioni decaffeinano tuttavia la congettura.

La città romana era caratterizzata dalla presenza della classe oziosa dei notabili. C’erano disprezzo e diffidenza per realtà connotate dai lavoratori logicamente appartenenti alla schiavitù. Nel 215 un Imperatore fece espellere i contadini che volevano risiedere in città. La motivazione fu che “essi non erano adatti alla vita cittadina”.

Opitergium era commerciale, attiva, industriosa…- Non era quindi una città romana, come spiegato nell’opera “La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille” (Oscar Mondadori 1993, pag. 83).

Ogni artigianato è sordido e lo è anche il commercio in quanto fonte di lucro”, sosteneva Cicerone. Come ascrivere tale condizione a Oderzo, commerciale sia etimologicamente (Oterg = mercato in venetico) che storicamente?- “Le arti popolari, le arti sordide, erano, secondo il filosofo Posidonio, quelle dei lavoratori manuali, che impiegavanotutto il loro tempo per guadagnarsi da vivere. Sono mestieri che non hanno alcuna bellezza e che non hanno nulla a che fare col BENE”, precisava Seneca.-

Aristotele sosteneva che “i lavoratori non saprebbero governare la città. Del resto non ci pensavano nemmeno”, e i Romani fecero diligentemente proprio questo principio divulgato dall’ellenismo. Inoltre “la massa dei lavoratori manuali costituisce una folla spregevole, destinata a produrre gli oggetti necessari alla vita degli uomini virtuosi”, insisteva il mistico Plotino.- Ci vuole veramente una grande fantasia per applicare alla operosa Opitergium queste etichette australi!

Non può mancare un confronto su aspetti unificanti per definizione: la morte.

Le iscrizioni sepolcrali romane recitano: “leggi, passante, che posto ho tenuto nel mondo….E ora che mi hai letto, buon viaggio”.- La risposta del passante compariva preventivamente sulla pietra: “salute anche a te”.- Spesso gli epitaffi erano più espliciti:”Finché mi è stato concesso di vivere ho vissuto da avaro e perciò vi consiglio di concedervi più piaceri di quanto non abbia fatto io. Questo è la vita: si arriva a questo passo, non oltre. Amare, bere, andare ai bagni, ecco la vera vita; dopo non c’è più nulla. Io non ho mai seguito il consiglio di qualche filosofo. Diffidate dei medici, sono stati loro a uccidermi”.- Non mancano inoltre menzioni di offerte onorifiche di zafferano (profumo pregiato) da parte di concittadini per profumare il rogo al momento della cremazione della salma.

L’esame delle iscrizioni funebri opitergine nel Museo Archeologico rileva solo i nomi, l’eventuale parentela e la condizione sociale dei defunti. Si noti che questi erano sovente liberti, cioè non romani, come l’onomastica dimostra. Si ha motivo di ritenere che anche le 36 epigrafi scomparse nel 1857 durante il trasloco da villa Galvagna alla nuova raccolta contenessero i medesimi estremi. –

I Romani si facevano invece sepellire nel 2° secolo d.C. in sarcofaghi decorati con bassorilievi che non hanno nulla di funerario (nel Museo del Louvre si ammira una Diana scoperta nuda dall’indiscreto cacciatore Atteone, che viene divorato dai cani della dea!). Ne consegue l’intento di esorcizzare la paura della morte mediante il prodigio della decorazione.- Ogni parallelismo tra costumi funerari romani e opitergini è inconsistente.

A N T I C A                O P I T E R G I U M

L’insegnamento e l’opinione pubblica possono derivare da una storiografia deviata che confonde la cittadinanza con l’identità, come è talvolta il caso di Oderzo.

Opitergium esisteva già nell’età del bronzo. Non fu mai conquistata da Roma. Il suo nome non fu certo attribuito dai Romani. Gli equilibri politico-territoriali dell’anno 90 d.C. conferirono anche agli opitergini la cittadinanza romana, ma alleati non significa colonizzati o integrati.

La romanità di Oderzo fu una vaga scoria lassativa di regime. Se così non fosse, si potrebbe parlare anche di dimensioni storiche bizantine fino al 751, longobarde fino al 774, e così via, ma l’eventualità non ricorre. Oppure si potrebbe immaginare una romanità della Libia o di Bath nel Somerset, che furono colonie.

Quando si assiste a fiere affermazioni di romanità di Oderzo, viene in mente un giornale pisano politicizzato che, tra il 1945 e il 1953, riportava i risultati calcistici delle squadre locali accanto ai successi del campionato sovietico. I maggiori anticorpi a certi malintesi derivano tuttavia dalla storia usando i metodi comparativo e deduttivo.

La supposta romanità (non è un medicinale da assumere per via esclusiva!) deriva soprattutto dal rinvenimento di mosaici pavimentali realizzati tra il 1° e il 3° secolo d.C., che hanno indotto la dedica di una via nella toponomastica cittadina. Tra questi reperti spiccano per importanza le scene di caccia che in un caso evidenziano le lettere R.O.M.A.N.U.S.- Più chiaro dunque di così, dicono gli zelanti!

Invece no.- In Tunisia è stato rinvenuto un mosaico commissionato da un ricco locale di nome MAGERIO, solito a finanziare spettacoli con belve. Vi sono raffigurati quattro leopardi: accanto a ciascuno si legge il nome secondo la consuetudine del tempo.- Le lettere R.O.M.A.N.U.S. (tra l’altro inserite con la tarda prassi venetica della punteggiatura estesa anche alle consonanti finali dei vocaboli) si riferiscono, pertanto, al nome del cane.

Ben altre considerazioni decaffeinano tuttavia la congettura.

La città romana era caratterizzata dalla presenza della classe oziosa dei notabili. C’erano disprezzo e diffidenza per realtà connotate dai lavoratori logicamente appartenenti alla schiavitù. Nel 215 un Imperatore fece espellere i contadini che volevano risiedere in città. La motivazione fu che “essi non erano adatti alla vita cittadina”.

Opitergium era commerciale, attiva, industriosa…- Non era quindi una città romana, come spiegato nell’opera “La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille” (Oscar Mondadori 1993, pag. 83).

Ogni artigianato è sordido e lo è anche il commercio in quanto fonte di lucro”, sosteneva Cicerone. Come ascrivere tale condizione a Oderzo, commerciale sia etimologicamente (Oterg = mercato in venetico) che storicamente?- “Le arti popolari, le arti sordide, erano, secondo il filosofo Posidonio, quelle dei lavoratori manuali, che impiegavanotutto il loro tempo per guadagnarsi da vivere. Sono mestieri che non hanno alcuna bellezza e che non hanno nulla a che fare col BENE”, precisava Seneca.-

Aristotele sosteneva che “i lavoratori non saprebbero governare la città. Del resto non ci pensavano nemmeno”, e i Romani fecero diligentemente proprio questo principio divulgato dall’ellenismo. Inoltre “la massa dei lavoratori manuali costituisce una folla spregevole, destinata a produrre gli oggetti necessari alla vita degli uomini virtuosi”, insisteva il mistico Plotino.- Ci vuole veramente una grande fantasia per applicare alla operosa Opitergium queste etichette australi!

Non può mancare un confronto su aspetti unificanti per definizione: la morte.

Le iscrizioni sepolcrali romane recitano: “leggi, passante, che posto ho tenuto nel mondo….E ora che mi hai letto, buon viaggio”.- La risposta del passante compariva preventivamente sulla pietra: “salute anche a te”.- Spesso gli epitaffi erano più espliciti:”Finché mi è stato concesso di vivere ho vissuto da avaro e perciò vi consiglio di concedervi più piaceri di quanto non abbia fatto io. Questo è la vita: si arriva a questo passo, non oltre. Amare, bere, andare ai bagni, ecco la vera vita; dopo non c’è più nulla. Io non ho mai seguito il consiglio di qualche filosofo. Diffidate dei medici, sono stati loro a uccidermi”.- Non mancano inoltre menzioni di offerte onorifiche di zafferano (profumo pregiato) da parte di concittadini per profumare il rogo al momento della cremazione della salma.

L’esame delle iscrizioni funebri opitergine nel Museo Archeologico rileva solo i nomi, l’eventuale parentela e la condizione sociale dei defunti. Si noti che questi erano sovente liberti, cioè non romani, come l’onomastica dimostra. Si ha motivo di ritenere che anche le 36 epigrafi scomparse nel 1857 durante il trasloco da villa Galvagna alla nuova raccolta contenessero i medesimi estremi. –

I Romani si facevano invece sepellire nel 2° secolo d.C. in sarcofaghi decorati con bassorilievi che non hanno nulla di funerario (nel Museo del Louvre si ammira una Diana scoperta nuda dall’indiscreto cacciatore Atteone, che viene divorato dai cani della dea!). Ne consegue l’intento di esorcizzare la paura della morte mediante il prodigio della decorazione.- Ogni parallelismo tra costumi funerari romani e opitergini è inconsistente.

Anche le mentalità religiose romana e venetica furono incompatibili. La prima non contemplava né l’aldilà né la salvezza. La seconda dichiarava la brama delle lontananze celesti, cioè del paradiso. C’è qualcuno tanto amabile da ravvisare una identità di grammatica spirituale, oppure di identità culturale tra le realtà di Roma e di Oderzo?

Anche le mentalità religiose romana e venetica furono incompatibili. La prima non contemplava né l’aldilà né la salvezza. La seconda dichiarava la brama delle lontananze celesti, cioè del paradiso. C’è qualcuno tanto amabile da ravvisare una identità di grammatica spirituale, oppure di identità culturale tra le realtà di Roma e di Oderzo?

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                   L E      P A S Q U E     V E R O N E S I

Una tanto distorta quanto inaccettabile immagine del Veneto indica la Regione come una tomba vuota, capace di ricevere qualsiasi cadavere.- Gli avvenimenti della primavera del 1797, i moti dal 1799 al 1809 e la reazione ai numerosi soprusi napoleonici dimostrano il contrario.

                                                “Ogni popolo parla con la propria lingua del bene e del male

                                                                                                            (F.Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

In una lapide di una chiesa tedesca si legge:”Quum divus Marcus paschabit – et Antonius pentecostabit – atque Johannes corpus dabit – totus mundus lacrimabit” (Quando San Marco cadrà di Pasqua, Sant’Antonio di Pentecoste e San Giovanni Battista per il Corpus Domini, tutto il mondo lagrimerà).

Secondo la formula dell’astronomo tedesco C. Friedrich Gauss (1777-1855), che non si discosta molto dal cosiddetto metodo delle “Epatte” usato per l’individuazione annuale della Pasqua, in 56 secoli tale circostanza dovrebbe verificarsi soltanto 48 volte. Per limitarci a tempi realistici, il fatto si registrò nel 1797, nel 1886 e nel 1943. La prossima volta sarà il 2038.

Il 31 maggio 1796 Napoleone era a Peschiera e aveva convocato Niccolò Foscarini – Provveditore Generale delle provincie venete di terraferma – per rinfacciargli l’ospitalità offerta da Verona (città dove il Conte risiedeva) al Conte di Lilla e di Provenza, cioè al futuro Re francese Luigi XVIII. Si trattava di un pretesto per occupare la città scaligera. Dodicimila soldati francesi comandati dal Generale Andrea Massena (1758-1817) vi entrarono infatti il giorno successivo con i cannoni carichi e le micce accese, pronti a far fuoco su un popolo silenzioso e preoccupato.

L’occupazione francese non tardò a far sentire i propri effetti: requisizioni, pesanti tributi, costose forniture di scarpe e viveri, molti soprusi ai danni degli abitanti.

Il 30 luglio successivo il Generale austriaco Dagobert Wurmser (1724-1797), intenzionato a cacciare i Francesi da Mantova e possibilmente dalla Lombardia, venne accolto festosamente a Verona. La speranza durò soltanto cinque settimane, perché l’armata austriaca fu sconfitta a Lonato e a Castiglione. L’8 agosto ricominciarono a Verona le ruberie e le prepotenze francesi. Si legge in una cronaca di quel tempo:”La loro indisciplina è somma, né veruna tema e rispetto mostrano pei loro ufficiali e superiori: somma è la loro crapula”.- Altri dettagli informano che, se due secoli fa fosse esistita l’AIDS, molti occupanti di Verona sarebbero stati considerati “soggetti a rischio”, come oggi si direbbe.

Napoleone intanto collezionava vittorie: Arcole, Rivoli, Mantova, Tolentino. Si era alla vigilia dei preliminari di Leoben (18 aprile 1797).

A Verona risiedevano, per la verità, ancora i rappresentanti della Repubblica di San Marco. Il Senato Veneto aveva tuttavia raccomandato la massima neutralità. Il Podestà Contarini, il Vescovo Giovanni Andrea Avogadro ed i Proveveditori Andrea Erizzo e Piovanelli non nascondevano invece la loro simpatia per il fermento popolare sempre più diffuso.

Il 17 aprile 1797 cominciò a circolare in Verona la voce che i Francesi avevano preteso il disarmo della guarnigione veneta costituita dai tradizionali “Schiavoni”. Si diceva pure che Padova avesse chiesto l’intervento e l’aiuto dell’Austria.- La folla uscì eccitata dalla chiesa di San Zeno, uccise un comandante francese di battaglione, gettandone il cadavere nell’Adige. Squadre di rivoltosi intercettarono gli occupanti e per le vie della città le uccisioni diventarono numerose.

Un gruppo di antinapoleonici entrò nell’ospedale di San Bernardino, uccidendovi i soldati francesi feriti. Ancora una volta fu confermata la regola, secondo la quale, purtroppo, nei disordini hanno il sopravvento i ribaldi.- Quanto al resto bisognerebbe ricordare ciò che disse un capo indiano d’America circa nello stesso periodo di tempo:”Quando vincono i Pellerossa, si parla di strage; quando vincono i Bianchi, si parla di vittoria”.

Nei giorni seguenti giunsero in città contingenti di montanari e la lotta si fece più violenta: caddero i presidi di alcune fortificazioni, per cui diminuirono i bombardamenti dell’artiglieria francese e sparirono i drappelli di militari per le vie. Il Podestà e i due Provveditori avevano intanto trovato asilo a Vicenza, forse per non compromettere l’ormai ridicola neutralità veneziana.

All’improvviso e contro ogni attesa il Senato Veneto promise l’invio di 2000 soldati e di artiglieria. E’ ovvio dire che la notizia infuse nuovo vigore ai combattimenti intesi alla completa eliminazione dei contingenti francesi agli ordini del Generale Antoine Balland (1751-1821), che ancora occupavano i forti di Castel Vecchio, Sal Felice e San Pietro.

Purtroppo l’attesa dei rinforzi promessi fu vana. Arrivarono, invece, altri 3000 francesi comandati dai Generali Chabrum e Giuseppe Lahoz Ortiz (1766-1799), integrati da alcuni battaglioni lombardi!- Furiosi combattimenti ebbero luogo tra gli insorti veronesi e le nuove guarnigioni napoleoniche a Pescantina. Gli improvvisati combattenti veronesi furono sconfitti. Altri tentativi e focolai di resistenza non mancarono, ma altre truppe francesi fresche arrivarono al comando dei Generali Jean Victor (1763-1813) e Charle Kilmaine (1751-1799).

Il 23 aprile gli inviati di Verona, che speravano in una onorevole composizione delle ostilità, vennero trattati con estrema durezza dal loro interlocutore Generale Balland, il quale pretese la consegna di ostaggi, tra i quali anche il Vescovo.

A capo della nuova Municipalità fu nominato un uomo di prestigio: Benedetto Del Bene (1749-1825).- Il 27 aprile ogni traccia di resistenza era cancellata e la città si preparò a subire la vendetta dei vincitori: tra le vittime ci furono anche il frate cappuccino Mario Franzini e il Generale Augusto Verità.

La sinistra previsione della lapide nella chiesa tedesca ebbe così una conferma che si concluse ancor più tristemente il 12 maggio successivo, allorché il Gran Consiglio stesso decretò (senza avere nemmeno la maggioranza richiesta) l’abolizione della gloriosa e millenaria Repubblica di San Marco “a cenni, a dito del vincitore”, come puntualizzò il Balbo.

Bisognerà attendere il gennaio 1798 per registrare miglioramenti nella scena politica e sociale veneta, essendo cambiata provvisoriamente una realtà che in linguaggio moderno si chiama “zona di influenza”.

Le Pasque Veronesi certamente non rappresentarono fulgidi fatti d’arme, ma furono la testimonianza di un’idea di resistenza. Secondo Aristotele, un’idea vale più di tutto. Essa è la vita.

                              C O R S I     E     R I C O R S I

Strepiade era un agiato agricoltore ateniese secondo il dramma di Aristofane (450 – 385 a.C.) rappresentato nell’anno 423 della nostra era. Suo figlio si chiamava Filippide, da non confondere con l’omonimo primo maratoneta della storia, la cui impresa è collocabile nell’anno 490 in coincidenza con la battaglia di Maratona secondo Plutarco (48 -127 d.C.).

Il padre era preoccupato a causa della compulsiva passione  del figlio per il gioco in generale e per le corse dei cavalli in particolare. Per questi vizi il giovane aveva contratto grandi debiti e il genitore non era più in grado di pagare i creditori. Egli cercò quindi un maestro che insegnasse il modo di avere ragione quando si aveva torto: Socrate (470 – 399 a.C.).

Filippide non volle ascoltare le lezioni del filosofo. Strepiade stesso  pensò allora di frequentare la scuola al posto del figlio, ma ne fu espulso per insufficiente capacità.- Il giocatore si pentì e frequentò finalmente il “pensatoio“, dove imparò da Socrate i ragionamenti più sofistici che gli fruttarono la remissione di ben due grandi debiti!

 La nuova situazione avrebbe dovuto essere soddisfacente. Invece no. Il figlio maltrattò gravemente il padre e, alle rimostranze di quest’ultimo, oppose i sofismi imparati: sebbene fosse nel torto, con le nuove argomentazioni collaudate egli si trovava nel giusto!

Circa quattordici secoli e mezzo più tardi si può immaginare di sostituire i fattori della vicenda narrata da Aristofane: tempi, località, vicende…., personaggi.- Il risultato non cambia se si usano i sofismi. Come avviene nell’addizione geometrica, l’esito non è diverso se si spostano gli addendi.

L’epoca da  considerare dovrebbe essere allora nel caso di specie circa il 1866, al tempo della guerra austro-prussiana. La zona dovrebbe chiamarsi, invece che Grecia, Mitteleuropa.- Ai debiti di gioco si dovrebbero sostituire rivendicazioni politico-finanziarie italiane.- Al posto di Strepiade l’Ateniese dovrebbe quindi risultare il preoccupato Imperatore parigino Napoleone III (1808 – 1873).- Il ruolo di Socrate potrebbe essere degnamente ricoperto da Otto Eduard Leopold von Bismarck-Schoenhausen (1815 – 1898). Il grande creditore  dovrebbe essere infine Vittorio Emanuele II di Savoia (1820 – 1878).

Come è noto, la guerra italo-prussiana contro l’Austria durò solo sette settimane, il tempo per riportare le sconfitte italiane di Custoza e di Lissa. La Francia rimase neutrale e il 5 luglio 1866 ottenne da Vienna il Veneto quale ricompensa: grazioso dono della Prussia destinato al neonato Regno d’Italia sorto da un accordo tra organizzazioni criminali ed esponenti risorgimentali.- La guerra terminò con la vittoria prussiana di Koenigsberg/Sadowa. Ciò funse, tra l’altro,  da catalizzatore nella contesa italo-francese sui numerosi e rilevanti  capolavori d’arte asportati da Napoleone I dai  vari Regni durante la campagna d’Italia. La loro restituzione, decretata dopo Waterloo (18 giugno 1815), era stata infatti poco più che simbolica.

La Francia non sarebbe stata tuttavia in grado di procedere in quel tempo a un congruo risarcimento. Anche l’immagine dell’Imperatore ne avrebbe sofferto. La cessione del Veneto (Stato legittimo dal 7 aprile 1815!) sarebbe invece sembrata una provvidenziale operazione a costo zero anche se sarebbe apparsa un incidente della storia: una semplice partita di giro per Parigi ma un grande vantaggio territoriale e politico per Roma.- La definitiva rinuncia a ulteriori richieste capitoline di indennizzo lo dimostra.

Bisognerà attendere  63 anni per assistere a un’altra transazione del genere, cioè quando fu risolta la questione romana nel 1929: il piccolo Stato della Città del Vaticano (una invenzione del regime!) al posto del vasto Stato della Chiesa.- La riconoscenza pontificia non fu poca cosa se si pensa che lo Stato Vaticano  fu il primo, dopo il III Reich, a riconoscere la conquista coloniale italiana dell’Etiopia. E’ proprio vero che la storia la fanno più i peccatori che i santi!

Tutto combacia, ma sono stati forse dimenticati i sofismi? Nemmeno per sogno: sarebbe come sottovalutare  le “riunioni di lavoro” dei nostri giorni. Solo che i sofismi si chiamano ora plebisciti o, se si preferisce, referendum.

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